Tina Turner

La vera storia musicale di Tina Turner e tutto il suo talento artistico oltre le immagini un po’ distorte e fin troppo celebrative di What’s Love Got To Do With It, il film che ne racconta la tumultuosa esistenza al fianco di lke.

Quando in uno sperduto paesino del Tennessee, di nome Nut Bush, nacque nel novembre del 1939 Tina Turner, Charlie Christian fece la sua comparsa come chitarrista nel sestetto di Benny Goodman; Miles Davis ricevette in regalo per il suo tredicesimo anno la sua prima tromba, Ethel Waters, luminosa stella di Duke Ellington al Cotton Club, divenne la prima interprete nera di un dramma messo in scena a Broadway (Mama’s Daughters) e Billy Holiday incise Strange Fruit, cronaca drammatica di un linciaggio nel profondo Sud. Ma fu anche l’anno di Via Col Vento, Il mago di Oz e di Greta Garbo che rise in Ninotchka.

La Pan Am inaugurò voli regolari di collegamento con Londra; a New York Edwin Armstrong scoprì la modulazione di frequenza, un mezzo di trasmissione misteriosamente immune da scariche e disturbi, e costruì la prima rozza stazione radio in FM. Sulla gamma in AM gli americani si accontentavano di God Bless America di Kate Smith e canticchiavano spensieratamente Over The Rainbow e In The Mood di Glen Miller e magari South Of The Border, l’ultimo successo di Gene Autry, lo ‘yodeling cow-boy’ dello schermo.

Nel recentissimo What’s Love Got To Do With It, film di Brian Gibson sulla vita della grande cantante, la prima volta che Tina appare si chiama ancora Ann Mae Bullock, ha più o meno sei o sette anni e si dà già un gran da fare a storpiare il gospel nel coro della chiesa. E’ la scena più bella del film e l’unica che testimoni il suo grande amore per la musica.

E’ incredibile, ma se si toglie la prima esibizione pubblica, che la fa conoscere ad lke, non rimane nulla del rapporto di Tina con la musica che interpreta. Tutto il film è morbosamente centrato sulle botte e le prevaricazioni del marito, che appare a tal punto odioso da farlo diventar quasi simpatico per la paradossalità dell’accanimento con cui viene ripreso.
Nonostante non si discutano le ragioni di Tina, il film appare eccessivamente celebrativo e non è un caso che in America si siano addirittura formati dei comitati a favore di Ike.
Il repertorio musicale viene tutto sommato ignorato e la stessa Nut Bush City Limits, pezzo autobiografico fondamentale scritto dalla stessa Tina, viene presentato in un contesto poco significativo, senza sottolineare il significato che esso possiede.

La grande energia che la Turner sprigiona sul palco e la sofferenza interpretativa che da sempre la caratterizza non vengono sviscerate, spesso neanche sottolineate: sembra quasi che l’essere diventata cantante di rhythm’n’blues sia stata una casualità, una qualsiasi forma di lavoro capitata in circostanze favorevoli. L’anima che fluisce da ogni sua interpretazione non interessa al regista; Gibson dall’autobiografia I, Tina, uscita nel 1986, ha colto che doveva essere consumata una vendetta, che Ike doveva uscirne a pezzi e che quindi bisognava puntare la cinepresa sul viso gonfio e sanguinante dell’interprete frutto dei calci e delle sventole subite.

Il film finisce col rendere poca giustizia a Tina Turner: la sua voce e la sua sensibilità meritavano ben altra attenzione, invece sono stati rappresentati come intermezzi neanche tanto significativi di un rapporto balordo con un marito padrone. Quello che è stato solo sfiorato nel film e che invece era fondamentale rilevare (visto tra l’altro che nell’autobiografia occupa parecchio spazio) è l’analisi dell’ambiente, di quel fervore musicale che verso la fine degli anni cinquanta pulsava tra i giovani americani e che coinvolse anche Tina, quel rhythm’n’blues che si stava in parte trasformando in rock’n’roll e che col suo potenziale mostruoso di energia dava la forza di superare i traumi generazionali di una società in sviluppo post-bellico.

Il rock’n’roll non aveva pregiudizi razziali e sia i bianchi che la gente di colore rimasero a tal punto coinvolti dalla spettacolarità del nuovo simbolo di cambiamento che si identificarono con i grandi interpreti di quella musica.
I gruppi si formavano e si scioglievano nel giro di settimane, c’era una ricerca sfrenata dell’hit per farsi conoscere e puntare al successo. Lo stesso Ike, dopo molto suonare in locali anonimi, trovò l’occasione favorevole esibendosi, con quelli che sarebbero poi diventati i suoi Kings Of Rhythm, da supporter a B.B. King, allora già molto conosciuto e stimato.

Fu proprio Blues Boy a raccomandarlo per un’incisione a Sam Phillips, ma la sfortuna volle che l’incisione, Rocket 88 (era l’ultimo modello della Oldsmobile), venisse fatta a nome del cantante del gruppo, Jackie Brenston, e che a lui fossero accreditati i diritti d’autore. Nonostante il pezzo l’avesse effettivamente scritto Ike e fosse diventato un successo da mezzo milione di copie non fruttò all’autore che una ventina di dollari.

Ike Turner ebbe la possibilità di rifarsi poco tempo dopo quando diventò studio-man e talent-scout per conto della Modern/RPM di Joe Bihari e portò in sala di incisione bluesman del calibro di Howlin’ Wolf, Elmore James e Bobby ‘Blue’ Bland. Cominciò a guadagnare parecchio, tanto da concedersi i primi lussi e da rimettere insieme la vecchia band, con la quale si trasferì a East St. Louis. Il ’55 e il ’56 furono anni di buon successo che gli valsero molti contratti e parecchie incisioni. A questo punto i Kings Of Rhythm diventarono un gruppo famoso la cui notorietà varcò i limiti regionali per raggiungere quelli più vasti nazionali.

George Edick, proprietario dell’Imperial, un noto locale di St. Louis in cui il gruppo si esibì per anni un giorno alla settimana, ricorda Ike Turner come un grande professionista: “sul palco era l’uomo più impeccabile che abbia mai conosciuto. Gli elementi del complesso di Ike dovevano vestire con eleganza, in giacca e cravatta. E lui non permetteva loro di bere sul lavoro. Se uno dei suoi uomini si presentava in ritardo alle prove faceva il diavolo a quattro; se gli combinavano qualche guaio se ne sbarazzava. Ike si esibiva in tre o quattro posti diversi per sera ed era severissimo, un vero stakanovista”.

L’incontro fatidico tra Ike e Tina avvenne nel 1957 al Club Manhattan. Alline Bullock, che stava con Gene Washington, batterista dei Kings, un giorno arrivò al club con la sorella Ann Mae e alcune amiche per sentire suonare Ike Turner. Ad un certo punto dell’esibizione era usanza far girare il microfono tra il pubblico per vedere come se la cavassero vocalmente le ragazze presenti: quando fu la volta di Ann Mae la sua bravura fu subito notata e stupì profondamente lo stesso Ike che non perse l’occasione per accaparrarsela.

Fu l’inizio di un rapporto sofferto dal punto di vista della coppia, ma straordinario da quello professionale, che portò i due musicisti a raggiungere vette di grande intensità interpretativa. Ann Mae, che ben presto sarebbe stata ribattezzata col nome di Tina, introdusse un tocco di originalità nel suono dei Kings. Come giustamente viene rilevato nell’autobiografia “la sua voce compendiava la forma emotiva delle grandi cantanti di blues con una potenza pura, vibrante, fatta su misura per l’era dell’amplificazione”.

Il repertorio dei Kings con l’ingresso di Tina Turner non cambiò più di tanto: si facevano molti standard, pezzi di B.B. King, Little Willie John e parecchi blues e, soprattutto, Ike era ancora alla ricerca di una voce maschile definitiva che lo soddisfacesse. Quando scrisse A Fool In Love aveva pensato ad Art Lassiter, ma sul più bello litigarono e Ike fu quasi costretto a giocare la carta Tina: incisero un nastro e lo mandarono ad un disc-jockey di fiducia che provvide a farlo recapitare a varie case discografiche. Si fece viva la Sue di Juggy Murray che si assicurò il pezzo proprio in virtù della voce dirompente di Tina.

Fu questo lo scatto che convinse Ike a promuovere Tina come stella del suo spettacolo anziché limitarsi a farla cantare nel coro insieme alle altre Arlettes. Fool In Love decretò la fine dei Kings Of Rhythms, al loro posto era nato il duo Ike & Tina Turner e il successo si presentò puntuale, le classifiche furono velocemente scalate e i soldi non tardarono ad arrivare.
Era la tarda estate del 1960.
Ben presto fu lanciata la Ike & Tina Revue, una lunga tournée che li avrebbe portati in giro per tutta l’America. Ike pensava sempre di dover stupire la gente e così mise a punto una nuova coreografia: ricordandosi l’entusiasmo giovanile per un programma televisivo fatto di creature seminude e mezzo selvagge dalle chiome fluenti, concepì il nuovo look di Tina e i balletti da affidare alle nuove coriste, le Ikettes.

Gli spettacoli erano davvero entusiasmanti, in contrapposizione alle sdolcinature dei personaggi allora in voga come Connie Francis o Brenda Lee, Tina Turner appariva con tutta la sua prorompente femminilità e divenne presto un sex-symbol.
Nel periodo in cui Ike & Tina Turner incidevano per la Sue, oltre a A Fool In Love registrarono altri pezzi di buon successo come Poor Fool e I’m Blue caratterizzati da un fraseggio che non si discosta molto tra loro, ma comunque di grande impatto e come già per A Fool In Love richiamavano echi del Delta; I Idolize You, un brano anomalo per Tina dal punto di vista della melodia, ma ricondotto nei giusti binari dalla sua splendida voce; You Should Treated Me Right dallo stile degli esordi di Ike; Sleepless, un blues abbastanza anomalo per il loro stile e poi ancora Puppy Love, Tra La La La La, Think It’s Gonna Work Out Fine.

Nell’estate del ’65, quando le cose tra i Turner andavano già da tempo male, erano sotto contratto con la Loma Records, una sottoetichetta della Warner Bros diretta da Bob Krasnow. Incisero una mezza dozzina di singoli, ma nessuno di essi entrò in classifica, non era certo un periodo entusiasmante, ma d’improvviso vennero a sapere dallo stesso Krasnow che il grande Phil Spector li aveva cercati e che, tra la rabbia di Ike, voleva fare un disco solo con Tina. Nacque così quel capolavoro che fu River Deep, Mountain High che fu accolto tiepidamente in America e che divenne invece un enorme successo in Inghilterra e di rimando in Europa. Il disco, una sorta di incrocio tra il bel canto bianco e la potenza vocale nera rimane tutt’oggi uno dei singoli più interessanti mai incisi negli anni sessanta.

A seguito del grande successo di River Deep, Mountain High, Ike e Tina Turner furono addirittura contattati dai Rolling Stones come gruppo di supporto per una loro tournée inglese. Anche in questo caso il pubblico rispose alla grande e i loro dischi ripresero a vendere bene.
Era il 1966 e si dovettero attendere ben tre anni prima di una nuova uscita discografica che avesse in qualche modo ancora l’antico mordente. L’occasione avvenne ancora una volta grazie a Bob Krasnow, che nel frattempo aveva continuato la sua carriera di produttore con la Buddah Records.

L’idea era quella di incidere delle cover di blues e R&B di grossi personaggi come Lowell Fulson, B.B. King, Elmore James e così via: nacque così Outta Season che conteneva tra l’altro una splendida versione di I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding che non tardò a diventare un autentico cavallo di battaglia di Ike & Tina Turner. A poca distanza da Outta Season seguì The Hunter, un altro LP che ottenne un discreto successo e che promosse soprattutto il singolo Bold Soul Sister, il ballabile di maggior successo inciso dalla coppia.

Stava per iniziare il decimo anno del loro sodalizio artistico e tra Ike e Tina le cose andavano sempre peggio, ma lei non trovava la forza per andarsene. Tina inoltre cominciava ad essere stufa del repertorio di Ike, era sempre più attratta dal pop e proprio allora, quando i Beatles uscirono con Come Together e i Rolling Stones con Honky Tonk Women rimase letteralmente affascinata. Tanto fece che convinse Ike a riarrangiarli e a presentarli nei suoi spettacoli: anche in questo caso Tina se la cavò egregiamente e si dimostrò un’ottima interprete di rock’n’roll. A questi due hit seguì I Want To Take Your Higher di Sly Stone e la mitica versione di Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival che ancora oggi costituisce un pezzo forte del repertorio di Tina.

Ma i giorni gloriosi di Ike & Tina Turner nelle posizioni alte delle classifiche volgevano al termine. Il loro LP successivo ‘Nuff Said non entrò neppure nei primi cento e il loro primo singolo del ’72 Up In Heah seguì la medesima sorte. In quello stesso anno uscirono altri due album e Feel Good che era il migliore andò ancora peggio.
Nel 1973 si consumò il loro canto del cigno, Tina scrisse in una canzone l’angoscia della sua infanzia e nacque Nut Bush City Limits un pezzo che si piazzò in poco tempo nei top-20 americani e volò addirittura al secondo posto in Inghilterra. Poi il buio, Ike continuò a seguire la sua vita dissoluta e a sperimentare in modo inconcludente con le nuove tecnologie, mentre Tina scoprì la religione buddista e cominciò a salmodiare: mam-myo-ho-renge-kyo. Uscì ancora qualche singolo come Sexy Ida (Part 1 & 2) e finirono miseramente con Get It On nel giugno del ’75.

Tina per la verità ebbe una parentesi di gloria con la partecipazione al film di Ken Russel Tommy, l’opera rock degli Who del ’69, ma questo non aiutò la coppia a superare una crisi profonda che durava da troppo tempo.
Tina ottenne il divorzio il 29 marzo 1979: lasciava tutto all’ex marito, con sé portò solo il nome d’arte che si era guadagnata sul campo. Da questo momento Tina deve ricominciare da capo, ha quarant’anni e molta esperienza, ma ha comunque bisogno di aiuto, di gente che creda in lei.

Dopo il suo primo disco da solista, Rough in cui si avverte già la linea pop che vuole seguire, arriva la vera occasione: Olivia Newton-John la invita al suo seguitissimo special Hollywood Night come ospite d’onore e ne rilancia l’immagine. Tina trova un nuovo manager, Roger Davis, che la sa indirizzare lungo la strada giusta, quella che passa attraverso i locali di prestigio, frequentati dalla gente che conta, discografici e giornalisti. Fu così che arrivò al Ritz nell’estate dell’81 e fece un gran pieno per tre sere consecutive tra l’entusiasmo del pubblico e della stampa specializzata.

Fu l’inizio della nuova vita artistica che la portò a quel piccolo gioiello che fu Private Dancer, un album molto raffinato che conteneva autentiche gemme come What’s Love Got To Do With It, Let’s Stay Together, Better Be Good To Me e I Can’t Stand The Rain.
Poi arrivò il duetto con David Bowie in Tonight e una nuova parte nel film di George Miller, Mad Max, Oltre la sfera del tuono, e il successo della colonna sonora dovuta soprattutto a We Don’t Need Another Hero e One Of The Living.

Il resto è storia del presente, quella della sua autobiografia e del relativo film: un modo per dare uno sguardo alla sua vita passata e pensare orgogliosamente di avercela fatta.
Never Give Up, Tina.

Roberto Caselli, fonte Hi, Folks! n. 61, 1993

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