Kingston Trio

“Attraversando il Paese con mia madre e le mie sorelle, sentimmo per la prima volta le canzoni commerciali della musica folk: Tom Dooley e Scotch & Soda del Kingston Trio. Prima di diventare snob e di imparare a guardare dall’alto in basso tutta la musica folk commerciale, perché imbastardita ed impura, il Kingston Trio mi piaceva molto. Quando poi diventai uno dei maggiori professionisti del folk puro, mi piacevano ancora, ma tenevo i loro albums infilati in fondo allo scaffale dei dischi.” (da E Una Voce Per Cantare di Joan Baez – Sperling & Kupfer, 1989, pag. 41). L’inizio del secondo capitolo dell’autobiografia di Joan Baez la dice lunga su come in certi ambienti si giudicasse certa musica… Quel pregiudizio ha fatto molti danni che estendono i loro effetti ancora adesso. Si sente parlare e si legge di infiniti gruppi assai meno importanti ma sul Kingston Trio pare caduto il silenzio.

Il 1997 segnerà il quarantesimo anniversario della nascita di questo gruppo; pochi se ne ricorderanno, temo, eppure ha cambiato la storia della musica popolare. Anzi si può affermare che l’ha iniziata. Dire che nel 1959 erano popolari è come dire che lo erano i Beatles nel 1964; un vero understatement. Dal Kingston Trio hanno preso in molti: i Beach Boys (le camicie a righe e l’hit Sloop John B), gli Shadows (All My Sorrows), Frank Sinatra (It Was A Very Good Year), Trini Lopez (Lemon Tree), i Manhattan Transfer (Scotch & Soda e Coo-coo-u) e un’infinità di cantanti che hanno rifatto i loro pezzi e copiato il loro stile. Tom Dooley diede inizio al folk revival che vuol dire la riscoperta di un patrimonio comune a tutti gli statunitensi, e quindi capace di dare loro un’identità, del tutto ignorato dai giovani dei sixties, specialmente da quelli delle città.

Prima del Trio, altri gruppi avevano offerto al grande pubblico l’occasione di conoscere la sterminata eredità della musica popolare bianca e nera ma mai avevano raggiunto veramente un successo di massa. Gli Weavers, ad esempio, tra i quali militava Pete Seeger, avevano avuto, nel 1950 alcuni hits, quella Goodnight Irene di Huddie Ledbetter, Leadbelly, che, con il suo ritmo da valzerino e il suo testo sdolcinato, non rappresentava certo lo stile, tinto di un forte impegno sociale, del gruppo e Wimoweh che sarebbe poi diventata il brano di chiusura dei concerti dei Kingston Trio, per finire nuovamente nella hit parade, in versione pop e con il titolo The Lion Sleeps Tonight, con i Tokens dall’inarrivabile falsetto (anche questa usata come jingle in uno spot Tv proprio in questi giorni). Ma erano eccezioni, incidenti, non ebbero conseguenze importanti.

Dopo il sorprendente ed imprevisto successo di Tom Dooley (la storia vera di un fuorilegge), che arrivò come un uragano a chiudere i fifties, il mondo non fu più lo stesso. I campus universitari divennero avidi di folk music, i discografici andarono alla ricerca di giovani talenti e si creò un mercato, prima inesistente, per la musica popolare. Apparvero in Tv, grazie al Kingston Trio, chitarre e banjos e i giovani, attratti dal loro suono allegro e frizzante, cominciarono a strimpellare e a canticchiare vecchie ballate. Attraverso il repertorio del Trio scoprirono Woody Guthrie e i Clancy Brothers, il Calipso e il bluegrass.

I tre ragazzi della band divennero il catalizzatore di un enorme revival che, se ebbe aspetti commerciali e di edulcorazione e imbastardimento della tradizione, portarono però alla luce immensi tesori che sarebbero altrimenti rimasti sepolti sugli scaffali polverosi di qualche etnomusicologo. Provate ad ascoltare il loro con­certo al festival di Newport del 1959 (sul cd Live at Newport, Vanguard facilmente reperibile e assolutamente imperdibile!) per capire l’energia e lo humor che esprimevano dal vivo e l’incredibile accoglienza da parte del giovane pubblico entusiasta; nelle note allegate al cd, si spiega come essi non potessero, dopo il loro set, lasciare il posto a Flatt & Scruggs a causa dei rumoreggiare della audience che non voleva lasciarli andar via.

Dave Guard, banjoista (nota per i bluegrassari: sentite il suono del suo Vega long neck, suonato con tecnica mista tra il frailing e il fingerpicking, in Gobber peas o MTA, per citare qualche brano a caso) e mente del gruppo, arrangiava i pezzi con notevole gusto e competenza tecnica, portando gli impasti vocali a livelli qualitativi inauditi; Bob Shane, chitarra a sei corde e voce solista per eccellenza del trio (nel quale comunque si alternavano tutti al lead, ognuno con la sua personalità ben definita, un po’ come faranno, mutatis mutandis, i Beatles), capace di creare atmosfere di un’intensità estrema; Nick Reynolds, chitarra tenore (a quattro corde, sorella maggiore dell’ukulele, caratterizzata da un suono sottile e terso, capace di ritmi velocissimi) e voce alta, furono i founding members.

Quando nel 1961, dopo otto albums per la Capitol più uno natalizio, Dave Guard, che si sentiva limitato nei confini del Trio, se ne andò per esplorare nuovi orizzonti con gli Whiskeyhill Singers (che vissero pochissimo, incisero due albums e la colonna sonora, vincitrice dell’Oscar, per How The West Was Won), il suo posto fu preso nientemeno che da un giovane John Stewart, che già aveva composto brani registrati dal Trio. Nel 1967, quando a sua volta lascerà il Kingston Trio per divenire un singer songwriter, scriverà Daydream Believer che diverrà un enorme successo per i Monkees.

Oggi John Stewart è un autore cult, con un seguito forse limitato ma fedelissimo; nell’ultimo anno ha pubblicato non uno ma diversi dischi validissimi, a conferma della sua vitalità. E in ogni disco esegue brani che presentava quando era componente del Kingston Trio; ci prova l’onestà di questo musicista che crede davvero in quello che fa e non rinnega il suo passato. John Stewart, come prima di lui Dave Guard, non erano banjoisti bluegrass ma hanno fatto molto per quel genere (Stewart addirittura ha scritto le liner notes sull’album dei Dillards Live, Almost! dichiarandosi “a frustrated banjo player” e invidiando la tecnica stellare di Doug) sia interpretandone a modo loro dei brani classici (Molly & Tenbrooks, ad esempio), sia attirando l’attenzione sul five string banjo.

L’impasto vocale, ben studiato, ben provato e solo apparentemente elementare, era spontaneo e abbastanza soft da essere tacciato di commercialità ma la bellezza dell’arrangiamento e delle voci sono innegabili. Altri hanno fatto cose più complesse e sofisticate, come i pregevoli Limeliters (anch’essi ancora attivi; almeno fino al luglio scorso quando mancato il loro leader, Lou Gottlieb che non ebbe piccola parte nei primi arrangiamenti del Kingston Trio) o i raffinati Journeymen con John Phillips, poi nei Mama’s & Papa’s, e lo Scott McKenzie, autore dell’hit del flower power St. Francisco, o Peter Paul & Mary, loro cloni, ma nessuno ha raggiunto la loro studiata ed efficace naivetè che, all’orecchio contemporaneo, non risulta datata come altre, più legate al gusto dell’epoca.

Ci sarebbe molto da dire sui loro dischi: se volete sapere tutto, potete procurarvi l’esauriente volume (e anche molti dei dischi citati nel presente articolo) The K.T. on record, scritto a più mani da Ben Blake, Jack Rubeck e Allan Shaw. Di facilmente reperibile, oltre al Live at Newport, c’è The Kingston Trio (Capitol) che raccoglie il primo Lp e il live At The Hungry, entrambi acerbi ma seminali, e Collector’s Series (Capitol) che presenta numerosi singoli dalle origini allo scioglimento (va detto che il K.T. è ancora attivo e più bello e più forte che prima: ne fanno parte due fondatori, Bob Shane e Nick Reynolds, più un nuovo arrivato, che però è con loro da anni: l’ottimo vocalist e banjoista extraordinaire, assai più vicino al bluegrass dei suoi predecessori, George Grove. Questa formazione ha pubblicato di recente un buon Live At The Crazy Horse – locale californiano, non parigino! – per l’etichetta Silverwolf, che presenta recenti esecuzioni di materiale vecchio e nuovo, compreso un inedito di Kris Kristofferson).

Questo album è adatto a chi vuole conoscere a volo d’uccello l’evoluzione completa del Trio. C’è poi un cd natalizio, un po’ atipico quanto a repertorio e strumentazione (bouzuki, inutilizzato altrove), ma assai piacevole, dal quale infatti molti altri gruppi hanno pescato a piene mani: The Last Month Of The Year (Capitol). Si trovano poi infinite raccolte, greatest hits (non male quello della See for Miles The Kingston Trio), bootlegs, cd economici, etc. I dischi originali, detto per inciso, sul mercato dei collezionisti, hanno un valore notevole.

Ma l’acquisto più intelligente, per chi volesse conoscere questa band d’importanza storica e godersi le loro armonie e il loro banjo, è il cofanetto quadruplo The Capitol Years: due cd riassumono il lavoro del trio originale con Dave Guard e due quello con John Stewart. Sono presenti numerosi inediti e la rimasterizzazione è eccellente. Di più non si può chiedere. E’ possibile seguire con chiarezza le armonie di ogni voce nei trios e gli strumenti sono ben evidenziati. Lo confesso: per me, questa configurazione è vicina alla perfezione. Una bella voce solista, raggiunta nei cori da due stupendi compagni, chitarre acustiche dal suono genuino che forse non fanno evoluzioni virtuosistiche (ma provate a rifarne i ritmi: vedrete che non sono poi così banali), non snocciolano scale di accordi da giramento di testa, ma che inseguono, e trovano spesso, uno standard di gusto al quale difficilmente si resiste.

Che altro? Un contrabbasso, suonato da David Wheat, musicista espertissimo, per dare solide fondamenta al ritmo; niente batterie, niente violini né sezioni di ottoni o diavolerie elettroniche. Solo oneste chitarre acustiche, un banjo, voci che si fondono con naturalezza. Come nel miglior bluegrass, quello di Bill Monroe, degli Stanley Bros, come nel miglior folk, come quello di Pete Seeger, di Ewan McColl. Senza compromessi, senza concessioni al gusto del momento ma anche senza rinunciare ad essere figli del proprio tempo. E li accusavano di essere commerciali, o di non volersi impegnare politicamente. Eppure hanno cantato Woody Guthrie e Cisco Houston e Jesse James (che, nella loro versione, “robbed from the poor & gave to the rich”, come certi governi…).

Certo oggi non abbiamo più l’orecchio tarato su queste sonorità. Accostarsi al K.T. è come tornare alle origini, come gettare i videogames e giocare ancora con le bambole di pezza e i cavallucci di legno. Forse il K.T. rappresenta un mondo che non c’è più, un mondo ideale dove si suonava per stare insieme, per il gusto che dà fare e ascoltare musica, non solo per i soldi o per la hit parade.

Tom Dooley una canzoncina semplice semplice, senza pretese; l’hanno cantata tutti nelle gite scolastiche e ancora lo fanno quelli che, quando divenne un successo mondiale, ancora dovevano nascere. Sono un nostalgico se ascolto roba di 40 anni fa? E quelli che ascoltano il vecchio Bill Monroe delle origini? I classici sono classici! Anche per questo, dopo tanti anni, lo confesso, mi piacciono ancora.

Maurizio Angelo, fonte Country Store n. 36, 1997

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