Per parlare convenientemente di Carrol Best è opportuno parlare almeno un po’ del modo, o dei modi, di suonare il banjo. Anzi, a beneficio di tutti i lettori di Country Store che del banjo conoscono a malapena il suono, direi che è necessario: chiedo quindi scusa a quelli che sanno tutto sull’argomento (credo di conoscerli tutti almeno di nome, quasi tutti di persona), che porteranno pazienza e/o salteranno alla fine dell’articolo, dove c’è la recensione vera e propria.
Fino a circa dieci anni fa era opinione comune che lo stile melodico sul banjo fosse stato elaborato da Bill Keith a partire da circa il 1960, tanto è vero che si parla comunemente di Keith Style. Tale stile consentiva, per la prima volta, di eseguire nota per nota melodie intricate, del tipo di quelle eseguite dal violino nei fiddle tunes. Questo in contrapposizione, o meglio come evoluzione, dello Scruggs Style, introdotto appunto da Earl Scruggs negli anni quaranta, oggi considerato uno stile tradizionale, e perfetto per rendere la melodia di canzoni cantate con il drive e la sincope che definiscono il bluegrass. Stiamo sempre parlando di banjo a cinque corde, ed in contesto bluegrass.
Va segnalato che Bobby Thompson reclamava di avere eseguito fiddle tunes, nota per nota, alcuni anni prima di Bill Keith: ma solo quest’ultimo diede al nuovo stile un approccio teorico ed una struttura sistematica, tanto che il giorno del battesimo ufficiale dello stile melodico viene da alcuni considerato quello in cui Bill Keith eseguì davanti al pubblico del festival folk di Filadelfia, nel 1962, Sailors’ Hornpipe e Devil’s Dream, con cui si aggiudicò il banjo contest del festival.
È anche il caso di citare il fatto che, tra Scruggs e Keith, Don Reno aveva elaborato uno stile simile a quello chitarristico, che pure consentiva di eseguire sequenze melodiche qualsiasi, e quindi in particolare di eseguire fiddle tunes, o melodie composte sul e per il violino (in realtà, aveva fatto molto di più, specialmente nell’uso di accordi complessi: ma non abbiamo qui lo spazio per approfondire questo discorso, che richiederebbe ben altro spazio, oltre che ben altra competenza).
Molti tuttavia osservano però che lo stile di Don Reno sacrifica parecchio il drive, e rende problematica la separazione delle note: mentre lo stile di Bill Keith consente, pur se a costo di un certo impegno da parte del banjoista, di mantenere molto spesso tali caratteristiche così peculiari. Lo stile melodico, detto anche molto riduttivamente cromatico, aprì poi la strada a personaggi come Tony Trischka e Bela Fleck, e quindi a tutto quel movimento che sarà definito ‘progressivo’, e poi ‘newgrass’, in contrapposizione al bluegrass tradizionale (che, ricordiamolo, quando fu inventato da Bill Monroe era musica assolutamente innovativa), e che consentirà al banjo di uscire dai confini della musica bluegrass e country: e qui finisce la nostra giurisdizione.
Questo molto (ma davvero molto) a grandi linee: l’analisi approfondita degli stili per banjo, anche solo limitandosi al bluegrass, richiederebbe volumi, e volumi infatti sono stati scritti. Ma questo non è l’argomento che vogliamo qui trattare.
L’argomento che ci interessa parte dal fatto che, al Tennessee Banjo Institute del 1990, si presentò un signore che veniva dalla Nord Carolina, terra di banjoisti come nessuna altra. Questo signore, che si chiamava Hugh Carrol Best, coltivava la terra, e, a tempo perso, suonava il banjo. Lo faceva da moltissimi anni, ed aveva anche tentato di farlo professionalmente suonando con i fratelli Morris (Wiley e Zeke, famosi, fra l’altro, per aver scritto Salty Dog Blues), ma aveva resistito pochissimo on the road, un mese circa: dopo di che era tornato alla tranquillità dei campi.
Se non altro, diceva lui, perché era “troppo alto per poter dormire in un’automobile”. Era evidentemente uno dei tanti che non pensava sia meglio vivere di musica, ad ogni costo, piuttosto che di fabbrica, di ufficio o di agricoltura. L’old time ed il bluegrass è pieno di personaggi così.
Nella confusione del TBI, evento che mi dicono memorabile, Carrol Best sarebbe passato inosservato in mezzo a centinaia di altri banjoisti, come aveva più o meno sempre fatto per tutta la sua vita, se non fosse stato notato da qualcuno che lo presentò niente meno che a Tony Trischka, banjoista innovativo e studioso della storia del banjo, nonché coautore di un ponderoso volume sui maggiori banjoisti contemporanei, bluegrass e no, ed a Neil V. Rosenberg, il massimo studioso vivente della storia della musica bluegrass, ed autore per l’appunto di Bluegrass, A History.
I due intervistarono Carrol Best, e l’intervista fu pubblicata nel febbraio 1992 da Banjo Newsletter. E fu lo stesso Tony Trischka, nel corso dell’intervista, a dire che con ciò avrebbe dovuto riscrivere la storia del banjo.
Hugh Carrol Best nacque nella Carolina del Nord nel 1931; purtroppo non è più tra noi dal 1997. Egli era, secondo la sua stessa definizione, un banjoista three finger, old time, fiddle-style. Suonava con i picks, sul pollice e su due dita, per cui, quando partecipava alle competizioni, i giudici cercavano di iscriverlo alla categoria bluegrass: ma lui insisteva per l’old time, perché lo stile lo aveva imparato da suo padre, che suonava il banjo in quel modo ben prima che Bill Monroe definisse la sua musica (e prima che Bill Keith venisse al mondo). E suonava i fiddle tunes nota per nota, con tecniche considerate, oggi, piuttosto avanzate: terzine, sequenze cromatiche, rapide escursioni su e giù per il manico del banjo, facendo anche un uso melodico di accordi variati e suonati come con un plettro, alla dixieland.
Durante la citata intervista Carrol Best eseguì parecchi pezzi nel suo stile, che lui si rifiutava di definire melodico, ma piuttosto, appunto, fiddle-style. Tra questi Devil’s Dream, così come l’aveva suonata almeno dagli anni quaranta. Lo aveva imparato, insieme ad altri e mettendoci del suo, da suo padre, Carrol Best Sr., che a sua volta l’aveva imparato da sua nonna, ossia dalla bisnonna di Carrol Best Jr. Ora, facendo quattro conti, anche supponendo che nella famiglia Best i figli fossero messi al mondo in età molto giovane, stiamo parlando di una persona che non può essere nata molto dopo la Guerra Civile americana (quella di Via Col Vento, per chi non fosse particolarmente ferrato in storia), probabilmente durante, e forse anche prima: ossia quando il banjo a cinque corde assumeva la sua forma moderna. Se lo stile fosse stato tramandato immutato per quattro generazioni, questo vorrebbe dire che lo stile melodico sarebbe nato praticamente insieme al banjo a cinque corde.
A parte il fatto che la tradizione orale, notoriamente, comporta cambiamenti ed evoluzioni, a volte notevoli, ad ogni passaggio, anche se così fosse la cosa non dovrebbe poi stupirci più di tanto, perché tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo era molto popolare, sul banjo, lo stile classico, chiamato anche parlor banjo. Questo stile da salotto, diffuso negli ambienti colti ed urbani, che oggi viene tenuto in vita da pochissimi estimatori, prevedeva l’uso di strumenti con corde di budello (oggi di nylon), suonati con tre o a volte quattro dita, come una chitarra classica, con un repertorio di pezzi classici, ma anche di marce di John Phillip Sousa (se avete sentito una banda marciante, anche italiana, avete certamente sentito qualche marcia di Sousa), pezzi ragtime, ed in generale tutta la musica ‘elegante’ in voga all’epoca.
È chiaro che l’esecuzione accurata di pezzi di musica classica richiede una tecnica molto raffinata, che è possibile fosse nota, attraverso i numerosi libri di istruzione che giravano all’epoca, anche alla bisnonna del nostro personaggio.
Oppure, come lo stesso Carrol Best ipotizzava, lo stile fu reinventato da diverse persone in diversi luoghi ed in diversi tempi: un po’ come l’America, che è stata scoperta in modo più o meno accidentale da diversi navigatori prima di Colombo. Bastava che un banjoista particolarmente curioso e tecnicamente evoluto si ponesse il problema di replicare l’esatta melodia prodotta dai fiddler con cui invariabilmente si trovava a suonare.
E così come la scoperta ‘ufficiale’ dell’America fu attribuita a Colombo, che ne diede ampia pubblicità e si preoccupò di farla registrare con dovizia di dettagli dagli storici e dai cronisti del suo tempo, l’invenzione ‘ufficiale’ dello stile melodico è stata attribuita a chi, per la sua cultura urbana e per il fatto di vivere in un’epoca in cui registratori e fonografi erano di uso comune, si fece conoscere e diede inizio ad un intero movimento musicale.
Si pone qui, ovviamente, la domanda: Bill Keith e Bobby Thompson conoscevano Carrol Best? E se lo conoscevano, lo incontrarono prima o dopo aver elaborato il nuovo stile? E quanto ne furono influenzati, se lo furono?
Bobby Thompson conobbe sicuramente Carrol Best, e lo conobbe prima di apprendere e poi divulgare le sue nozioni di stile melodico, e di reclamarne la paternità. L’incontro fra i due non fu occasionale: Bobby Thompson faceva parte, come membro della banda di Carl Story, dello stesso staff di un programma TV dal vivo, durato diversi mesi, cui partecipava Carrol Best insieme ai Morris. Ebbe quindi tutto il tempo di ascoltarlo, valutare le possibilità del fiddle style, e farsi insegnare più di una cosa. Lo stesso Tony Trischka osservava, ad esempio, come “la parte B di Flop Eared Mule” suonata da Bobby Thompson “fosse molto simile al modo” di eseguirla di Carrol Best.
Anche Bill Keith incontrò Carrol Best: lo stesso Best ricorda una visita “nei primi anni ‘60”, durante la quale Bill Keith “non suonò nulla”, parlò poco, ma “ascoltò molto e molto attentamente”. I primi anni ’60, senza precisare ulteriormente, sono proprio gli anni in cui Bill Keith elaborava il suo stile, che, per il 1962, era pressoché definito; e, nel 1963, Bill Keith fu anche un Blue Grass Boy con Bill Monroe, per alcuni mesi. Ho tentato di chiedere allo stesso Bill Keith notizie su questo incontro (un buon giornalista, mi dicono, va sempre alla fonte delle notizie, quando è possibile), ma, fino al momento in cui scrivo, non ho avuto risposta.
Sappiamo però che, prima di incontrare Earl Scruggs, cui fornì tutte le trascrizioni per il suo libro, e poi Bill Monroe, Bill Keith, nativo del Massachusetts, non frequentava molto il sud in generale e le vallate dei monti Appalachi in particolare. È quindi probabile che, quando era con Bill Monroe, qualcuno gli avesse detto che c’era un montanaro che suonava il banjo in un modo che lui avrebbe dovuto sentire: come si è detto lui andò, ascoltò con attenzione, non parlò molto e non suonò niente, e poi non raccontò niente a nessuno. Almeno che io sappia.
Non frequentava molto gli studi di incisione, Carrol Best, e nemmeno molto i palcoscenici: preferiva vivere del suo lavoro, e considerare la musica un di più (per quanto possa sembrare strano in questo mondo di selvaggio consumismo, ed in un’America che dovrebbe esserne il prototipo, ci sono anche persone fatte così). Partecipava però spesso a sessioni più o meno informali che qualcuno registrava, con tecniche più o meno sofisticate.
Il CD di cui stiamo parlando, interamente strumentale, non è quindi un prodotto di studio, se non in piccola parte, ma è piuttosto una collezione di registrazioni dal vivo, alcune delle quali fatte con mezzi di fortuna, in uno spazio di tempo che va dal 1974 al 1995. La qualità del suono è quindi molto varia, andando da quella di studio o quasi della prima parte, a quella, ai limiti dell’accettabile, di otto brevi registrazioni su cassetta fatte nella cucina di casa, che probabilmente avevano il significato di promemoria, e non erano pensate per la pubblicazione. Dato però il gran numero di tracce, 36, potete tranquillamente considerare questo tipo di registrazioni come un generosissimo bonus che segue le normali dimensioni di un normale CD.
Il primo segmento di 6 pezzi è tratto da un disco, prodotto da Marc Pruett, della Carrol Best String Band, ed inizia con Lonesome Road Blues, che, in origine una canzone cantata, si presterebbe perfettamente allo stile di Scruggs (ed infatti Scruggs ne diede una interpretazione superba). Qui è trattata in modo assolutamente contemporaneo. Potrebbe tranquillamente essere un arrangiamento del miglior Tony Trischka, o, meglio ancora, di Larry McNeely, che è uno che oggi è sparito, ma che ai suoi tempi suonava sul banjo, oltre a tutti gli stacchetti della serie TV Hazzard, fra l’altro il tema della Quinta di Beethoven.
Questo è uno dei pochissimi pezzi del CD che non siano fiddle tunes in senso stretto: nello stesso segmento troviamo, ad esempio, Whiskey Before Breakfast e Tom & Jerry. Il suono, qui, è bluegrass.
Seguono 5 pezzi registrati dal vivo durante una tournée che si chiamava Masters Of The Banjo Tour, realizzata nel 1994. Anche qui il suono è quello di una full band: e che banda. Tra i musicisti di supporto c’erano Laurie Lewis e Dudley Connell (e che la chitarra è la sua si sente, eccome). Ciononostante, l’effetto è più old time che bluegrass. Cioè, è lì a metà. Ed anche qui abbiamo dei fiddle tunes, o meglio degli accenni, dato che la durata dei pezzi va dal minuto e mezzo ai due o poco più.
Seguono Angeline the Baker e Twinkle Twinkle Little Star, registrate in studio a Bristol, Ky/Tn (la culla della musica country), con nientemeno che Kenny Baker al fiddle, e Josh Graves qui non al dobro, ma al basso.
Seguono registrazioni, alcune buone, altre decenti, altre artigianali, di fiddle tunes eseguite al banjo con il semplice accompagnamento di una chitarra, a parte le ultime 3 (data e luogo di registrazione sconosciute, ma comunque fatta in casa), dove ci sono un basso, due fiddle ed un secondo banjo suonato in stile clawhammer (ossia percuotendo le corde con il dorso delle unghie, dall’alto verso il basso).
È una notevole collezione di pezzi tradizionali, alcuni noti o notissimi, come Forked Deer, Katy Hill (che ricorda moltissimo un arrangiamento di Alan Munde), Cripple Creek (molto diversa dalla versione di Scruggs, quella ritmica, questa melodica), ed altri più oscuri.
Il suono d’assieme oscilla sempre tra l’old time ed il bluegrass, sempre con la costante di questo banjo melodico, anzi, fiddle-style.
Fisher’s Hornpipe riceve un trattamento assolutamente alla Bill Keith, con terzine e tutto il resto, e melodia fedelissima allo spartito.
Little Rock Getaway, purtroppo affetta da un suono non eccelso, si stacca dal resto per l’uso assolutamente originale degli accordi, usati come se il banjo fosse a quattro corde, ed in un contesto jazz. Lo stesso in Keep Smiling. Sembrerebbe quasi che Carrol Best qui usi un plettro, ma non può essere perché la registrazione è dal vivo ed il musicista alterna accordi ed arpeggi. Non capisco come faccia, ma il suono è quello del plettro.
Sarebbe lungo, a questo punto, e sicuramente noioso, citare e descrivere tutti i pezzi. Rimane il fatto di questo personaggio straordinario, cui solo la modestia e l’amore per la vita semplice e per le mura domestiche hanno impedito di diventare famoso e di essere citato nei volumi di cui si parlava all’inizio.
Il CD, che è anche un documento, non è chiaramente stato pensato per tutti, anche se il suo ascolto non può certo far male a nessuno.
È ovviamente per i cultori della storia della musica country in generale, ed old time e bluegrass in particolare. È altrettanto ovviamente indirizzato a chiunque si interessi di banjo, suonato o ascoltato.
Ed infine, la musica di Carrol Best, per il semplice fatto di esistere nelle modalità in cui esiste, è un ottimo modo per chiarire (o confondere) le idee su concetti come ‘tradizionale’ e ‘progressivo’.
Say Old Man, Can You Play The Banjo? (Copper Creek, CCCD 0175)
Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 59, 2001