Bob Dylan - Chronicles Vol. One cover book

E’ orgoglioso di avere un distintivo con su scritto “Il miglior nonno del mondo”. La musica polka gli ha sempre fatto scaldare il sangue. Le sue canzoni, a un certo punto, erano diventate “come portarsi in giro un pacco di carne andata a male”. Quando si trasferì a Woodstock, aveva un paio di pistole Colt e una carabina Winchester con cui avrebbe voluto sparare agli hippie che gli entravano in casa, se la polizia non gli avesse sconsigliato di farlo perché “sarei stato io a rischiare la galera”.
Il ritratto che Bob Dylan fa di sé nel primo volume della sua attesissima autobiografia non è certo quello che i suoi fan si aspettavano. E infatti, come nella miglior tradizione dylaniana, si parla già di tradimento e si grida allo scandalo…
Chronicles Vol. One è uscito nelle librerie americane lo scorso 5 ottobre e chi ha dimestichezza con l’inglese naturalmente l’ha già fatto proprio (le prime copie avevano un CD promo contenente i seguenti brani con il riferimento alla pagina in cui vengono citati: The Cuckoo, inedita, dal vivo al Gaslight nel 1962, p. 15; New Morning, da New Morning, pp. 140-41; Father Of Night, da New Morning, p. 113; Political World, da Oh Mercy, pp. 165-68, 183-85; Man In The Long Black Coat, da Oh Mercy, pp. 209, 215-17; Dignity, demo inedito, pp. 169, 186-87, 189-91). La versione italiana (edita da Feltrinelli) dovrebbe uscire a gennaio.
Erano anni che veniva annunciata l’uscita del primo volume della autobiografia dell’uomo che nessuno si sarebbe mai aspettato ne scrivesse una, vista la privacy con cui si è sempre circondato. Nato inizialmente come semplici ‘liner notes’ che Dylan doveva scrivere per accompagnare la ristampa in formato Sacd di alcuni suoi album, è diventato ben presto un libro vero e proprio, su incoraggiamento di David Rosenthal della casa editrice Simon & Schuster, entusiasta di quanto il cantautore gli aveva fatto leggere in anteprima.

Sembra che lui sia uscito ‘distrutto’ dall’esperienza, come ha dichiarato in un’intervista: “Mi sono sorpreso a scoprire di non divertirmi come quando scrivo canzoni. Sono sorpreso che la gente scriva libri”. Per farlo, ha usato una vecchia macchina da scrivere Remington (vi aspettereste che Bob Dylan usi un computer?), terminando a volte i capitoli in una sola seduta: “Se mi fermavo, non tornavo più indietro a rileggere quello che avevo fatto”.
Molti si aspettavano una sorta di caotico flusso di coscienza nello stile del suo unico, precedente libro, la raccolta di racconti Tarantola, scritta a metà anni Sessanta e pubblicata nel 1971, ma quelli erano altri tempi e quello era un altro Bob Dylan. Oppure nello stile molto poetico ed elegante delle liner notes dei suoi dischi, ad esempio quelle splendide di World Gone Wrong.
Niente di tutto questo: Chronicles è come ascoltare un vecchio amico al bar davanti a un bicchiere di birra che ti racconta quello che ha fatto ieri. Uno stile diretto, semplice e divertentissimo, chè Bob Dylan, anche se non tutti se ne sono accorti, è dotato di uno humour degno del miglior Woody Allen. E niente ordine cronologico: questo primo volume passa dall’infanzia all’arrivo a New York nel 1961, dall’esilio a Woodstock nel ’69 e l’incisione del disco New Morning del ’79 fino alla registrazione di Oh Mercy nell’89 in altrettanti capitol. ‘Cronache’ di una vita, tutto qua. Con l’esclusione di mogli e figli: “I dettagli personali sono importanti se possono smuovere una storia ma queste ‘cronache’ non è altro che scrollare l’albero della vita e osservare cosa ne casca giù. Cose come quelle qua non ci sono. Non penso sia abbastanza interessante per un lettore. Avrei potuto essere più malizioso o appassionato se avessi voluto ma non ce n’era bisogno”.
Ovviamente il fan che vuole sapere come si svolse esattamente il divorzio di Bob Dylan da Sara non è d’accordo.

Parecchi lettori hanno detto che, in vero stile stalinista, Dylan ha operato una revisione e una alterazione dei fatti e del suo stesso pensiero per piegarli a una immagine di sé artefatta e non veritiera. Ovvio: come disse lo scrittore Tony Colaianne, “ognuno di noi pensa di possedere un pezzo di Bob Dylan” e quando non corrisponde alle nostre aspettative ci delude. Possiamo solo immaginare lo shock di qualche vecchio radicale hippie mentre legge, a proposito del periodo a Woodstock alla fine degli anni ’60: “Qualunque cosa fosse la controcultura, ne avevo visto abbastanza. Ero stanco di come i miei testi venivano estrapolati, il loro messaggio sovvertito e che io venissi chiamato il Grande Bubba della Ribellione, il Sacerdote Massimo della Protesta, lo Zar del Dissenso, il Duca della Disobbedienza, il Leader degli Scrocconi, il Kaiser dell’Apostasia, l’Arcivescovo dell’Anarchia. Di che diavolo state parlando? Nomignoli orribili da qualunque parte li guardi. Tutte parole in codice per Fuorilegge”.
E a proposito, in un’intervista pubblicata di recente su USA Today, ha chiarito una volta per tutte: “Divenne del tutto chiaro, per me, che l’intero concetto di controcultura era solo un grande spaventapasseri che indossava foglie morte. Non aveva nessuno scopo nella mia vita, ed è sempre stato così da allora”. Rincara la dose, Dylan: “Non so cosa chiunque altro stesse fantasticando su questo, ma quello su cui fantasticavo io era un’esistenza tranquilla, con un lavoro dalle 9 alle 5, una casetta con un cancello bianco e le rose in giardino”. E che “nella mia vita reale potevo fare le cose che amavo di più: giocare a baseball, organizzare feste di compleanno, portare i miei figli a scuola o in campeggio, andare in barca o in canoa, andare a pesca”. Abbastanza per far risuonare di nuovo i fischi che lo accolsero a Newport nel ’65? No, non è ancora abbastanza.

Sentite qua: “Piantine stradali delle nostre proprietà (a Woodstock, ndr) dovevano essere state distribuite in tutti e cinquanta gli Stati a uso di gang di vagabondi e drogati. Arrivavano fannulloni in pellegrinaggio dalla California. Babbei entravano a tutte le ore della notte. Inizialmente erano solo vagabondi senza casa che entravano illegalmente, gente abbastanza innocua. Ma poi cominciarono ad arrivare radicali furfanti in cerca del Principe della Protesta. Personaggi indescrivibili, ragazze che sembravano autentiche ‘stordite’, spaventapasseri, sbandati in cerca della festa. Peter La Farge, un mio amico folksinger, mi aveva regalato un paio di pistole Colt e io avevo anche un fucile Winchester da qualche parte, ma era orribile pensare a cosa potevi fare con quelle cose. Le autorità, il capo della polizia (Woodstock aveva più o meno tre poliziotti), mi dissero che se avessi sparato incidentalmente o se avessi anche sparato in aria come avvertimento, sarei stato io quello a finire nei guai. Questo era inquietante. Avrei voluto dare fuoco a quella gente”.
Mica male, no? Ovviamente questo è il passaggio più controverso, ma crediamo che dopo tanti anni Bob Dylan, a ragione, abbia voluto togliersi più di un sassolino dalle scarpe e dire finalmente la sua, dopo che, gente come A.J. Weberman andava a frugare tra la sua spazzatura per trovare le prove che il musicista si era venduto al sistema, o dopo che libri, giornali e televisioni hanno sempre cercato di incasellarlo in questo o quello schieramento. E ce n’è anche per i colleghi musicisti, come Joan Baez, “che registrò una canzone di protesta su di me che ottenne grandi passaggi radiofonici, sfidandomi a uscire fuori e guidare le masse, essere il loro avvocato, guidare la crociata. La canzone ascoltata alla radio sembrava uno spot pubblicitario”.
Ovviamente il libro non è tutto così. A proposito della stessa Baez, in un altro passaggio Dylan scrive: “Non c’era nessuno come lei. Sembrava molto matura, seducente, intensa, magica. Per quanto potesse sembrare illogico, qualcosa mi diceva che lei doveva essere la mia controparte. Uno strano sentimento mi diceva che avremmo inevitabilmente finito per unirci. Non c’era nessuna della sua stessa classe”. Oppure di quando si reca a registrare Blonde On Blonde a Nashville, la prima volta che un musicista rock compie questo atto coraggioso: “Quando io, Al Kooper e Robbie Robertson con i nostri capelli lunghi arrivammo a Nashville ci volevano cacciare”. Si parla anche di Bono degli U2.

Per lui Dylan ha parole di grande ammirazione e divertente umorismo: “Una sera Bono, il cantante degli U2, venne a cena con altri amici. Passare del tempo con Bono è come essere a cena su di un treno, ti sembra di muoverti verso qualche posto. Bono ha l’anima di un antico poeta e devi stare attento quando sei con lui. Può ‘ruggire’ sino a che la terra trema. È anche un buon filosofo. Aveva portato con sé una cassa di birre Guinness.
Parlammo di quelle cose di cui parli quando stai passando l’inverno con qualcuno. Parlammo di Jack Kerouac. Bono conosce Kerouac piuttosto bene. Kerouac, che aveva celebrato città come Truckee, Fargo, Butte e Madora, città che la maggior parte degli americani non sa nemmeno dove si trovino. Mi sembrò divertente conoscesse di più a proposito di Kerouac della maggior parte degli americani. Bono sa come discutere con chiunque. È come quel tale in quel vecchio film, quello che colpisce un poveraccio a mani nude fino a farlo confessare. Se Bono fosse venuto in America all’inizio del secolo sarebbe diventato un poliziotto. Conosce un sacco di cose sull’America ed è curioso di conoscere quelle che non sa (…). Eravamo solo io e Bono seduti al tavolo. Tutti gli altri se ne erano andati. Venne mia moglie e disse che andava a letto. ‘Vai avanti’, dissi, ‘arrivo in un minuto’. Mi ci volle un po’, invece, e la cassa di birra era praticamente finita”.
Per quanto riguarda le sfiziosità, sarà d’interesse sapere che viene risolto l’annoso dilemma del suo nome d’arte: “La prima cosa che feci appena me ne andai di casa fu di chiamarmi Robert Allen. Per quanto mi riguarda era quello che ero, il nome che mi avevano dato i miei genitori. Mi sembrava il nome di un re scozzese e mi piaceva. Poi qualche tempo dopo, improvvisamente, lessi qualche poesia di Dylan Thomas. La gente mi aveva sempre chiamato Robert o Bobby, ma Bobby Dylan mi sembrava troppo frivolo. La prima volta che qualcuno, a Minneapolis, mi chiese come mi chiamavo, risposi istintivamente e automaticamente senza pensare. Dissi semplicemente ‘Bob Dylan'”.

È solo il primo volume comunque, anche se visti i tempi dell’autore, ci si domanda quando gli altri due volumi previsti usciranno. Ma questo primo tomo è comunque abbastanza per tenerci occupati in discussioni molto a lungo. Una cosa è sicura: Bob Dylan aveva delle cose da dire e ce le sta dicendo. Non è un caso che ha scelto proprio il primo libro della serie per dire una volta per tutte che lui è un uomo libero, al di fuori di ogni schema di parte: “L’attore Tony Curtis una volta mi disse che la fama è una occupazione in sé, che è una cosa a parte. E Tony non potrebbe essere più nel giusto. La (mia) vecchia immagine con il tempo lentamente svanì e non mi ritrovai più sotto la volta di qualche influenza maligna. In ogni caso, anacronismi diversi mi erano stati gettati addosso, anacronismi di minor dilemma, seppure potessero sembrare pesanti da sopportare. Leggenda, Icona, Enigma (‘Budda in abiti europei’ era il mio favorito), cose del genere, ma va bene così. Questi soprannomi non erano pericolosi, era facile farsene una ragione. Profeta, Messia, Salvatore: questi erano quelli duri da sopportare”.

Paolo Vites, fonte JAM n. 109, 2005

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