Dirk Hamilton

La voce umana che intona un motivo declamando un testo su di una appropriata base strumentale è per me la più importante delle forme artistiche conosciute. Qualcuno può ritenere che sia il cinema ad essere più penetrante, ma questo non è il mio caso. Ritengo vi sia una sorta di torpore passivo associato al cinema; un po’ come cadere in trance, isolarsi, disconnettersi.
In campo musicale ci si identifica con la canzone, si respira con essa e gli orizzonti diventano più ampi. Ciascuno diviene così davvero protagonista, vivendo intimamente le emozioni secondo il proprio codice di riferimento. Ciò detto, certamente confermo di gradire un buon film — come tutti del resto — ma debbo dire che considero il cinema più come una droga che un elisir, quale invece ritengo sia la musica… o meglio la canzone d’autore.
Desidero ringraziare Out Of Time per avermi chiesto di scrivere queste righe. In effetti sono ormai trent’anni che scrivo canzoni, ma non mi era ancora capitato di scrivere qualcosa su questo fatto, ossia sulla mia attività di songwriter. Una attività, quella di scrivere canzoni, per me così naturale tanto quanto può esserlo — per un ragno — la tessitura della propria tela o la produzione del miele per un’ape. Vediamo un po’ quindi se quel che penso circa l’attività cantautorale può essere — oltreché di mio — anche di vostro interesse.

Curioso. Mi sembrò come di imbattermi nella fotografia ‘vivente’ del giovanotto che ero nel 1978. Fu nella primavera di quest’anno, durante il mio ultimo tour europeo. Stavo guidando con l’amico Max da Carpi a Ferrara quando la radio cominciò a diffondere How Do You Fight Fire?, un brano dal mio vecchio album Meet Me At The Crux. Rimasi scioccato dal timbro della mia voce. Era sottile, piuttosto acuta, tesa e rabbiosa. Mi venne da sorridere pensando a quale fosse l’ultima volta che ebbi modo di scrivere una canzone da cantarsi a squarciagola… credo sia passato parecchio tempo ormai.

Beh, credo proprio di preferire la mia voce attuale rispetto a quella del ‘ragazzo’ che cantava How Do You Fight Fire?, anche se devo ammettere che non era niente male. Alla fine della canzone il conduttore della trasmissione iniziò un discorsetto: “Questo era Dirk Hamilton, uno dei magnifici perdenti (nda: chiunque essi siano o cosa diavolo voglia dire) degli anni Settanta. Dopo l’album Thug Of Love del 1980, a Dirk Hamilton venne a mancare il coraggio di proseguire nel suo discorso, scomparendo così dalla scena. Oggi è però tornato a noi con il nuovo album ‘Yep!‘ edito dalla Appaloosa….”

Coraggio? Mi è mancato il coraggio?
Poi mi ricordai di una cosa letta su una rivista specializzata italiana qualche anno fa. Credo fosse nel bel mezzo della recensione di Go Down Swingin’. Penso dicesse più o meno così: “Dirk Hamilton ha inciso quattro splendidi dischi per delle major labels tra il 1976 ed il 1980 ma, a differenza di Graham Parker, gli è mancato il coraggio di continuare”.
Ora, quando uno fa il cantautore ed in qualche modo è un personaggio pubblico, si deve anche aspettare di essere talvolta, diciamo così, frainteso. Tuttavia non so proprio capacitarmi di come certa gente possa mettere in circolazione delle banali malignità e cert’altra gente sia così incline a bersele ciecamente.

L’unica informazione disponibile alla critica di settore era che avevo smesso di far musica per qualche tempo. Come si potesse concludere che mi fosse mancato il coraggio di andare avanti, proprio non so. In tempi passati mi è sempre importato poco di queste chiacchiere, diciamo pure che le ho sempre bellamente ignorate. Ora invece voglio prendermi il lusso di farci sopra qualche considerazione.

In genere quando si è maltrattati ce lo si ricorda… Vi passo una delle citazioni peggiori spese su di me: “Dirk Hamilton sta facendo di tutto per dimostrare ed affermare la sua genialità. Niente da fare: è e rimarrà un rotto in culo”. Questa me la ricordo in modo particolare non solo per la manifesta volgarità ma perché Rich, il mio manager di allora, si arrabbiò al punto da rintracciare il telefono del ‘giornalista’ e lo chiamò in mia presenza. Non avrei voluto che lo facesse, ma Rich non volle ascoltare ragioni. Rich disse a questo tizio che egli aveva tutto il diritto di non gradire il disco (credo fosse proprio Meet Me At The Crux) ma definire l’artista in quel modo così volgare era inaccettabile. Il tizio all’altro capo della cornetta sembrò alquanto spiazzato dalla telefonata. Saltò fuori che era uno studentello che scriveva a tempo perso su questa piccola rivista musicale del Midwest. Figurarsi come poteva rimanerci avendo al telefono un potente manager che chiamava da Beverly Hills per fargli il… mazzo!
Rich gli chiese perché mai si fosse permesso di definirmi in quel modo senza nemmeno conoscermi personalmente. Il ragazzo, imbarazzatissimo, non riuscì ad articolare altro se non che sembrava, al momento della recensione, una bella frase ‘ad effetto’ da scrivere.

Non pensava certo il ragazzo che quella frase, oltreché dai suoi amici del college, sarebbe stata letta anche da altri. E nemmeno alle possibili conseguenze. Penso sia stato il buon Frank Zappa a coniare una citazione che condivido: “Ci son due cose sbagliate in campo musicale: i lettori ed i giornalisti”. Vi sono certamente tanti giornalisti musicali preparati e sensibili in giro per il mondo. Ma è altrettanto vero che vi è una miriade di personaggi sui quali faremmo meglio a stendere un velo pietoso. Molti poi sono di parte e poco obiettivi.

Per non parlare di quelli il cui cinismo si può tagliare a fette. E pretendono poi di giudicare i sentimenti più intimi che un cantautore cerca di offrire al suo pubblico. Sarà meglio che questa gente si dia una mossa; sarà meglio cercare di sfuggire a paradigmi, frasi fatte e faziosità varie. Sarà meglio che la critica musicale si faccia un po’ più seria, evitando di riversare in una recensione il fiele delle proprie frustrazioni.
L’autostima troppo spesso porta a mancare di rispetto agli altri. Questo mi offre lo spunto per riflettere su come certa gente si permetta di trattare qualcun’altro come un oggetto. E’ dura rimanere buoni in un mondo che, notte e giorno, ti dice — in tante maniere — che non sei nessuno. O, se sei qualcuno — o qualcosa —, sei giusto un, diciamo così, consumatore.

Temo che la vita di molti sia incentrata sui soldi. O meglio, qualcuno — per sentirsi vivo, per dimostrarsi — ha forse bisogno di spender soldi. Un surrogato di esistenza. Meglio sarebbe ritrovare se stessi… che penso sia poi il punto cruciale del lavoro di un artista. Fare tesoro del proprio talento, scoprire, mantenere e rinnovare il proprio spirito artistico, offrendolo agli altri.
Davvero penso che lo scrivere canzoni — parlo chiaramente della canzone d’autore — sia una meravigliosa arte. Penso che il lavoro di un artista possa essere considerato un po’ come il ‘rumore’ che egli genera nel tentativo, magari lungo e difficile, di affermarsi. Attraverso quel processo di creazione della canzone, di registrazione, di serate dal vivo, un artista arriva man mano a conoscersi meglio, a capirsi.

E più questo processo si acuisce più si cresce in quell’arte che si è scelta o che la natura ha scelto per noi. E più ci si approssima al proprio naturale destino, più forti e sincere diventano le canzoni. La qualità delle proprie canzoni è direttamente proporzionale a quanto concreti e sinceri si è dentro, individualmente. E più si lavora, si soffre e si dà ascolto al proprio intimo, che sempre ci suggerisce la giusta strada da percorrere, più si misura e si prende coscienza.
Ad un certo punto della mia vita, il mio intimo mi ha suggerito di fermarmi. Mi ha bisbigliato che forse non avevo più niente da dire e quindi sarebbe stato meglio star zitto e aspettare tempi migliori. Certo l’idea di fermarmi con la musica mi terrorizzava. Non avevo fatto nient’altro sino ad allora. Che fare ora? Che fare per guadagnare, per sostenermi? Perché buttare tutti questi anni di carriera al vento?

Tuttavia ero perfettamente conscio che il mio intimo mi stava indirizzando correttamente. Continuare con la musica sarebbe stata una scelta non saggia. E, per colmo d’ironia, questo mio momentaneo distacco dalla musica è stato poi interpretato come un atto di codardia, quando, invece, posso tranquillamente affermare che si è trattata di una delle decisioni più coraggiose che abbia mai preso.

Finii per intraprendere una attività di assistente sociale per adolescenti disadattati. Lo feci per tre anni e fu una esperienza di incommensurabile valore. Imparai molte cose, incluso la capacità di rimuovere l’autoindulgenza. Imparai piuttosto cosa significa la parola ‘compassione’. E col tempo l’ispirazione tornò. Tornò la voglia e la capacità di comporre.
Gradualmente ricominciai anche ad esibirmi in pubblico. Credo di aver fatto bene a stare un poco lontano dalla musica: mi son preso del tempo per ascoltare piuttosto che per continuare a parlare… e ne valeva la pena.

In definitiva è stato proprio un bene l’aver prestato ascolto al mio intimo che mi suggeriva di interrompere. Aveva ragione. E non poteva essere che così: il proprio cuore non mente mai. “…Coward, clown, traitor, idiot, beast, / such was a poet and shall be and is / Who’ll solve the depths of horror to defend / a sunbeam’s architecture with his life: / and carve immortal jungles of despair / to hold a mountain’s heartbeat in his hand” (E.E. Cummings)
(traduzione di Renato Bottani)

Renato Bottani, fonte Out Of Time n. 7, 1994

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