Ci siamo finalmente! Ecco il primo disco di bluegrass edito in assoluto nel nostro paese, dimenticando pietosamente alcune ridicole compilazioni di grosse etichette discografiche multinazionali. Si tratta dell’edizione italiana di un album uscito negli Stati Uniti nel 1976 col titolo Prairie Bluegrass (Rounder Records 0053), che raccoglie due registrazioni radio del gruppo dei fratelli Bray con Red Cravens eseguite dall’emittente WHOW di Clinton, Illinois, nel 1961/62.
Si faccia bene attenzione al termine registrazione radio, che non ha qui il significato di lavoro domestico carpito dall’apparecchio radiofonico da parte di un privato, bensì di incisioni su nastro magnetico di interi programmi musicali e non, che le varie stazioni effettuavano (ed effettuano) per proprio conto, sfruttando la momentanea presenza di artisti, in modo da mandarli in onda poi in qualsiasi momento secondo le bisogna. È una tecnica che non hanno inventato le moderne emittenti libere nostrane (le quali spesse volte ne abusano), ma che era già in uso nella seconda metà degli anni Venti e si indicava col termine radio transcription: i programmi venivano incisi su dischi a 78 giri in alluminio ad una sola facciata (c/o le trascrizioni della Carter Family presso le radio XER-A di Del Rio in Texas e CBX ad Edmonton in Canada).
L’edizione Albatros dell’album in esame è intitolata, con una felice intuizione, Really Bluegrass e questo, a mio avviso, per due motivi di fondo. In primo luogo si tratta di un disco che contiene realmente ciò che annuncia a grandi caratteri in copertina, codificando, una volta per tutte e con un eccellente esempio, il tipo di musica in questione presso il pubblico italiano già abbastanza confuso da obbrobriose spiegazioni che del termine bluegrass ha dato e continua a dare certa stampa musicale facilona. E secondo perché Nate Bray (mandolino e voce solista), Francis Bray (contrabbasso), Harley Bray (banjo e baritono) e Red Cravens (chitarra e tenore) eseguono bluegrass puro, vivo, palpitante, non contaminato da inutili fronzoli e canoni pseudo-rurali di Nashville (e sue filiali californiane): questo è bluegrass reale nella migliore tradizione.
I Brays con Cravens avevano un album, come Bluegrass Gentlemen, per la defunta casa discografica Liberty (1960) e col medesimo nome erano stati registrati da Mike Seeger per un lavoro mai edito dal titolo Bluegrass East & West & Midwest Or Somethings Like That su etichetta Folkways. Assolutamente svincolata dal grosso successo commerciale, la storia del gruppo è fatta di jams notturne in appartamenti nelle città più disparate (Chicago, Los Angeles, Nashville) e di corse in automobile in lungo e in largo per gli Stati Uniti alla ricerca di festival di bluegrass in compagnia di John Hartford e Jim Raines.
Il succo di queste esperienze vissute, raccolto in una vasta collezione di nastri magnetici, ha fornito il materiale per un primo album in Rounder (0015, 419 West Main), con la partecipazione di Hartford al fiddle in alcuni brani (suono rustico, tecnica perfetta, ma volutamente trasandata che l’artista ha mantenuto e trasposto oggigiorno sul banjo). Vocalmente efficacissimi (Blue Eyed Darling, Thinking About You, In Despair), anche se strumentalmente meno agili (almeno nei breaks), i fratelli Bray si presentano qui con un repertorio classico che spazia dal tradizionale fiddle-tune Billy In The Low Ground, alla tante volte bistrattata ballata Barbara Allen (Child 84), al motivo per square dance Buckin’ Mule (che è poi la sigla di apertura e di chiusura del programma), al tradizionale, arrangiato alla maniera di Charlie Monroe, Red Rocking Chair.
Non si avvertono momenti di stanchezza o ripetizioni di moduli già sfruttati o, peggio ancora, servili imitazioni (neppure in Home Sweet Home): tutto è estremamente personale, pulito e cristallino. Un piccolo mistero è legato alla presenza di un fiddler in Harley’s Breakdown, Toy Heart, John Henry e Harbor Of Love. Non può essere Nate Bray, come ipotizza con un punto interrogativo l’Albatros, poiché il suo mandolino risulta sempre udibile nei suddetti brani contemporaneamente al violino; è più probabile trattarsi invece di Jim Raines, che proprio in quel periodo si unì al gruppo. Il fatto che il nome del violinista non venga citato nelle registrazioni è comunque piuttosto strano.
A questo punto devo mio malgrado toccare l’argomento delle note sul retro della copertina italiana. In ventisette righe è condensata una breve presentazione sul bluegrass, una tra le più oscene capitatemi sotto gli occhi. Se è indice di beata ignoranza riferire in tali note che “il bluegrass negli Stati Uniti conosce da parecchi decenni (?!) una notevolissima diffusione (?!) con un numero enorme (?!) di gruppi che lo suonano”, non è comunque assolutamente possibile scrivere che “è originario della zona montuosa degli Appalachi” e che “ha lontane origini che lo ricollegano alla musica strumentale delle isole britanniche”.
Infine è semplicemente ridicolo affermare che “entro certi limiti, la tecnica del violino fu influenzata anche dall’uso che dello strumento se ne faceva presso la gente di colore”.
Quest’ultima proposizione è la più grave e presuppone una profonda incompetenza: fa piazza pulita in un sol colpo di tutti i violinisti di otm e richiama amaramente alla memoria alcuni episodi, zeppi di falsi storico-musicali, del Radici televisivo. È triste dover ammettere che spesso la Albatros, a dischi eccellenti sotto tutti gli aspetti, faccia corrispondere delle note esplicative che, non solo sono compilate da gente poco preparata, ma che soprattutto finiscono per sminuire (e di molto) l’importanza dei suoi sforzi editoriali pionieristici.
Albatros VPA 8395 (Bluegrass Tradizionale, 1978)
Pierangelo Valenti, fonte Mucchio Selvaggio n. 14, 1978