“Ciò che rende unico Scotty Stoneman tra i violinisti sono due cose: la sua espressione e il suo fraseggio. Gli altri, a vari livelli, hanno raggiunto la prima anche se non così intensamente, nessuno nel bluegrass ha uguagliato la seconda… Nel mezzo di una canzone era solito effettuare tre o quattro assoli di seguito. Questo era un approccio jazzistico ma lui non si rendeva conto che stava per diventare un jazzista…” dice Richard Greene.
“Lo ricordo suonare, sembrava un cobra. L’energia gli faceva muovere la schiena che si agitava e oscillava proprio come un cobra. Era il Jimi Hendrix del violino. Ogni show per lui era come una vita intera, come una corsa verso la morte… Era un selvaggio, non lo potevi negare, lasciandolo libero sulla scena ti accorgevi di quanto si prodigasse al massimo delle sue capacità…” scrive Peter Rowan.
“Qualche volta, ma molto raramente, un individuo riesce ad essere nello stesso tempo un grande artista e un grande esecutore. Scotty era uno di questi. Come fiddler player non aveva uguali, come esecutore era insuperabile… Era sempre pronto a dividere il suo talento cogli altri proprio per amore della musica. Egli amava eseguire, era un intrattenitore nato…” sostiene Charlie Pride.
Tre autorevoli giudizi su di un musicista davvero sorprendente e vivace, ma assai poco conosciuto. Scotty Stoneman, uno dei più bravi tra coloro che hanno cavalcato le scene bluegrass negli anni 50/60, fine 70 (si è spento nel 1973). Una raccolta rara di alcune sue apparizioni dal vivo, risalenti al 1965, registrate in due locali di Hollywood con i gloriosi Kentucky Colonels. Si tratta di un album praticamente pronto da tre anni e superate, per fortuna, anche le ultime difficoltà, John Delgatto, il proprietario della Sierra Rds, la casa discografica che lo distribuisce, c’è riuscito. E questo lascia bene sperare per i suoi prossimi progetti che sono anche più appetitosi.
Il disco ascoltato oggi, dopo tanto tempo, non ci può sembrare chissà che, ha un indubbio valore didattico-storico ma porta su di sé il peso degli anni. Ed è per questo che ciò che piace e che convince di più sono i suoi momenti strumentali, quelli in cui Scotty, che è praticamente protagonista unico di questo lavoro, rivela tutta la sua abilità e maestria, facendo fare al suo fantastico fiddle quello che vuole. Ma quando egli canta, e sono sempre pezzi lenti, non ci dà alcun brivido né scossa, ci lascia indifferenti e freddi. I Colonnelli del Kentucky che staranno insieme a lui poco meno di un anno, sono il gruppo d’accompagnamento, nient’altro di più. Tra di loro chi riesce ad aprirsi alcuni spazi e a farsi un po’ notare è Roland White con il suo mandolino, qualcosina appena tenta timidamente Billy Ray Latham al banjo, mentre il leggendario Clarence è chitarrista d’accompagnamento e basta. Più in evidenza di lui riesce a mettersi persino Roger Bush con il suo basso sincopato.
I brani strumentali, sempre piuttosto lunghi e tirati, come ho detto, sono i migliori. Essi ci fanno conoscere il suo stile e la sua personalità. Tra questi c’è un’ennesima interpretazione di Sally Gooden, cioè più di quattro minuti di assolo continuo, un’eccellente e trascinante versione di Eight Of January con uno stupendo refrain e Roland che va a riscuotere applausi, Oklahoma Stomp piena di virtuosismi e finezze. Troppo lento e lagnoso invece Cherokee Waltz. Passando a quelli vocali Any Dawn Thing, composta da Stoneman è divertente, non particolarmente impressiva Goodnight Irene, anonimi gli altri due. In conclusione il disco di un riconosciuto maestro del fiddle, di cui praticamente nient’altro è disponibile, ben presentato, ben confezionato, con foto e informazioni biografiche. La prima realizzazione concreta di John Delgatto dopo tante promesse. Uno sforzo che meriterebbe un nostro incoraggiamento. A chi volesse poi andare oltre la conoscenza di questo musicista ricordo la sua presenza in un altro album dei Kentucky Colonels, questa volta primattori, Livin’ In The Past (Briar, la vecchia casa di Delgatto).
Briar (Bluegrass Tradizionale, 1978)
Raffaele Galli, fonte Mucchio Selvaggio n. 12, 1978
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