Vedere la copertina del secondo Forbert, così senza preavviso, nella vetrina di un anonimo e neanche tanto ben fornito negozio di dischi della città, mi ha precipitato in pieno marasma novità, al pari di una busta vergine di un Dylan o di un Morrison. Entrare e fare mia la copia, pagandola una cifra astronomica (alla faccia del negozietto mal fornito) è stato un tutt’uno.
Nei giorni seguenti ho sentito molti amici scioccati dalla bellezza di questo Jackrabbit Slim, evidentemente gente che non si era fidata dei caldi consigli all’ascolto del precedente Alive On The Arrival, un disco di esordio come se ne fanno pochi.
Pensavo che avrei trovato in questo LP un Forbert elaboratissimo, in mano a sofisticati produttori, arrangiatori e session man, sotto la pressione di una CBS che si scopriva inaspettatamente fra le mani un nuovo artista per gli anni ’80. Pare che invece alla CBS nessuno si sia ancora accorto del nostro, incuranti evidentemente degli elogi della migliore stampa rock.
Così succede che Forbert sia, nonostante tutto, ancora intento a suonare per N.Y.C. senza un gruppo di accompagnamento ed in apertura di concerti altrui, e che pure discograficamente non ci sia stato nessun tentativo di promozione, né qualche più corposo investimento di dollari in produzione. In ogni caso anche se per Steve Forbert questo coinciderà con qualche mese di gavetta in più, non è un dramma per noi pubblico, dal momento che Jackrabbit Slim è il più incredibile, gustoso, selvaggio, poetico e autentico LP che io abbia ascoltato durante il 1979.
Jackrabbit Slim è un disco rock assai uniforme, che ti avvolge e ti solletica fisicamente per il piacere di ascoltarlo, profumato forte di erba tagliata di fresco, in una nuvolosa giornata che tira alla pioggia. Steve Forbert è un cantautore folk di quelli incazzati, con la chitarra e l’armonica, che suonano per i corridoi della metropolitana e per strade lontane dalle nostre. Un’energia che si scioglie in lunghe ballate sfumate ma robuste, insaporite nella veste discografica dai cori negroidi modello Tamla, verso un risultato finale assimilabile, lo dico per darne un’idea a chi Forbert non lo ha mai ascoltato, a quello di Dylan o di Springsteen, indubitabili poeti di una America urbanizzata.
Di Dylan, Forbert ha preso la solida impostazione delle songs, i binari saldamente fissati alla terra che fanno da spina dorsale a tutto il resto del lavoro. Se ne differenzia soprattutto per la partecipazione vocale, per l’energia ritmica che in certi attacchi ti porta a pensare a personaggi apparentemente piuttosto lontani come genere come la giamaicana Joan Armatrading. Di Springsteen invece ha la poesia della periferia, il gusto carta vetro della strada, anche se i teatri di Forbert scivolano più verso cities limits, verso piccoli agglomerati con le radici nei larghi spazi della campagna, piuttosto che i grattacieli di Manhattan.
Risalendo più indietro nel tempo, Forbert rilegge a modo tutto suo lo spirito viaggio-sui-respingenti di Woody Guthrie e degli altri spiriti folk che vagano senza pace dall’est all’ovest e dal sud al nord per gli sterminati Stati Uniti d’America. Rispetto al primo LP le canzoni di Jackrabbit Slim sono un poco più compiute, più lavorate, probabilmente più mature, e quel che conta, altrettanto belle. Infine, perché no, anche più orecchiabili.
Nell’omogeneità dell’insieme non dovrei proporre preferenze per alcuno dei brani, ma non riesco a trattenermi dal dichiarare il mio amore per l’intensa Romeo’s Tune, per Say Goodby To Little Jos, e per le lente Baby e Sadly Sorta Like A Soap Opera. E da segnalare poi che nella originale copia americana Nemperor, è contenuto un singolo registrato su una sola facciata, a 33 giri, dove per sei minuti e mezzo si snoda il country di The Oil Song, un simpatico invito a non servirsi del benzinaio ma di rifornirsi di benzina direttamente sulla spiaggia, là dove dovrebbe esserci il mare. Ladies & gentlemen: Steve Forbert.
Nemperor 36191 (Singer Songwriter, 1979)
Blue Bottazzi, fonte Mucchio Selvaggio n. 26, 1980
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