Steve Earle

Una volta si è definito “l’unico socialista americano del rock’n’roll”. Steve Earle è sempre andato controcorrente, e mentre il mondo si prepara a una nuova guerra, lui scrive una canzone su John Walker, il talebano d’America che dalla California è andato ad arruolarsi nelle truppe di Osama Bin Laden.
Aveva promesso “il disco più politico della mia carriera”, Steve Earle, non nuovo a pesanti critiche alla politica del suo Paese (pare che si sia trasferito a Nashville, dal Texas, perché non sopporta di vivere in uno stato dove la legge ammazza decine di carcerati all’anno). E’ sempre stato un ‘outlaw’, da quando negli anni Ottanta cantava le disavventure di Billy Austin fino alle sue battaglie contro la pena di morte e alla produzione del film Steal This Movie, dedicato allo scomparso leader della sinistra Abbie Hoffman.
È bastato John Walker’s Blues, un brano del suo nuovo album Jerusalem, a scatenare propositi di censura sui network radiofonici americani. Earle dice che Jerusalem è “un disco politico, perché credo non ci sia altro responso alla situazione in cui ci troviamo oggi. Ma questo è anche il disco più a favore dell’America che sia mai stato fatto. Mi sento più che mai americano. Ma le libertà americane, quelle che sono giunte a noi dagli anni Sessanta, stanno scomparendo. È per questo che un vero patriota, oggi, deve combattere”.

Se Springsteen, di fronte alla tragedia dell’11 settembre, trova conforto nella fede dell’uomo comune e nella sua possibilità di trovare una redenzione, Steve Earle scava nel marcio. John Walker non è esattamente l’eroe, il ‘nothing man’ che si è gettato nelle fiamme per salvare il prossimo. John Walker è la faccia oscura dell’America: “Sono solo un ragazzo americano cresciuto a base di MTV (…) Guardavo tutti quei ragazzi in quelle pop band alla gazzosa e nessuno di loro somigliava a me”.
“Sono felice di come è venuta la canzone”, dice Earle. “Ma sono anche preoccupato. Non per me stesso, ma mi sono preso delle libertà, parlando con la voce di Walker. Quello che cercavo di dire non è che sono d’accordo con la sua scelta. Volevo dire che se è arrivato a fare quello che ha fatto, è perché è cresciuto in un vuoto di valori che è quello dell’America di oggi. Mio figlio Justin ha la sua stessa età, vent’anni. Se improvvisamente Justin si unisse alla Jihad sarei assolutamente incazzato. Il fondamentalismo, come è praticato dai talebani, è nemico della ragione e anche della religione. Ma nella vita accadono dei fatti. Walker veniva da una zona molto bohemien, quella di Marin County, in California. Era un ragazzo molto intelligente che si era diplomato con anticipo. La cultura del nostro paese non lo interessava, era alla ricerca di qualcosa in cui credere.”

Quel qualcosa che John Walker ha trovato nel credo di Allah e nella guerra agli infedeli. Ma Earle ha ragione: se un ragazzo americano di buona famiglia ha bisogno di andare a cercare il senso della sua vita in Afghanistan, vuoi dire che la società occidentale ha esaurito di fornire ai giovani dei modelli di vita plausibili. Quanti altri John Walker ci saranno, in futuro? È questa la domanda che pone il cantautore americano.
Jerusalem, nei suo complesso, è però meno polemico di quanto ci si aspettasse: insomma le canzoni di Country Joe ai tempi della guerra in Vietnam, o quelle dei Jefferson Airplane, erano ben più feroci e incazzate. Beh, i tempi sono cambiati, e Steve Earle ha forse avuto paura ad esporsi troppo. In brani come Ashes To Ashes il cantautore usa un linguaggio quasi biblico: “Dissero: Dio ci ha fatti a sua immagine / E in Dio noi confidiamo / Quando fu loro chiesto degli uomini morti per causa loro / Dissero: cenere alla cenere e polvere alla polvere”.
In Amerika v. 6.0 (The Best We Can Do) si limita a rimpiangere gli anni Sessanta (“Mi ricordo quando stavamo per la strada / Parlando di rivoluzione e cantando i blues”), mentre oggi ognuno è ripiegato su se stesso (“Oggigiorno è soltanto lettere al direttore e lamentarsi delle tasse / È questo il massimo che sappiamo fare?”).
Concorda con la visione biblica lo stesso Earle: “Jerusalem è il mio disco del Vecchio Testamento”.
Forse, alla fine, anche Earle, come Springsteen, sembra suggerire che la speranza per questo vecchio mondo malato possa venire da qualcosa al di là di noi: “Rimango ottimista”, dice. “Sono davvero ottimista, questa è l’idea base di Jerusalem. Ciò che è successo l’11 settembre è un orrore, ciò che accade in Palestina e Israele ogni giorno è un orrore. Ma cerchi di vedere al di là di queste cose. Devi sforzarti di credere che andrà meglio. Che ci sarà una qualche redenzione. Sono uno che ha sempre voluto credere. Sono bravo in questo”.

Paolo Vites, fonte JAM n. 86, 2002

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