Dato che siamo fra quelli a cui Del piace (ehm…) ci siamo fatti le cinque ore di auto necessarie per arrivare a Zurigo. Altri italiani, ovvio, non ce n’erano, e non credo che la scarsissima pubblicità data all’avvenimento sia stata determinante in questo, anche se ci ha impedito di scrivere alcunché su Country Store o altrove. Ad ogni modo ci siamo ritrovati con i soliti amici e conoscenti tedeschi e svizzeri a commentare su come fosse incredibile che per un concerto bluegrass si fossero mossi, come sponsor, ben tre radio private, un produttore di sigarillos e uno di alcolici, più ovviamente la Swiss Bluegrass Music Association, anche se nel quadro di un 13° (leggi: tredicesimo!) Internationales Country & Western Festival Zurich (non so se capite lo svizzero) che dura dal sette febbraio al ventitre marzo…
Quasi come da noi, lo so. Anche come affluenza a questo curioso misto di castello e saloon: da ottocento a millecento persone ogni sera, e badate bene, non per incerirsi di birra e sparare con le pistole da cowboy, bensì per ascoltare musica e stare insieme in un’atmosfera country. Mi dicono che durante il concerto di Doyle Lawson & Quicksilver i pezzi a cappella sono stati ascoltati in silenzio quasi religioso, roba da non credere! E poi facciamo i superiori e usiamo il termine svizzero in senso dispregiativo! Vabbe’…
Aprono Helmut & The Hillbillies, cioè in pratica i vecchi Hard Times (Lody e Kerstin Van Vlodrop, Norbert Dengler e Jurgen Biller) più Helmut Limbeck. Due set molto divertenti, che la dicono lunga sull’esperienza del gruppo con pubblici non di addetti ai lavori: loro non hanno problemi a fare Duelin’ Banjos, Diggy Liggy Lo o addirittura O Sole Mio, e li fanno con la giusta dose di scemenze, preparando così la gente al resto dei pezzi, che sono Flatt & Scruggs, Jimmy Martin e Osborne Brothers a stecca, più diverse escursioni su Dwight Yoakam. Ritmo serrato, suono molto aggressivo, libidine banjoistica per il Granada pre-war di Jurgen (scusate questo povero cuore), e un pensiero a farli suonare qui da noi.
Poi ci sono i due set della McCoury Band, attorno a due microfoni, con il buon vecchio suono degli old days ma con più volume e presenza, e con la coreografia old-style (Del ha mosso i primi passi sul palco proprio in questo modo, quasi quaranta anni fa, quindi sa come fare). Due set in parte prevedibili per chi segue il gruppo da tempo anche con registrazioni dal vivo (i primi pezzi sono sempre gli stessi), in parte resi più vivi dalla partecipazione del pubblico, che tempesta di richieste la band. Scorrono così i classici di Del insieme con pezzi dai CD più recenti (quelli che hanno riportato il nostro, aggiungo meritatamente, fra i grossi nomi del bluegrass) e dal nuovo The Cold Hard Facts. Il favore del pubblico pare concentrato soprattutto sul mandolino di Ronnie e sul fiddle di Jason Carter, ma anche i più rari interventi di Rob (SPBGMA Banjo Player of the Year 1996) vengono salutati da poderose ovazioni, e gli ululati che sentiamo sulla presentazione del grande Mike Bub (IBMA Bass Player of the Year 1996) ci fanno capire che anche lui è alto nelle classifiche di tutti.
Sulla band torreggia, anche fisicamente, papà Del, che ci da una bella lezione di chitarra ritmica, facendo capire cosa sono ritmo, dinamiche e potenza, mentre con la voce di sempre scuote i bicchieri… Dopo il concerto mi dirà che da una settimana sta male, è rauco e non riesce a cantare bene, ma ce ne siamo accorti molto poco. Lo show è serrato, perfettamente ritmato, e l’amabilità di Del come M.C. è tale da farci sentire a nostro agio come se lo conoscessimo da una vita e fossimo nel suo salotto, invece che in una bolgia alquanto fumosa e, purtroppo, di base un po’ rumorosa (quando la gente viene scatenata dalla musica diventa chiassosa, anche se siamo in Svizzera… Niente di eccessivo, ma un po’ si sente). C’è anche chi viene trascinato a ballare dal fiddle di Jason, ed è tutto feedback positivo: il concerto della sera prima, mi dicono, ha avuto una partecipazione di ballerini ben maggiore, e Del lo ha decisamente gradito.
Alla fine la band deve tornare sul palco per ben tre tornate di bis, ognuna di molti pezzi, ma nonostante ciò riesce a lasciare la voglia di ascoltare ancora a lungo questo bluegrass tradizionale, pieno di fuoco ma anche di grazia, con strumenti che sanno di volta in volta martellare e accarezzare (anche se sono carezze un po’ ruvide), voci che ti entrano nell’ anima (la voce McCoury sarà anche un gusto acquisito, ma se ti acchiappa sei finito), e uno show che è veramente uno show, non soltanto una serie di canzoni una dopo l’altra.
Non riusciamo a fare una vera intervista, non ne abbiamo nemmeno voglia, visto che tutti ci parlano come se fossimo cugini in visita, raccontandoci fatti buoni e cattivi da Nashville (questo sta male, quell’altro sta meglio, domenica è il mio compleanno e facciamo una festa alla Station Inn, e così via), promettendo di venire in Italia almeno come turisti, discutendo pregi e difetti degli strumenti, in generale lasciando scaricare l’atmosfera del concerto.
Torniamo in nottata, e rivedo il mio letto all’alba delle sei e trenta. E chi lo sa se facciamo tutto questo solo per sentirci sempre giovani o per vero amore del bluegrass: forse siamo semplicemente pazzi. O no? Certo che se invece di Zurigo fosse, che so, Tortona sarebbe un po’ meglio. Ma so già che invece sarà Monaco, o Grenoble: non ho parole. Ne ripartiamo al prossimo reportage.
Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 36, 1977