Max Johns

“Il segreto meglio custodito di…”, rubrica tra le più originali del nostro giornale, è molto seguita. Per pura coincidenza, visto che queste pagine sono aperte ad ogni genere musicale, protagonisti sono sempre stati artisti blues sin dal primo numero e, anche questa volta, ‘la musica del diavolo’ è protagonista.
Ma per la prima volta ci troviamo a parlare di un musicista di colore, quasi che il fenomeno del blues-revival riguardasse solo artisti bianchi o coinvolgesse solo personaggi già affermati della musica nera.

Ad onor del vero, sembrano esserci sicuramente più blues-men bianchi coinvolti in questo genere musicale ed i musicisti neri delle nuove generazioni sembrano più interessati ad altre forme espressive; non è questa la sede di disquisizioni di natura socio-culturale, ma è fuor di dubbio che i musicisti neri abbiano scelto meno faticose e più lucrative vie verso ‘il paradiso’ ed abbiano lasciato la loro musica alla borghesia bianca, che provasse, almeno nella musica e nella letteratura, il gusto di essere ‘neri’, poveri e proletari.

Max Johns è per molti versi una eccezione, un personaggio decisamente inusuale e pittoresco che ha cercato di farsi strada in una città come Nashville suonando il blues. Come non poteva risultarci simpatico un cantante-chitarrista nero che partiva, chitarra in resta ed intonando un blues, contro i mulini a vento, di una città così musicalmente monolitica?

Nato a Murfreesboro, Tennessee, nei primi anni ’60, Max Johns ha una precoce educazione musicale che inizia all’età di dieci anni suonando la tromba. Ma l’attività nella banda della scuola non gli basta, all’età di dodici anni scoprirà il suo vero amore, la chitarra. Impara tutto da solo, ed alla radio ascolta tutto il r&b ed il blues che viene trasmesso non disdegnando incursioni nel rock e nel jazz.

L’incontro con Dizzy Gillespie all’high school lascerà un segno profondo in questo giovane le cui canzoni preferite erano Purple Haze e Free Bird, ma più sul piano umano che musicale. Nonostante si renda ben presto conto che una città come Nashville non abbia niente da offrire come carriera ad un giovane chitarrista di colore, continua a tentare ed a credere nelle proprie possibilià. Nei primi anni ’80 si sposta nella Washington D.C. area, suonando spesso in gruppi jazz per guadagnarsi da vivere.

Non trovando sbocchi anche in questo senso nell’84 ritorna a Murfreesboro, più che mai deciso a coltivare il suo amore per il blues. L’anno dopo sfortunatamente deve interrompere ogni attività causa un colpo che gli lascia parzialmente paralizzata la parte destra del corpo. Rigorose cure di riabilitazione, l’amore della famiglia e una ferrea volontà di ricominciare lo restituiscono alla musica armato di una nuova determinazione ed una passione che permette ad un pubblico sempre più vasto di capire le emozioni trasmesse attraverso le sue canzoni.
All’inizio degli anni ’90 inizia a suonare regolarmente in molti clubs di Nashville e dintorni, solitamente esclusiva di artisti country o songwriters locali.

Lo nota Fred James, chitarrista, autore e produttore giovane ma molto sensibile al blues d’autore. Questi lo aiuta prima a piazzare alcune sue songs ad alcuni veterani della Chicago-scene ed a produrre poi questo rimarchevole esordio.
Max Johns è un musicista abbastanza unico nel suo genere, in grado di esprimersi con facilità e credibilità nei più diversi generi del blues. Ricorda personaggi come il Taj Mahal degli esordi e I Could Be Dangerous difficilmente passerà inosservato.

Accompagnato dalla sua band, dove spiccano Danny Ramsey, slide resonator guitar, Casey Clark e Fred James, chitarre soliste, Bob Kommersmith e Rob Fehart, basso, Jenny Hoeft e Brad Peterson, batteria, Pete Newland, armonica e Dennis Taylor, sax, Max Johns si rivela un interprete di prim’ordine nel pur affollato universo blues attuale. Le sue performances vocali sono centrate e sentite sia quando si esprime in chiave acustica che in quella elettrica, trovando i giusti timbri vocali per ogni occasione. Ed in questo lungo CD, Max Johns ha modo di offrirci un saggio della sua versatilità di interprete ed autore eseguendo in modo omogeneo e personale blues dalle più diverse influenze e tendenze.

Accompagnandosi alla chitarra, blues-man di razza, detta il ritmo a tutti i musicisti. Inizia subito a graffiare con l’intrigante ed urbana, Let Me Show You My Tattoo che cattura subito l’ascoltatore. Poi passa ad uno dei due capolavori Delta-slide del suo amico Danny Ramsey, Off The Deep End – l’altro è Free The Soul Of Robert Johnson – con un graffiante lavoro alla slide e l’intervento di Pete Newland a sostegno della toccante voce di Johns. Take Me To Calvary è un lungo e lancinante blues percorso dall’inconfondibile chitarra di Fred James sottolineato da pastosi tocchi di Hammond. Grande atmosfera e toccante prova vocale di un superbo Max Johns.

Dopo un brano di questa levatura non si sa più cosa aspettarsi, ma Max e Co. riescono ancora a graffiare percorrendo tanto i sentieri di un navigato blues urbano, capace di lasciare il segno e impressionare senza alcuna concessione a schemi abusati o all’inquinamento rock.
Corposi e robusti blues si susseguono: la title track, Used To Be A Man, alternandosi sapientemente con pezzi elettroacustici d’ispirazione country-blues, Black Cat Bone e Hometown Boy Makes Good, che tengono costantemente desta l’attenzione per seguire Max Johns nella sua ambiziosa odissea blues.

A dispetto delle diverse fonti d’ispirazione, tutte però rigorosamente blues, questo geniale cantautore di colore riesce ad offrirci con I Could Be Dangerous un lavoro intenso, sentito ed omogeneo nella sua struttura come pochi.
I meriti vanno divisi anche con l’impeccabile produzione di Fred James, capace di scoprire nuovi talenti oltre che riesumare e far rendere al meglio vecchie glorie come Homesick James, Frank Frost o Sam Lay, ma saltano all’occhio le doti naturali, creative ed espressive, oltre a quelle maturate e sofferte, di questo giovane di Murfreesboro, TN, in grado di ‘comunicare’ come pochi attraverso il blues. Un segreto forse troppo grande per non saltare all’occhio – pardon, all’orecchio – ed essere subito svelato.

Franco Ratti, fonte Of Time n. 6, 1994

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