Tedeschi Trucks One big Family Band. Intervista a Derek Trucks interview picture

Ci sono gruppi che vanno visti dal vivo per comprenderne davvero la portata, la Tedeschi Trucks è uno di essi. Si sono costruiti un seguito fedele alla vecchia maniera, macinando cioè concerti su concerti negli ultimi sei anni, espandendo un repertorio molto vasto, basato sì sui loro tre dischi in studio, ma allargato a cover rese proprie, da classici blues, soul e gospel, a canzoni di Sly Stone, Derek & The Dominos, Dylan, Cohen, Miles Davis o il Joe Cocker di Mad Dogs & Englishmen. L’uscita del loro Live From The Fox Oakland ci ha fornito l’occasione di parlare con Derek Trucks, che del gruppo è insieme capocordata e fuoriclasse a tutto campo. Derek non solo comunica una simpatia e gentilezza pari solo alla sua bravura, ma è un artista dallo sguardo etico e profondamente appassionato verso l’universo musicale tout court, cosa che lo rende, ancor di più, a sé stante.

La band ha già superato le aspettative che tu e Susan avevate quando l’avete assemblata?
Ah ah è possibile, abbiamo una band di grande talento, ma credo sia più che altro una questione di chimica, essendo così numerosi. Però no, credo che la formazione attuale abbia ancora margine. Il nucleo di persone che avevamo messo insieme aveva un potenziale molto buono, questo lo sapevo, e in più Susan è bravissima. Negli ultimi due anni la band si è rinsaldata ancora di più, l’ho avvertito nettamente, il salto definitivo forse c’è stato dopo l’ingresso di Tim Lefevbre al basso, lui ha portato qualcosa che mancava. All’inizio al basso c’era Oteil Burbridge, musicista straordinario, ma forse appunto il modo di suonare di Tim e come si è integrato con tutti ha fatto la differenza. Come il pezzo mancante di un mosaico. Un aspetto non secondario, anzi direi che conta quanto quello musicale, è la sintonia tra noi, il fatto che ci piace stare insieme, visto che passiamo molto tempo in tour e si finisce per condividere gli stessi spazi, se così non fosse, beh sarebbe un problema. Vedi sempre le stesse facce e quando vuoi ritrovarti anche nei ‘day off’ è un bel segno, e ti posso assicurare che non succede in molte band.

In effetti il senso di comunità, di famiglia è palpabile e raro, vedendovi suonare o anche solo dal filmato DVD.
E’ senz’altro una cosa cui teniamo e sono d’accordo, è una cosa abbastanza inconsueta. Viviamo in tempi in cui domina il singolo e l’auto-indulgenza, mentre noi cerchiamo di andare in direzione opposta, conta il gruppo e questo include tutto il seguito, tecnici, roadies, collaboratori…La musica e la famiglia vanno di pari passo, è una cosa che ci ha trasmesso sin da piccoli mio padre. Ricordo quanto si emozionava ascoltando Ray Charles o B.B. King o il Fillmore East degli Allman Brothers o anche solo parlandone. La musica non è solo intrattenimento per lui e non lo è per noi, era una cosa seria, in casa nostra. Forse per questo ho avuto grande rispetto per la musica che ascoltavo sin da bambino, che fosse Duane, Elmore James o B.B. e qualunque degli altri vinili che metteva su mio padre. Per quanto riguarda la famiglia la sua prima lezione è stata di osservare il comportamento delle persone, in questo modo si capisce quali sono le loro priorità, il resto lo impari dall’esperienza.

Sembra che per voi la musica debba avere un senso, un significato più profondo.
Oh si, quando scriviamo un pezzo il messaggio che vogliamo convogliare è una questione centrale, lo stesso se scegliamo di rielaborare una cover da altri artisti. In questo momento storico ho l’impressione che la musica possa tornare a contare, ad aver un ruolo di peso nella società, mentre per troppo tempo sembrava che fosse diventata meno rilevante. Credo sia una buona cosa, però probabilmente è avvenuto anche perché purtroppo il mondo che conosciamo sta scivolando fuori controllo.

Credi che il ritorno del vinile sia legato anche a questo?
Forse. Di certo il vinile è il modo con cui ascoltiamo musica a casa, sono convinto che la musica suoni molto meglio su vinile. In questi giorni stiamo lavorando ai test pressing del Live e penso che il mastering questa volta sia il migliore che abbiamo mai avuto. Non è facile ci vogliono le persone giuste e un lavoro un po’ diverso rispetto al CD, ma sono contento di come sta venendo.

Fate tutto in casa, avete il vostro studio, Swamp Raga,  questo vi consente di lavorare secondo tempi e modi autonomi.
Siamo molto fortunati ma, credimi, ci è voluto parecchio per arrivarci! Un passo alla volta. Avere uno studio era qualcosa che avevo in testa ancora prima di mettere insieme il gruppo, ci avrebbe dato la possibilità di fare le cose alle nostre condizioni. Quando ero in tour con Eric Clapton (2006 n.d.t.), ricordo che ad un certo punto chiamai Susan e le dissi che sapevo cosa avremmo fatto con quei guadagni, avremmo costruito uno studio in giardino, nel retro. Così abbiamo cominciato a lavorarci e a migliorarlo un pezzo alla volta, ogni disco lo abbiamo inciso lì da allora. Si è creato un  bel posto, confortevole, in cui non vedo l’ora di tornare. C’è qualcosa di unico nel lavorare nel proprio ambiente, con apparecchiature che hai scelto e assemblato personalmente, non è come dover andare a New York o Los Angeles in qualche studio e doversi adattare all’atmosfera, ai metodi e allo spazio di altri. E questo si ripercuote anche sulla band, ognuno si trova a proprio agio, non sembra nemmeno di andare in uno studio di registrazione.

Come costruisci le vostre set list? Cambiate spesso e il repertorio, ora è molto ampio.
Non siamo al punto di dover suonare per forza alcune canzoni tutte le sere, perciò cerco di variare molto, soprattutto per luoghi dove suoniamo ogni anno, in modo da proporre un concerto diverso. Per esempio stasera siamo a Washington D.C. e dato che tengo un libro con le set list, dò un occhiata per evitare ripetizioni e se c’è qualcosa che non suoniamo da un po’, ad esempio Midnight In Harlem, la inseriamo. E’ una cosa da tenere in conto dato che ci capita di suonare due o tre sere di fila nella stessa città, quindi bisogna cambiare, non solo per il pubblico ma anche per il gruppo. I ragazzi sono sempre pronti a provare cose nuove, io e Susan dobbiamo stare sul pezzo!

Talvolta all’interno di un concerto avete suonato anche pezzi gospel come I’m On My Way To Heaven o Keep Your Lamp Trimmed and Burning, con una formazione ridotta.
Il bello della nostra band è questo, le possibilità sono molte, può diventare un trio, un quartetto, suonare acustico…addirittura un duo, ad esempio quando è morto Leon Russell abbiamo messo in repertorio A Song For You e Sue la canta accompagnata solo da Kofi (Burbridge, il tastierista del gruppo). E’ una cosa che sta bene a tutti, per fortuna non c’è l’ego di qualcuno che si mette in mezzo o vuole stare sempre sul palco! L’insieme conta più del singolo.

Hai menzionato Leon Russell, cosa ti resta del concerto che avete organizzato nel settembre 2015 in tributo a Mad Dogs & Englishmen.
E’ stata una esperienza molto bella. Lo stesso team che ha filmato il nostro disco dal vivo ha filmato il tributo a Mad Dogs & Englishmen, le prove, il dietro le quinte e molte interviste con i membri ancora vivi. Materiale straordinario. Il problema ora è metterlo insieme, trovare i finanziamenti e assemblare il tutto per una pubblicazione. Noi stiamo cercando di aiutarli e spero prima o poi esca, ci sono interviste con Leon molto interessanti, oltretutto sono forse gli ultimi concerti che ha fatto. Ci siamo divertiti molto, sono stati giorni intensi, la musica e gli incontri con le persone, i musicisti, Chris Stainton, Claudia Lennear, Rita Coolidge…Anche il nostro gruppo ne ha ricavato una riserva di energia e di fiducia notevole, vedere quanto tutti fossero contenti di ritrovarsi e suonare insieme è stato speciale. Un riconoscimento di quel che vogliamo essere.

Come affronti situazioni come quella, in cui bisogna coordinare decine di musicisti? Ci pensi su o tutto viene naturale e pensarci troppo non aiuta?
Beh dipende dai musicisti. Alcuni sono sempre in controllo e non hai bisogno di dir loro nulla, altri invece hanno bisogno di qualche indicazione, di una guida. Credo che il segreto sia mettere ognuno nel suo posto, voglio dire, nella condizione in cui si può esprime al meglio. Credo che il mio ruolo sia di fare un passo indietro e pensare al quadro complessivo, al fluire del concerto, ma non è così complicato, viene abbastanza naturale. Tutto questo in generale deve avvenire prima, in fase di preparazione, saliti sul palco o le cose funzionano oppure no. Si magari posso ricordare a qualcuno una cosa, ma di solito appena calchiamo la scena percepisco subito se andrà tutto bene. Nelle jam di cui mi sono occupato, come al festival Bonnaroo tre anni fa, quello che mi colpisce è il rispetto reciproco tra i musicisti, tra gente come Taj Mahal, Chaka Khan o David Hidalgo, James Gadson…era una sorta di love fest, tutti si stimavano e volevano dare il proprio contributo.

Succede anche quando avete ospiti, come Alam Khan nel concerto di Oakland.
Ci tenevo molto a suonare con lui, siamo amici da anni ed ha suonato un pezzo su Revelator, ma lo ha registrato e poi ce lo ha mandato, a Oakland era effettivamente la prima volta che suonavamo dal vivo insieme, ne parlavamo da tempo e sono doppiamente contento di poter catturare quella sensazione. E’ un musicista di grande talento, viene da una famiglia straordinaria, suo padre Ali Akbar Khan è stato molto importante per me. Da adolescente quando ho scoperto la sua musica e in generale la musica classica indiana, mi ha affascinato subito, oltretutto nello stesso periodo ascoltavo bluesmen come Junior Kimbrough e la musica sembrava provenire dallo stesso posto. Luoghi molto distanti geograficamente eppure uniti da una sorta di connessione spirituale. Credo che quando ti accorgi di queste connessioni, e a me è successo con una sincronia singolare, è come costruire una mappa e come musicista la cosa ti dà maggior libertà di espressione, ti senti legittimato e incentivato a convogliare quelle stesse emozioni umane. Ci sono in effetti delle linee individuabili, mi ricordo di aver letto il libro di Robert Palmer, Deep Blues, in cui ipotizzava di ricondurre ad una determinata etnia alcuni bluesmen mississippiani.

Hai citato il blues del Mississippi, lo scorso anno avete suonato alla Dockery Farms, che tipo di esperienza è stata?
E’ un posto denso di storia, come saprai è legato a Charley Patton, Pops Staples, Son House, Howlin’ Wolf…è un luogo che ha ancora le tracce di quel passato. C’è ancora una chiesa alla fine di una strada polverosa, dove sono sepolti alcuni dei parenti di Patton. Non c’è più il ponte sul Sunflower, so che al di là del fiume c’era un juke joint dove Patton era solito suonare al sabato sera, l’atmosfera è davvero particolare, mi hanno detto che Patton faceva pagare 25 centesimi per attraversare il fiume e arrivare al juke joint. Eravamo diretti a New Orleans per suonare al Jazz Fest e ci siamo fermati a Indianola per mangiare qualcosa, abbiamo visitato il museo di B.B., sono state giornate intense. Quando siamo stati alla Will Dockery House e alcuni dei membri del gruppo non erano del tutto a proprio agio. Voglio esplorare ancora quella regione, l’ultima volta che siamo passati da Jackson ho noleggiato una macchina e con mio figlio siamo andati a Bentonia, la città natale di Skip James.

Siete stati anche al Blue Front Cafè?
Si, ma Duck Holmes non c’era, un cartello diceva che era in Wisconsin per un festival, so che lui ha imparato da Jack Owens. Però abbiamo visitato quei luoghi e alcune tappe del Blues Trail. Ci torneremo.

Che ricordi ti legano a B.B. King?
Siamo stati fortunati ad aver suonato molte volte con lui ed aver avuto quel tipo di rapporto. Quando succede di suonare con gente come B.B. ti pervade anche un senso di responsabilità, come se il passaggio del testimone acquistasse un peso specifico differente. Lo vedi nei loro occhi, quando ti parlano, vogliono che la loro musica vada avanti. Era così per B.B. o John Lee Hooker ed è la stessa cosa con Buddy Guy, col quale abbiamo suonato poche settimana fa a Chicago. Vale lo stesso per Leon Russell. Avere una connessione, vera, con persone così è qualcosa per cui ritenersi grati. Voglio dire, e mi è successo, sono sul palco con B.B., suono un classico ‘B.B. King Lick’ lui mi guarda, lo risuona e mi sorride, beh questo è impagabile, un momento totalmente surreale. Una di quelle cose che racconterò ai nipoti!

E John Lee Hooker? Lo hai conosciuto poco prima della sua scomparsa?
Ah sì, era il capodanno 1999/2000 e avevo suonato con la mia band, c’era un altro gruppo e infine John Lee.  Arrivò Susan nel backstage e mi presentò a John Lee Hooker. Lui l’adorava, “dove vivi tesoro?” le chiedeva, e lei “vado a vivere con Derek, se lui vuole” e John Lee, “beh sarebbe uno stupido a non volerlo”. “Comunque io ho sette case, puoi stare in una delle mie” ed io che pensavo, Sue io nemmeno ce l’ho una casa! Fu incredibile, davvero. Hooker era veramente enorme, fuori dal tempo, le sue incisioni da solo degli anni Cinquanta sono ineguagliabili. Susan salì sul palco con lui quella sera per il countdown dell’anno nuovo con Hooker, aveva in mano una bottiglia di champagne e ad un certo punto lui le mise al collo la sua chitarra!

Avete suonato alla Casa Bianca, altra occasione particolare.
Assolutamente. Abbiamo suonato all’Inaguration Day del 2009 e poi qualche anno dopo siamo stati invitati a suonare alla Casa Bianca, con B.B., Buddy, Warren e altri. Sono quelle cose che non immagini nemmeno ti possano succedere, eravamo lì con tutta la famiglia, Susan, mia mamma, i miei figli…già vedere mia figlia chiacchierare con Booker T era strano. Poi il presidente Obama il giorno prima venne alle prove non visto, restò in fondo alla stanza, mentre provavamo un pezzo di Howlin’ Wolf e ho notato che Obama lo conosceva. Mi ricordo di aver pensato: caspita il presidente conosce Howlin’ Wolf! Non credo sia mai successo prima. Vedere B.B. trattato come un ospite d’onore alla Casa Bianca è stato bellissimo, quasi irreale a ripensarci. Purtroppo non credo che ci saranno altri concerti del genere con questa presidenza, di sicuro noi non suoneremo. Non so chi sia disposto a farlo. Anzi spero che molti artisti raccolgano la sfida di raccontare questi tempi pericolosi  in cui la coscienza collettiva è destabilizzata, c’è bisogno di musica che risponda a questo. Stamattina con Susan stavamo ascoltando gli Staple Singers e la loro musica, le loro voci, come quelle di Curtis Mayfield o Nina Simone sono estremamente  necessari oggi. Ci vogliono artisti così, che siano un faro. Stasera abbiamo il primo di tre concerti a Washington e credo che faremo un brano degli Staples.

C’è spesso un rimando al gospel nel canto di Susan.
Sono del tutto d’accordo, dirò di più, una delle prime cose che ci ha fatto legare con Sue è stata che entrambi eravamo in quel periodo immersi completamente nell’ascolto di Mahalia Jackson. Questo ci ha uniti da subito. E amiamo molto Clara Ward, Dorothy Love Coates, Sister Rosetta Tharpe, gli Staples ovviamente, Swan Silvertones, Soul Stirrers…ed è diventata parte della nostra musica. Nel gruppo con Alecia, Mike e Mark (Chakour, Rivers e Mattison i coristi, n.d.t.) abbiamo in pratica un mini coro e possiamo cimentarci con quella tradizione, di tanto in tanto. E’un altro indicatore delle potenzialità della band e credo siamo arrivati ad un punto in cui questo fermento, questa percezione è condiviso. Questa crescita la puoi avvertire, anche rispetto ai nostri primi dischi, cui comunque sono molto affezionato.

La prossima estate, per la terza volta, avete messo in piedi un Wheels Of Soul Tour con altre due band. Il primo anno con Doyle Bramhall II e Sharon Jones, che è mancata lo scorso autunno.
Sharon era straordinaria, una forza della natura, siamo stati in contatto con lei fino alla fine. Era soprattutto una bella persona, che ha ispirato tutti noi. Nel giro di una settimana, durissima, abbiamo perso lei, Leon e Leonard Cohen. Questi tour sono una occasione di conoscere più a fondo gli altri musicisti, non è come incrociarsi ad un festival, dove si ha giusto il tempo di salutarsi. Diverso è l’essere insieme per un mese e mezzo o due di concerti, come nel Wheels Of Soul, fare musica insieme, passare tempo fuori dal palco. Quanto a Doyle, beh è un caro amico e in pratica un membro onorario del gruppo, abbiamo collaborato spesso e amo molto il suo nuovo disco. Lo scorso anno abbiamo avuto i North Mississippi Allstars e i Los Lobos ed è stato altrettanto bello, mentre quest’anno ci saranno Hot Tuna e Wood Brothers, altri amici. Con Oliver Wood ci conosciamo da quando io avevo dodici o tredici anni e lui diciassette circa e suonava nella band di Tinsley Ellis, eravamo due ragazzini e non avevamo nemmeno l’età per bere! Sono sicuro che ci divertiremo.
(Intervista realizzata il 23 febbraio 2017)

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 138, 2017

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