Se avete letto favole musicali come Shelley River, se amate le storie più strane ed inverosimili, al limite del credibile, sedete con noi attorno al fuoco ed ascoltate il nuovo lavoro di questo musicista culto definito da Athur Wood, il giornalista texano che ha scritto le note di copertina di Call Up The Hurricane, “come uno dei più misconosciuti talenti del cantautorato anglo-americano”.
Chi conosce Terry Clarke, e lo ha seguito sino al suo ultimo album su Transatlantic, passando per i suoi albums su Minidoka, la session Rhythm Oil, sa che esistono diverse dimensioni per questo personaggio: il rocker, il folk-singer, dalle apprezzate influenze ‘Irish’, il country-man, ed il songwriter dallo stile personalissimo, oserei dire ‘unico’ per qualità di voce e vena poetico-musicale.
Dopo aver scritto gran parte dei brani originali di Moonbeat, l’album dell’amico Michael Messer prodotto da Ron Kavana che vi consiglio di riascoltare, Terry ritorna con un progetto a lungo sognato e realizzato in quel di Austin con un gruppo di amici. Quella che egli definisce una “Country, jazz, folk, blues Orchestra” comprende pochi ma straordinari elementi: Jesse Taylor, chitarra, Champ Hood, chitarre, violino e voce, David Heath, basso, Lisa Mednick, tastiere, accordion e voce. Non si tratta di una band improvvisata, Terry conosce tutti da più di un decennio, così come parla ed apprezza il linguaggio musicale di ognuno di loro. Musicisti che hanno diviso le scene con Joe Ely, Lyle Lovett, Walter Hyatt, Robert Earl Keen, rappresentano la piccola orchestra di una variegata folk-opera ‘Made in Austin’, che brilla in prevalenza di luce acustica, cesellata da un cantautore ‘anglo-irlandese-texano’.
Si tratta dell’album della maturità che, se pur ricorda nelle atmosfere, sognanti ed intimiste, nella vena poetica, il suo incantevole Shelley River, ha qualcosa di diverso, di ancor più profondo e meditato, di ‘vissuto’. Come scrive Terry nelle note di copertina, “le canzoni di questo album vanno in posti dove non sono mai stato prima come autore e non riesco a pensare ad altri musicisti con cui avrei voluto viaggiare”.
Lo schivo Terry mette in evidenza la Lucky Orchestra, forse uno dei migliori cast possibili assemblabili in quel di Austin, ma l’arrangiatore, il direttore d’orchestra, il produttore e l’autore è lui. Lucky nasce così sotto i migliori auspici e la sua magica dodici corde lega un intrigante guitar-sound che si avvale degli spettacolosi Champ Hood per le parti acustiche e di Jesse Taylor per quelle elettriche.
Blue Daydreams, in apertura, è il brano più mosso dell’album, mai i ritmi sono delicati, eterei, di una pacata levigatezza.
Crow Blues è una ballata bluesy, triste, con un bel controcanto della Mednick, degna di nota anche per l’enorme lavoro all’organo, e per il centrato violino di Champ.
In This Life è una ballata drammatica, ancora organo in sottofondo e misurati interventi di Taylor.
Pillow Talk è un altro brano ad alta intensità emotiva punteggiato dalla chitarra elettrica che percorre tutto il brano.
Ancora uno splendido Terry Clarke, con il caratteristico drammatico ed intenso stile vocale, protagonista di Gardenia Blues, tastiere elettriche e voce della Mednick co-protagonisti.
Un superlativo Merel Bregante è responsabile del sound della Lucky orchestra, e mai tante sfumature sono state messe in risalto da un ingegnere del suono e da un co-produttore.
Songs di una consistenza eterea, crepuscolari, come Daddy Sunshine o Mr. Lucky prendono corpo grazie al violino o le tastiere, un elegante lavoro delle chitarre, che, unendosi, sviluppano le superlative melodie di Terry Clarke, esaltano l’impatto di una voce espressiva e ricca di sfumature. L’album scorre lieve, con una grazia impalpabile, grazie anche alle sottigliezze stilistiche dei musicisti che sottolineano con esemplare incisività le songs del protagonista.
Il viaggio continua con The Art Of The Blues, con sole chitarre ed accordion in sottofondo, la ritmata Hummingbirds In My Soul, giocata tra chitarra elettrica e organo, l’acustica e nostalgica I Still Miss Someone. L’intensa ed Irish folk-song Did He Sing Danny Boy?, bravo Champ al violino, la jazzosa e swingante I Sing The Country Blues, la solitaria e tex-irish ballad By The Light Of The Plough, ed un’inusuale cover di Bye Bye Blackbird, per piano e voce, chiudono un album che sembra riconsegnarci nella sua sontuosa integrità quello che, purtroppo, continua a rimanere un talento misconosciuto ai più. Speriamo che ferro di cavallo, quadrifoglio e stelle gli siano di buon auspicio non solo dal punto di vista artistico.
Appaloosa AP 132 (Singer Songwriter, 1999)
Luigi Busato, fonte Out Of Timen. 29, 1998
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