Parliamo di musica soul con il leggendario Solomon Burke. L’occasione è fornita dal nuovo Don’t Give Up On Me, album splendidamente retrò per il quale si sono scomodati autori del calibro di Bob Dylan, Elvis Costello, Van Morrison, Brian Wilson e Tom Waits.
All’età di nove anni lo chiamano già Wonder Boy Preacher perché nella chiesa fondata dalla nonna, Solomon Burke è già in grado di tenere piccoli sermoni al pubblico. Predica e canta le lodi del Signore unendosi al coro gospel che esorta i fedeli ad unirsi in una sorta di catarsi collettiva.
È una forma di spiritualità che si approssima all’esaltazione e che ha in sé residui evidenti di cultura voodoo, ma sicuramente in grado di esprimere una religiosità sincera che troverà ancora vasta eco nelle comunità nere un po’ isolate del Sud, addirittura fino alla metà del Novecento.
Nei primissimi anni Cinquanta Solomon Burke comincia a curare alcune trasmissioni di musica gospel per una radio di Filadelfia e ottiene un successo straordinario, tanto che il suo show, il Solomon’s Temple, diventa in breve un appuntamento di culto.
Deve però attendere il 1955 per essere notato come cantante, in occasione di un gospel contest, dal produttore Bess Berman, allora legato all’etichetta Apollo, e immediatamente scritturato.
Ha appena diciannove anni quando l’anno seguente conquista la prima notorietà discografica interpretando You Can Run But You Can’t Hide, naturalmente un gospel che prende spunto da una frase strappata dal repertorio un po’ spaccone dell’allora grande pugile Joe Louis.
Ma non è ancora il grande successo, anzi l’Apollo rimane delusa nelle sue aspettative e lo lascia un po’ da parte. Solomon che, considera il gospel soprattutto come una strada per diffondere il Vangelo, non se la prende più di tanto, ne approfitta, anzi, per specializzarsi in scienze funerarie e aprire una propria attività nel settore con un successo economico da non sottovalutare.
Quando Jerry Wexler dell’Atlantic, nel 1960, viene in possesso di alcune registrazioni di Burke lo contatta e gli fa incidere il primo singolo, Just Out Of Reach, un brano di country & western che Patsy Cline aveva già trasformato in una ballata lacrimosa; la versione di Solomon è invece poderosa e diventa un hit da un milione di copie.
Comincia così la collaborazione con Bert Borns che sarà fertilissima e produrrà successi come Cry To Me, If You Need Me, I’m Hanging Up My Hear For You e The King Of Rock And Soul, pietre miliari della sua carriera. Il suo stile è una splendida alchimia tra r&b, gospel e country e la potenza della sua voce, accompagnata da una dizione perfetta, fa di Burke un personaggio carismatico che non ha niente da invidiare agli altri grandi del tempo come Otis Redding, James Brown e Joe Tex.
Nel 1964 centra forse il suo più grande hit, Everybody Needs Somebody To Love che diventerà uno dei pezzi più ‘coverizzati’ e ritroverà, nella versione dei Blues Brothers, nuova linfa e celebrità; seguiranno poi altri piccoli capolavori come Tonight The Night e Got To Get You Off My Mind, quest’ultimo citato anche da Nick Hornby nel suo fortunato romanzo Alta Fedeltà come pezzo preferito dell’interprete principale.
In realtà Solomon Burke sta vivendo il suo periodo d’oro e ogni pezzo che registra è un piccolo gioiello; è uno dei principali promotori della soul music e curiosamente, proprio quando quest’ultima diventerà fenomeno di massa, esaltando la vena dei suoi più grandi interpreti, la stella di Burke comincerà lentamente a tramontare.
La morte prematura di Berns è un grave colpo sia sotto l’aspetto umano che sotto quello professionale e sembra che il vecchio re non riesca più a trovare il filo della matassa.
Nel ’69 lascia l’Atlantic e ha ancora un guizzo da fuoriclasse quando incide per la Bell Proud Mary negli studi Muscle Shoals, ma per lui si preannuncia una decade difficile, gli anni Settanta saranno probabilmente il periodo più buio della sua carriera.
L’impegno sociale e religioso continua tuttavia a rappresentare un punto fermo della sua attività e il gospel ritorna ad essere il riferimento più importante. Negli anni Ottanta ritorna in sala di incisione e utilizza i proventi della vendita dei suoi dischi per potenziare la sua House Of Good For All People (la Chiesa fondata dalla nonna) e aprire un’università per orfani.
Nel 1984 la Rounder lo vuole alla sua corte e gli fa registrare un paio di dischi, uno dei quali live contenente tutti i suoi maggiori successi, necessari per conferirgli il pretesto professionale per imbarcarsi in una lunga tournée europea, durante la quale toccherà anche l’Italia.
Negli anni successivi si esibirà più volte nel nostro paese grazie anche all’organizzazione Sweet Soul Music che istituirà il festival soul a Porretta Terme.
Passano così gli anni Novanta ed esce il nuovo splendido album Don’t Give Up On Me in cui Solomon Burke ritorna alla grandezza dei suoi tempi migliori stupendo critica e pubblico.
Non è la prima volta che i corsi e ricorsi storici riguardano anche gli artisti. Quando ho ascoltato per la prima volta il promo di Don’t Give Up On Me, rigorosamente segregato tra le mura della casa discografica fino al 22 luglio, ho pensato che si trattasse di vecchio repertorio rieditato. La title-track, in particolare, sembrava un brano uscito fresco fresco da una produzione anni Sessanta, con quell’organo insinuante e la linea di basso assestata sui toni caldi, votati a sottolineare il pathos vocale con cui Solomon si destreggiava in una ballata dai contorni deliziosamente soul.
Anche il resto, pur concedendo a Solomon qualche divagazione, non era da meno; insomma man mano che il disco procedeva, come già mi succedeva da ragazzino, ogni volta che The King Of Rock’n’Soul tirava oltre misura le note con la sua voce avvolgente di sofferenza, rischiavo l’extrasistole per l’emozione. Un déjà vu imbarazzante che però sottolineava in modo inequivocabile la bellezza delle canzoni e l’integrità vocale con cui Burke si esibiva.
Il progetto che ha portato alla registrazione del disco è di quelli che si riservano solo alle grandi star, magari per preparare loro un degno ritorno sulle scene, dopo anni di forzata latitanza o di malcelata sfiducia.
È lo stesso Solomon a parlarmene durante una telefonata dalla sua casa di Los Angeles. “Quando il produttore Joe Henry mi ha esposto il suo piano di lavoro sono rimasto nello stesso tempo commosso ed entusiasta. Non pensavo fosse possibile accedere a un repertorio così straordinario e proprio per questo ringrazio tutti i grandi artisti rock e pop che hanno creduto in me e mi hanno donato loro pezzi inediti. Dan Penn, Barry Mann e Cynthia Weil hanno fatto il resto cucendo le loro composizioni al resto del repertorio.”
Di fatto l’album è costruito da undici pezzi che portano rispettivamente le firme di Bob Dylan (Stepchild), Brian Wilson (Soul Searchin’), Van Morrison (Fast Train e Only A Dream), Elvis Costello (The Judgement), Nick Lowe (The Other Side Of The Coin), Tom Waits (Diamond In Your Mind) e Joe Henry (Flesh And Blood), tutti brani che non erano certamente nati per una versione soul.
“Un pezzo diventa soul se lo interpreti nel modo giusto, con la passione dovuta, non è necessario che venga concepito a priori in un determinato senso. Certo è necessario che il testo si presti a essere cantato con un sentimento particolare, ma il vero veicolo del massaggio è la voce e a seconda di come la usi ottieni un effetto diverso.”
A ben sentirli molti brani hanno un arrangiamento più moderno che nasconde anche un uso discreto della tecnologia, un intervento che apparentemente può stridere con la musica dell’anima. “Tutto dipende da come si usa”, continua Solomon Burke. “Se hai la sensibilità di usare l’elettronica in modo soffice per sottolineare solo alcuni passaggi o per dare maggiore credito ad altri, non c’è niente di strano ad utilizzarla anche per quelle canzoni che attribuiscono alla voce un ruolo preminente. Io e il mio produttore siamo stati molto attenti a farne un uso appropriato.”
Certo sentire della soul music oggi che ripercorre i vecchi canoni fa specie. Probabilmente nessun altro avrebbe potuto concepire un progetto di questo tipo, in un momento in cui la parte più radicale della black music è stabilizzata sul rap, mentre quella più leggera veleggia sulle acque calme del new soul.
“Quando verso la metà degli anni Sessanta la soul muisc è diventata patrimonio di un pubblico molto vasto, all’interno della comunità nera le veniva attribuito un valore che andava oltre quello espressivo, era un modo per rivendicare la propria dignità e il proprio orgoglio di essere neri. Ora stiamo vivendo un periodo molto diverso e, della musica, si colgono soprattutto gli aspetti ludici e ritmici che istigano al ballo e al divertimento. Sono altre generazioni.”
Quando gli chiedo se c’è qualche pezzo di questo ultimo disco che ama particolarmente mi risponde, come prevedibile, che è impossibile scegliere tra canzoni così ispirate e che ciascuna a suo modo è un piccolo capolavoro. Allora chiedo a Salomon di parlarmi più diffusamente di Don’t Give Up On Me, un brano che è davvero emblematico. “La canzone porta la firma di Dan Penn ed è stata registrata live in studio in un arco di tempo molto breve con un organico particolare che comprendeva l’organista della mia chiesa, Brother Rudy Copeland, e alcuni membri dei Blind Boys Of Alabama. A sovrintendere all’incisione c’era come sempre Joe Henry, ma questa volta era eccezionalmente accompagnato da Daniel Lanois che ha contribuito con qualche idea alla registrazione. È stato come ritornare improvvisamente alle radici, tuttavia riascoltando il pezzo si capisce che è frutto di una registrazione di oggi perché ci sono delle soluzioni brillanti dovute alla tecnologia e un’attenzione morbosa per i particolari. I progressi fatti in studio rispetto a quarant’anni fa sono giganteschi.”
Nonostante un’attività discografica non esorbitante, Solomon Burke non disdegna le partecipazioni pubbliche e i concerti che recentemente ha tenuto con alcuni dei suoi numerosi figli, in, particolare con Selassi che lo accompagna in un repertorio decisamente gospel.
“Negli ultimi anni ho intensificato le apparizioni gospel con i miei figli, in particolare dopo l’uscita dell’album The Definition Of Soul che si prestava particolarmente a un’operazione del genere. Ora però mi dedicherò decisamente alla promozione di Don’t Give Up On Me; è già in programma un lungo tour che in settembre dovrebbe portarmi anche in Europa e naturalmente in Italia dove posso contare su tanti amici.”
Roberto Caselli, fonte JAM n. 84, 2002