Steve Marriner picture articolo

Della band canadese ci siamo occupati più volte nelle pagine delle recensioni, fin dal loro secondo album, To Behold (Il Blues n.117), uscito come i successivi quattro per l’etichetta canadese Stony Plain.  L’apparizione di due terzi della band canadese MonkeyJunk, accanto al loro amico Paul Reddick per alcuni concerti in Italia, ci ha consentito di conoscerli meglio e di parlare, seppur brevemente, col polistrumentista e cantante nativo di Ottawa, Steve Marriner.

Come vi siete conosciuti tu e Paul Reddick?
Ci siamo incontrati la prima volta nel 2001 ad un festival chiamato Harvest Jazz and Blues a Fredericton, New Brunswick, nella zona orientale del paese. Lui stava portando in giro il suo album Rattlebag con i Sidemen, io invece suonavo con J.W. Jones. Avevo solo sedici anni e da allora siamo diventati amici. Mi è sempre piaciuta la sua musica, il suo modo di suonare l’armonica e cantare ma soprattutto le sue canzoni. Come MonkeyJunk abbiamo scritto diverse canzoni insieme a lui, sono un suo grande fan.

Quindi a soli sedici anni suonavi con J.W. Jones.
Sì siamo entrambi di Ottawa, la capitale e prima suonavamo insieme in un altro gruppo. Era la band di un pianista boogie/New Orleans, Johnny Russell, J.W. suonava la chitarra ed io l’armonica, la cosa andò avanti circa un anno. Fino a quando J.W. decise di mettere insieme una sua band e mi chiese di farne parte. Sono rimasto per un paio d’anni, poi sono andato all’università e ho smesso di suonare per qualche tempo, ma poi ho lasciato l’università per tornare a fare musica!

Il tuo primo strumento è stata l’armonica o la chitarra?
L’armonica. Ho cominciato a suonare a undici anni, ho imparato da un musicista di Ottawa che purtroppo è scomparso, il suo nome era Larry Moothan, che molti conoscevano col soprannome di ‘the bird’. Ho studiato con lui per un anno e alla fine dell’anno mi invitò a suonare con la sua band. E anche il nostro chitarrista nei MonkeyJunk, Tony ha suonato con Larry quando era molto giovane. Larry era il tipo di persona che cercava di dare una mano a giovani aspiranti musicisti di blues a Ottawa, una sorta di mentore. Amava molto il blues ed era un ottimo cantante e armonicista, era un vero personaggio, divertente e di gran personalità, purtroppo era anche un alcolista. Dopo aver suonato con Larry, incontrai Tony e altri musicisti di Ottawa e cominciarono ad invitarmi a suonare ai loro concerti, cosa che ho fatto per un po’. Ho lasciato l’università nel 2005 e sono andato in tour con Harry Manx, che forse conoscete, ho suonato l’armonica per Harry fino al 2007. Ho suonato anche su un paio di suoi dischi, Mantras For Madmen e poi sul disco dal vivo, Harry Manx And Friends. Abbiamo viaggiato molto insieme, Canada, Stati Uniti, non l’Europa purtroppo a parte una settimana in Inghilterra, e un lungo tour in Australia, lì Harry è piuttosto conosciuto.  E’ stata una bella opportunità, avevo solo venti o ventuno anni. Harry mi incoraggiava a fare un mio disco e perciò nel 2006 ho registrato un disco a mio nome che è uscito l’anno dopo. Si intitolava Going Up e non ebbe molto successo ma è stato un buon punto di partenza. Quando ho portato in tour il materiale di quel disco, avevo Tony come chitarrista e un giorno stavamo provando a casa sua e io stavo suonando una chitarra baritono che mi piace molto, ci venne in mente di mettere insieme una band, anche solo per suonare la domenica sera in un piccolo pub di Ottawa chiamato Irene’s. E’ un locale dove ero solito suonare da solo, ma volevo appunto coinvolgere altri musicisti e così ho pensato a Tony e a quello che è diventato il nostro batterista Matt. Così sono nati i MonkeyJunk. Il nome lo abbiamo preso da Son House, c’è un filmato in cui suona e poi parla del blues e dice: “I’m talking about the blues, ain’t talking about  monkey  junk”, l’espressione ci piaceva, la trovavamo divertente e così l’abbiamo scelta come nome della band.

Era la primavera del 2008, ecco come abbiamo cominciato come MonkeyJunk. Ogni domenica il locale era pieno, anche se non era grandissimo, ma molto affollato. Abbiamo inciso un disco, Tiger In Your Tank e siamo andati all’IBC a Memphis l’anno seguente, arrivando terzi. Da allora le cose sono cresciute gradualmente e tra poco festeggeremo i dieci anni del gruppo con un tour in Canada e negli Stati Uniti. Mi piacerebbe venire in Europa, chissà magari durante l’estate per dei festival. Da poco lavoriamo con un agente americano e di conseguenza avremo più ingaggi negli Stati Uniti. Il nostro ultimo disco, Time To Roll, è uscito solo lo scorso anno, perciò non so se ne faremo un altro già l’anno prossimo. In questi anni non ho idea di quanti concerti abbiamo tenuto, ma siamo in tour quasi sempre. Inoltre suono la chitarra per Paul nei ritagli di tempo, da ormai un paio d’anni, e da circa un anno suono l’armonica per un altro musicista blues molto noto in Canada, Colin James. Suono anche sul suo disco Blue Highways. Colin ha avuto parecchio successo negli anni Novanta ed è veramente famoso in Canada, sono andato in tour con lui in febbraio e marzo ed è stato bello. Suono anche le tastiere per una giovane artista di Toronto, Samantha Martin, abbiamo inciso lo scorso agosto il suo nuovo disco e credo uscirà nel 2018, è proprio brava, tra soul/gospel e blues. Ma i MonkeyJunk restano la mia priorità.

Chi altro ti piace come autore, oltre a Paul?
Mi piace molto J.J. Grey, belle canzoni e mi piace il suo gruppo. L’estate scorsa abbiamo conosciuto un irlandese ad un festival in Canada, non è tanto blues, più country/roots, ma scrive grandi canzoni, si chiama Foy Vance, abbiamo anche fatto una jam insieme. Ancora non in ambito blues, ma folk, mi piace molto Gordon Lightfoot, il celebre cantautore canadese. E devo aggiungere anche la musica di Harry Manx.

Quali sono i prossimi progetti con i MonkeyJunk?
Non abbiamo ancora in programma un nuovo disco in studio, però stiamo considerando l’idea di fare un album dal vivo, perché il pubblico sembra apprezzare i nostri show. La nostra etichetta non sembra molto interessata ad un disco ‘live’, ma in ogni caso nessuno vende più dischi al giorno d’oggi perciò possiamo fare quello che vogliamo e finiremo per farlo. Amiamo tutte le fasi di realizzazione di un nuovo disco, ogni album ha avuto una lavorazione differente. L’ultimo, Time To Roll, lo abbiamo inciso in sole due settimane mentre per To Behold ci è voluto un anno, a causa dei tour. Registrare in breve tempo, nel giugno dello scorso anno (2016 n.d.t.) ci ha consentito di avere un’energia maggiore. Abbiamo lavorato collettivamente e con l’ingegnere del suono Ken Friesen, che pur non essendo un musicista ha un ottimo orecchio e ci dà sempre un feedback molto diretto, non ha paura di dirci che una cosa non gli piace o non la sente come dovrebbe essere. Ci troviamo bene con lui ed ha anche microfoni e vecchie console d’epoca. Ci piacerebbe venire in Italia, anche perché ovunque andiamo la nostra musica viene apprezzata e inoltre, come sapete, Tony (Diteodoro, chitarrista della band n.d.t.) è nato in Italia.

Ci sono altri artisti con cui vorresti collaborare? Non necessariamente canadesi.
In Canada ci sono molti artisti che non sono molto noti, altri che sono noti in Canada ma sconosciuti al di fuori del paese. Altrimenti dato che Tony è amico di Anders Osborne e ci piacciono i suoi lavori, anche come produttore, non sarebbe male fare qualcosa insieme. Vedremo. Ci sono molti musicisti con cui sarebbe bello collaborare, Derek Trucks per esempio. In un disco nostro abbiamo avuto un paio di musicisti canadesi come ospiti, David Wilcox e Gordie Johnson, ma è stata un’eccezione, in genere non amo quei dischi pieni di ospiti o diciture come ‘featuring’, siamo noi i nostri ospiti! Siamo una band, costruiamo insieme i pezzi, li suoniamo insieme e questo ci dà una compattezza particolare. Certo poi dal vivo abbiamo invitato Paul o James Harman, Johnny Sansone…ma credo che siamo al meglio in trio, quando siamo solo noi, ci conosciamo talmente bene che ci comprendiamo al volo, senza nemmeno bisogno di parlare.
(Intervista realizzata a Milano il 3 novembre 2017)

Matteo Bossi, Marino Grandi, fonte Il Blues n. 143, 2018

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