Ry Cooder – Talking Country Blues and Gospel (Interview – 1ª part)

Talvolta le interviste migliori accadono in modo inaspettato. Facendo ricerche su Blind Willie Johnson, il sublime chitarrista slide prebellico texano, sono stato colpito dall’uso straordinario che Ry Cooder ha fatto della sua Dark Was The Night-Cold Was The Ground per la colonna sonora del film Paris, Texas. Mandai a Cooder una nota, chiedendogli se mi poteva lasciare un suo commento. Qualche giorno dopo, era il 25 febbraio 1990, squillò il telefono ed era proprio lui. Dopo aver parlato di Blind Willie Johnson, Ry spostò la conversazione su un altro Johnson, Robert e svelò uno dei grandi misteri che riguardano il grande Mississippi Delta bluesman. Continuate a leggere.

Sei arrivato più vicino di chiunque altro di mia conoscenza a suonare come Blind Willie Johnson.
Dio santo!

Come credi che suonasse lo strumento, proprio dal punto di vista fisico.
Beh, io suono la sua musica nel modo che conosco di suonare col bottleneck, imbracciare la chitarra, suonare fingerpicking con il bottleneck su un dito, nella stessa tonalità che so per certo usava lui. Ma non ho idea di come suonava e cosa suonasse. Voglio dire, chi lo sa? Appartiene ad un passato talmente remoto che tutto è possibile. Ho visto questo tipo, Rev. Leon Pinson, un predicatore cieco del Mississippi, suonare tenendo una barretta tra il pollice e un dito della mano sinistra, facendolo passare sotto il manico come ti aspetteresti e suonarla in questo modo fino ad ottenere un vibrato molto simile a quello di Blind Willie Johnson. Ha la capacità di arrivare quasi alla nota senza prenderla del tutto.

Quella che ho descritto è, per così dire, una tecnica inesatta, ma ti dà i quarti di tono e quelle strane sfumature. Quando suono sono ormai abituato a suonare la nota esatta. Vedi è un peccato che nessuno abbia mai pensato di fargli una foto mentre suonava, perché suonava in due stili diversi. Suonava anche in modo normale, adottando strumming e parti ritmiche suonate col pollice, come puoi sentire. Non ho idea di come suonasse, né che aspetto assumesse mentre lo faceva, sai sarebbe bastato osservarlo per due secondi per risolvere tutte queste domande.

Chi lo conosceva per averlo visto suonare per strada a Beaumont negli anni Quaranta dice che teneva la chitarra sulle ginocchia e la suonava con un coltellino.
Tenendola piatta?

Come un chitarrista hawaiano.
Non vedo come avrebbe potuto suonare quello che suonava in quel modo. Una cosa è suonare così, la stessa di Pinson che non suona con la chitarra tenuta piatta sulle ginocchia ma imbracciandola. Ora Blind Willie Johnson aveva grande destrezza, sapeva suonare tutte queste piccole e brillanti linee melodiche. Una favoloso ritmo sincopato. Faceva andare il pollice con molta forza. Quando ho visto suonare Pinson, l’estate scorsa giù al Sud, anche se non si avvicina nemmeno al livello di chitarrista di Johnson, alle mie orecchie quello che suonava me lo ha ricordato.

Non so come mai, è un suono diverso, non so dire il perché. Mentre suoni con un bottleneck, la tua mano è direttamente a contatto con le corde sia che tu utilizzi o meno la tecnica damping (stoppando cioè la vibrazione delle corde indesiderate n.d.t.). Hai un suono più controllato quando imbracci la chitarra e solo la barretta di metallo o la lama del coltello sono a contatto con le corde. La chitarra tende a risuonare di più, tende a mantenere le corde libere e aperte. E così si crea più suono, perché il suono di Johnson è molto dinamico. Non ho mai capito del tutto come facesse ad ottenerlo suonando così poco.  Pensavo, perché le corde suonano sempre tutte insieme? Perché la registrazione è terribile, la qualità è veramente pessima, probabilmente fatta con uno di quegli orrendi macchinari che elimina quasi tutti i suoni, tranne quelli più acuti.

Non si sente nulla degli effetti ambientali. Sono sicuro che ascoltato di persona, avrebbe avuto un suono totalmente differente. La registrazione ci fa sentire giusto il minimo comune denominatore, cioè la cosa più evidente, voglio dire che senti solo le note effettivamente suonate. Ma nonostante questo ti accorgi che le corde sono costantemente in movimento. E pensavo che ci volesse parecchio lavoro per farlo. Però sapevo anche che tutti questi vecchi musicisti primitivi, bluesmen e musicisti di strada, fanno di tutto per semplificare le cose ed evitare di fare un lavoro eccessivo. In quei pochi di loro che ho conosciuto questa efficienza è evidente. Se ci vuole troppo sforzo fisico vuol dire che stai facendo qualcosa di sbagliato. Da giovane non lo avevo capito e mi ostinavo a provarci, facendo una fatica tremenda, solo dopo ho capito di essere completamente fuori strada.

Stai dicendo che non faceva damping, stoppando le corde dietro lo slide?
So che non lo faceva. Anche se può darsi che usasse la mano destra, perché se suoni tenendo la chitarra sulle ginocchia, puoi utilizzare la mano nel modo come fanno i suonatori di chitarra steel, evitando la risonanza semplicemente avvicinandola alle corde, quasi sfiorandole. Si può fare molto in questo modo, ma personalmente non vedo come…beh certo, io non suono in questo modo.

Altri sostengono tenesse la chitarra normalmente e utilizzasse un coltello a serramanico per la slide.
Non saprei dirti, perché non ho fatto ricerche approfondite o letto molto, sono sicuro che tu ne sai più di me al riguardo, ma ho come la sensazione che quasi tutti i musicisti primitivi che non fossero del Mississippi, suonassero slide con la chitarra piatta. Leadbelly ad esempio. Altri chitarristi texani altresì. Perché quando i primi chitarristi hawaiani vennero ad una delle prime World’s Fair (la Columbia Exposition del 1893 a Chicago), tutti li videro e ne furono influenzati. L’impatto fu enorme. E tutti suonavano in quel modo, era diventato alla moda. Ora sappiamo che Blind Willie Johnson suonava normale per via di quella foto.

Eppure quando si trattava di suonare slide sono convinto che tutti imitassero gli hawaiani, del resto fa parte della natura umana, tenendo quindi la chitarra piatta sulle ginocchia. Tutti tranne in Mississippi, dove per qualche strana ragione non lo facevano, ma utilizzavano ossa, bottleneck o un coltellino come fosse un dito. Ma al di fuori del Mississippi la differenza si avverte, anche se non so se qualcuno abbia mai compiuto un serio studio storico al proposito. Perciò forse è vero che Johnson suonava come gli hawaiani, sarebbe straordinario, spiegherebbe i passaggi sulle corde. Ho provato a suonare in quello stile per tutta la vita, lavorando duramente ogni giorno. Beh non dicendomi consciamente «Ok oggi è martedì e proverò di nuovo a suonare come Blind Willie Johnson», ma ho quel suono in testa. Se parliamo poi di mettersi a suonare alcuni dei suoi pezzi, puoi seguire la melodia su una sola corda che faceva lui, è formidabile. E’ talmente bravo, davvero! Va oltre il suonare la chitarra.

Per me è una figura di musicista interplanetario, il tipo di persona di cui si parla nel libro del Nada Brahma, dove il mondo è suono e tutto risuona. Ce ne sono pochi come lui. In più era cieco, forse chiese a qualcuno come stavano suonando e glielo descrissero in qualche modo (si riferisce al modo di suonare hawaiano n.d.t.). Vorrei ne sapessimo di più di quello che la gente pensava di questi hawaiani, dovevano sembrare dei marziani, arrivando vestiti con le tipiche gonne e tutto il resto. E santo cielo, quanto erano bravi quei musicisti! Lo erano talmente che li hanno imitati tutti, dal Messico al Sud America. Sappiamo che da allora cominciarono a vendere chitarre steel che si suonavano a quel modo. Poi arriva qualcuno come, per dirne uno, Robert Johnson che spero proprio non suonasse così!

Johnny Shines di recente me lo ha confermato.
Sarebbe semplicemente impensabile, perché fa troppe altre cose che non puoi fare se suoni alla hawaiana. Questo spiega in parte la semplicità e la purezza di Blind Willie e il fatto che non riesco a suonarla. Proprio non posso, non riesco a coordinare il mio corpo in quel modo. Buon per lui se ci è riuscito. Quando ho visto Leon Pinson in Mississippi, sono tornato a casa, mi sono preso una barra di metallo e ho provato a suonare così. E’ stato strano ma dopo un paio di giorni ho cominciato ad intuire come si potesse suonare la roba di Blind Willie Johnson in quello stile. Non ho pensato subito che lo facesse anche lui, ma vedere quel che faceva Pinson mi ci ha fatto pensare. Se lo fai ti avvicini a quel suono e probabilmente è davvero così.

Pinson muoveva normalmente la mano attorno al manico?
Sì perché suona in modo normale, come tutti. Distinguono nettamente tra suonare slide e normale. Non li mischiano. Ci sono pochissime eccezioni, oggi come allora. E’ il tipo che dice «adesso suono slide», prende la sua barra di metallo, accorda la chitarra in una tonalità, di solito in Re come Johnson, e comincia a suonare senza fare accordi, non perché non li si possa fare con la slide, ma per una scelta precisa. Blind Willie non suonava quasi mai degli accordi, ci ho messo anni a capire che era la mia mente a immaginare che li suonasse, ma in realtà non lo faceva.

Suonava due o tre note e questo ogni tanto dava l’idea di un accordo. Musica modale, non voleva interferire con il bordone sulla tonica, non aveva nemmeno bisogno di farlo, suonava qualcosa di diverso. Se ascolti il vecchio Pinson, lui suona solo quartine senza servirsi delle triadi fisse e di regolari intervalli armonici. E’ sempre dissonante. Ed è proprio quello che non ci fanno percepire le incisioni di Blind Willie Johnson, perché non distingui bene i suoni e non riesci a capire fino a che punto fosse dissonante o politonale.

Non aveva un formidabile vibrato nella mano sinistra?
Oh il migliore! Senza dubbio. Un tocco molto leggero e rapido. E’ qualcosa di talmente perfetto che diventa difficile parlarne. Quel tipo di vibrato lo puoi ottenere muovendo lo slide nel modo giusto. Di questi tempi provo a farlo, anche se non ne ho una buona sensazione, vedo però che il suono che si ottiene è diverso, è la sola spiegazione che mi viene in mente. Mi piacerebbe anche sapere che tipo di chitarra avesse. Con tutta probabilità una piccola. Non avevano chitarre dal corpo grande, gli hillbilly sì ma verso la fine degli anni Trenta, quando la Gibson cominciò a produrre chitarre jumbo, ma in quel periodo credo che usassero strumenti più piccoli.

Cosa ti ha attratto in Dark Was The Night Cold Was The Ground?
Penso sia il pezzo più trascendente di tutta la musica americana, il modo in cui usa la voce e la chitarra. Un altro suo brano che amo moltissimo è God Moves On The Water. E’ come un ottovolante, una energia tale che sembra surfare sulla cresta dell’onda! Quando arriva al ritornello la sensazione fisica è incredibile, paragonabile non so al pattinaggio su ghiaccio o al downhill biking. Dark Was The Night ormai la conoscono tutti, puoi accennare quel lick e tutti la riconoscono. Io l’ho inserito in Paris, Texas, come sai. E’ una sorta di codice non verbale. Straordinario.

Penso che Blind Willie sia da qualche parte nell’etere, è senz’altro in quella zona. Se suonava alla hawaiana, …e a questo punto, parlando con te, mi sto quasi convincendo di questo, perché se suonava normale, sarei in grado di farlo anch’io. E in parte ci riesco, so suonare quelle note, ho imparato insomma. La mia comprensione e coordinazione si è sviluppata al punto che sono capace di eseguire quei passaggi, ma comunque se suonate alla hawaiana l’effetto è differente.

Quali dei bluesmen di prima generazione hai visto di persona?
Skip James, per poco però perché poi all’improvviso si è sentito male. I suoi dischi mi avevano impressionato moltissimo e non sapevo cosa aspettarmi, ma appunto quando l’ho visto stava male e sembrava una persona un po’ strana, quasi mi ritrassi. Ero molto giovane e non sapevo che fare, la sensazione non era positiva. I suoi dischi li ho consumati però. Ovviamente andavamo a sentire John Hurt e per me l’evento fu vedere Sleepy John Estes, perché mi piacevano molto i dischi. Qualche anno dopo quando ho avuto una macchina, sono andato al Sud a trovarlo e a suonare con lui. Andavo a casa sua a Brownsville, Tennessee, gli portavo soldi o altro, ma all’epoca già suonavo; da ragazzo invece lo vedevo quando veniva a suonare qui. La cosa strana vedendo musicisti come loro è che non eravamo pronti a vederli come cittadini del nostro mondo.

Sai noi ragazzini della classe media di Santa Monica, triste dirlo, non avevamo mai visto qualcuno così. Prendi Rev. Gary Davis, non ci capivamo nulla. Avevo dei dischi, anche se allora non era facile trovarne, ascoltavo i nastri o i 78 giri e pensavo «Di cosa sta parlando? Chi sono questi? Cosa dicono?». Era un viaggio misterioso, come Alice nel paese delle meraviglie. In più, a causa della giovane età, non capivamo nulla delle condizioni storiche, economiche e sociali che avevano dato origine a quella musica; poi improvvisamente ecco il folk boom e anche qui a Hollywood comparvero nei folk club questi artisti. Camminavano tra il pubblico, fino al palco ed io trattenevo il respiro, ero sbalordito. Salivano sul palco, si sedevano e cominciavano a fare quello che sapevano fare, e la cosa mi fece impazzire, pensavo «questo va oltre la mia comprensione». Dopo un po’ presi coraggio e andai da loro a scambiare quattro parole, «cosa vuol dire questo?» o «mi faresti vedere come suoni questo passaggio?».

Era dura per me, ma l’ho fatto. E ho scoperto che era bello, perché a loro non dava fastidio, anzi gli piaceva parlare e lo facevano volentieri. Non li tampinavo troppo, né ero insistente come molti al giorno d’oggi, cercavo solo di capire. Poi è diventato evidente che non si trattava tanto della musica quanto delle persone. La musica diventava d’un tratto più chiara, se riuscivi a comprendere meglio la persona, perché a volte quello che sembra oscuro e inspiegabile dal disco, dopo aver visto suonare quella persona dal vivo per cinque minuti lo è molto meno. Vedevi come approcciavano lo strumento e il loro ritmo fisico era qualcosa di completamente diverso da quello cui ero abituato. Non era lineare, non c’erano schemi.

Al contrario di quasi tutti quelli che avevo visto, non suonavano quel terribile boom-chicka-boom con pollice e indice, una riproduzione meccanica cui ti alleni come un robot, la suoni e pensi che vada bene così. Non so come sia cominciata, dal banjo forse. Ma questi non suonavano così, non avevano un’accordatura, anzi per lo più erano scordati. Era tutta una rivelazione sulle vere potenzialità espressive dello strumento. E’ stato un grande dono, vedere suonare tutti loro. Oggi la gente non può vedere nessuno.

A quel tempo, non c’era la stessa attenzione della tradizione musicale occidentale al tempo e all’accordatura.
Niente affatto.

E’ evidente nelle Bristol Sessions e in altre delle prime registrazioni country, non c’erano attrezzature di studio.
Lascia perdere. Venivano da un modo di vivere del tutto diverso, un passato diverso. C’è davvero un abisso. Se vai nel Mississippi, ancora oggi, è un posto diverso, ti sembra di essere in un paese del terzo mondo. Pensa cosa doveva essere allora.

Che cosa ti aveva colpito ascoltando i dischi di Sleepy John Estes?
Beh, aveva un grande gruppo, piano, jug, armonica e lui, tutti che suonavano con diversi accenti ritmici. Come se ognuno avesse un’idea differente di quello che doveva essere il ritmo. Alcuni a mezzo tempo, altri al doppio. Ma l’idea della jug band è ottima in termini d’insieme, applicata a qualsiasi contesto. In altre parole, suonavano quello che istintivamente gli sembrava giusto, magari perché lo avevano sentito da un disco e cercavano di riprodurlo. O perché sentivano la musica in un determinato modo, perché vedi, anche loro ascoltavano i dischi. Per me ha perfettamente senso che Robert Johnson imitasse Lonnie Johnson, come per dire «questa è la mia versione di Lonnie Johnson, per come la vedo suona così».

Estes era un talento naturale. Prendeva in mano la chitarra e apriva la bocca per cantare. Qualcuno si univa al piano, così dal nulla. Non avevano nessuna educazione formale. Non è come a New Orleans, dove tutti più o meno hanno una formazione e c’è uno standard di riferimento. Santo cielo, in aperta campagna non c’è nessuno standard. Seguivano semplicemente le indicazioni del corpo. E’ questo il bello. E quello che fa Yank Rachell al mandolino è davvero interessante, proprio dal punto di vista del suono. Ascoltare quei dischi era come farci il bagno, ti siedi e lasci che la musica ti porti via. Affascinante. Con Jesse Fuller era lo stesso, preparava la sua roba, si metteva a suonare e ti stregava, ti trasportava in una sorta di altrove rispetto al tuo ambiente.

Gary Davis ti ha dato qualche consiglio su come suonare?
Ero solito suonare con lui. In effetti lui dava lezioni, non so come o cosa lo abbia spinto a farlo, alla sua età. Ma si sapeva che se volevi imparare qualcosa, bastava che andassi lì con cinque o sei dollari e ti sedessi con lui. Io andavo a vederlo in questo posto a Los Angeles, vicino Hollywood, stava lì quando veniva in città. Mi sedevo e gli dicevo «mi piace quella tua canzone» e ne dicevo il nome, ne aveva molte. Inoltre non suonava blues di 12 battute, suonava canzoni, con una loro struttura. Certo aveva uno strano senso delle corde e un uso della mano destra incredibile, molto interessante.

Così mi sedevo per un’ora o anche di più, d’altra parte quando sei alla presenza di un maestro del genere, non è che ti metti a guardare l’orologio. Se vuoi restare tutto il giorno, resti, se sei stanco e te ne vuoi andare, lo fai; era una cosa del genere. Ricordo che al momento non riuscivo mai a suonare quello che mi mostrava, però un mese dopo quello che avevo visto o mi aveva mostrato riaffiorava. Lui suonava io fissavo le sue mani e cercavo di memorizzare come si muovevano. Ma non sono mai riuscito a suonare in quello stile, è una cosa che va oltre le mie capacità.

Cosa lo rendeva difficile, dal punto di vista fisico?
Non saprei. Certo aveva una tecnica bizzarra. Dovevi davvero impegnarti, perché non è un tipo di tecnica che si incorpora in quella di un’altra persona. Gary Davis, in altre parole, è del tutto a sé stante. Se ti mettevi ad imparare quello stile, quel manierismo, come suo studente e seguace, dovevi proprio lasciar perdere tutto il resto. Io non ero disposto a farlo, ero interessato ad altre cose all’epoca e pensavo che questo fosse troppo fuori portata. Mi piaceva suonare le sue canzoni, ma non le suonavo con completa soddisfazione, perché non funzionavano davvero, ne veniva fuori qualcos’altro, che non mi faceva nemmeno impazzire. Tuttavia aveva alcuni passaggi di accordo che mi piacevano molto, perciò suonavo quei pezzi giusto per arrivare a quella sequenza. Ma era davvero impossibile.

Ci sono altri chitarristi blues prebellici che ti sembrano trascendentali?
Oddio, certo. Ce ne sono molti. Blind Blake è una figura enorme e misteriosa, un grande musicista. Quando era all’apice era favoloso. Inoltre Lonnie Johnson penso non sia mai stato riconosciuto come il musicista straordinario che era, influenzò tutti. Puoi trovare il suo influsso ovunque, la sua voce e quello stile così elegante. La roba che fece con Louis Armstrong era incredibile. E registrò persino con Eddie Lang. Chissà che effetto sui neri che vivevano in campagna, sicuramente si dicevano «questo qui è di un’altra categoria!». E’ uno di città, con un tono fantastico ed è un tipo elegante e azzimato. E’ un’altra cosa, musica pop, davvero. Immagino come tutti cercassero di copiarlo. Quando ero molto giovane, ho sentito quella roba, mi ha mandato in estasi. Cercavo di suonare e ci provo ancora, come riscaldamento, per allenare le mani e tenere sotto controllo il mio corpo, suono qualche suo strumentale. Non so davvero come facesse, ma ci provo lo stesso. E’ un modo di usare lo strumento, no?
© Jas Obrecht. L’articolo è stato usato con il permesso dell’autore. Tutti i diritti riservati.
(Traduzione di Matteo Bossi)

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 135, 2016

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