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Artista eclettico e prolifico, straordinario musicista e grandissimo istrione, Taj Mahal è un gigantesco cultore della roots music americana, profondo studioso di quelle culture popolari che hanno in sé almeno in parte matrici e radici nere. Interprete e studioso al tempo spesso, con la sua incredibile comunicativa riesce a maneggiare e proporre elegantemente i suoni ed i ritmi più esotici, da quelli africani a quelli hawaiani.

La musica, per lui, non ha confini, né vuole essere racchiuso in alcuna definizione stilistica. Uno che preferisce guardare sempre al futuro rispettando il passato. Impartisce lezioni di stile con grande semplicità. Dotato di una voce superba, propone indifferentemente country-blues, rock, folk, reggae, rhythm and blues, soul, musica caraibica e hawaiana, Delta blues e calypso.
È un interprete vitale e al tempo stesso ironico. Taj Mahal è un vero eroe, innamorato della musica del diavolo, ma alla perenne ricerca di un linguaggio musicale universale.
Lo abbiamo intervistato alla fine di un concerto con la sua Hula Blues Band nell’ambito della quattordicesima edizione del Festival di Villa Arconati a Castellazzo di Bollate (Milano).

AP – A chi devi maggiormente la tua ispirazione musicale?
TM – La verità è che devo riconoscenza alla mia famiglia, a mio padre e mia madre. Mio padre, Henry S. Fredericks, faceva il demolitore per la Fisk Tires, ma era anche un eccellente musicista jazz, un compositore e arrangiatore che nell’ambiente chiamavano Genius. Lo chiamavano così Ella Fitzgerald e tutti gli altri… Benny Goodman aveva inciso il suo brano Swamplands. Venne ucciso da un trattore nel cortile di casa nostra. Avevo undici anni, fu un’esperienza devastante. Mia madre Mildred era nata invece a Cheraw nel Sud Carolina, la stessa città dove è nato Dizzy Gillespie. Grazie a loro ho sempre ascoltato musica: lirica, sinfonica, jazz, blues, country… Ho imparato a suonare il basso e contrabbasso ascoltando le incisioni di Domenico Dragonetti (compositore e contrabbassista di Venezia, tra i favoriti di Beethoven, nda).

AP – Come mai questo soprannome, Taj Mahal, con cui ormai tutto il mondo ti conosce?
TM – A casa mia avevo vari soprannomi. A Springfield, Massachusetts, mi chiamavano – e qualcuno mi chiama ancora – Post, altri Henri (alla francese, nda) e così un bel giorno tornai a casa e dissi: “Il mio nome non è Henri, io sono Taj Mahal” e così fu. Il nome mi venne in sogno. C’era un programma televisivo quando ero bambino chiamato Stage Eight in cui vidi suonare un organista indiano assai popolare, Korla Pandit.
E poi da ragazzo leggevo la World Book Encyclopedia per imparare a tenermi aggiornato. E credo sia stato anche per via della mia ammirazione per personaggi come Gandhi, Julius Nyerere, Kwame Nkrumah, Jawaharlal Nehru, Jomo Kenyatta, Anwar Sadat… Mentre frequentavo l’università iniziai a suonare dal vivo come Taj Mahal. Era il nome giusto, ne ero profondamente convinto. Per me il nome Taj Mahal ha un forte significato, non è solo una scelta per lo show business, sta a significare il desiderio di esprimermi con la mia musica, ma al tempo stesso il desiderio di ritornare alle mie e alle nostre origini. La musica è senza tempo.

AP – Puoi ricordare la tua collaborazione con Jesse Ed Davis, uno dei primi grandi chitarristi nativi-americani?
TM – Ho imparato molto da lui. Era il 1968, l’ho visto suonare la prima volta al Topanga Corral (Los Angeles, nda) ed è iniziata subito la nostra amicizia, abbiamo iniziato a frequentarci e scrivere canzoni insieme. Lui viveva a Sherman Oaks con Gary Gilmore, entrambi provenivano dall’Oklahoma, così come Leon Russell, Bill Boatman e Chuck Blackwell. Ecco perché hanno suonato tutti nella mia formazione e sono ben presto diventati la mia band. Non avevo ascoltato nessuno suonare la chitarra come lui, era davvero elettrizzante ascoltarlo, aveva molto feeling. È stato nella mia band per circa quattro anni. Quando nel giugno 1988 è morto per droga è stata una grave perdita…

AP – Nel 1968 hai partecipato al Rock And Roll Circus dei Rolling Stones. Che ricordi hai di quella esperienza?
TM – Fu molto divertente. Era una sorta di risposta ai Magical Mystery Tour dei Beatles voluta da Mick Jagger.

AP – Dei musicisti contemporanei, chi ti piace di più?
TM – Keb’ Mo’, Alvin Youngblood Hart, Curt Fletcher, Corey Harris, Ben Harper, Eric Bibb, Joanna Connor.

AP – Nel 1992 hai inciso l’album Smilin’ Island Of Song con Cedella Marley Booker, la mamma di Bob Marley. Come è stata questa esperienza?
TM – Come tu sai avevo conosciuto e collaborato con Bob Marley. Con sua madre è nata una profonda amicizia. Abbiamo deciso di fare un disco insieme, la cosa più naturale che ci sia. Naturalmente lei aveva in mente brani reggae. La maggior parte erano traditional. L’abbiamo invitata alle Hawaii. E così io e Kester Smith, il mio batterista, abbiamo ascoltato i brani e ci siamo detti: “Ma questo è calypso”, e così abbiamo arrangiato tutte le canzoni con un feeling straordinario e sonorità tra blues, reggae e calypso.

AP – Cos’è in sintesi la musica hawaiana?
TM – Il melting pop nato dall’importazione di ragtime, blues, reggae, jazz.

AP – So che vai fiero della pubblicazione di In Progress & In Motion 1965-1998, un box di tre CD che hai curato personalmente.
TM – Sono molto contento di aver potuto includere delle registrazioni che ho fatto con le Pointer Sisters, un gruppo che mi è sempre piaciuto molto. Con loro c’è una versione dal vivo inedita di Sweet Home Chicago.

AP – È vero che ti piace Paolo Conte?
TM – Sì, è verissimo, è stato Kester Smith a farmelo ascoltare.

Aldo Pedron, fonte JAM n. 86, 2002

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