«Qui sono con la mia band, il sound è migliore, indubbiamente» afferma Toronzo, quando gli ricordiamo il nostro primo incontro l’anno precedente in Francia, durante un suo tour con la Gas Blues Band. Al contrario di altri colleghi, Cannon, piedi per terra e mente lucida (non beve nemmeno), ha saggiamente conservato il suo ‘day job’ di autista d’autobus per la Chicago Transit Authority, anche ora che la sua carriera musicale sta prendendo davvero quota con il recentissimo disco per la casa di Bruce Iglauer.
Quando ti sei appassionato al blues?
Da ragazzino non avevo capito che ero circondato dal blues, nella zona in cui sono cresciuto c’era il Theresa’s. Anche se non sapevo chi fossero Buddy Guy o Junior Wells, sapevo che mio zio ci andava spesso. A circa un isolato da lì c’era una gelateria dove con i miei fratelli e sorelle andavamo, specialmente prima della chiusura verso le nove di sera perché erano più generosi e a volte ci regalavano un cono. Passavamo di fronte al Theresa’s per vedere se nostro zio era nei paraggi, perché era lì che si trovava di solito. C’era anche un negozio di dolciumi in un seminterrato, proprio dietro l’angolo e anche di giorno, quando nessuno suonava, alcuni dei clienti del Theresa’s bazzicavano sempre in zona. Anni dopo quando ho cominciato a suonare la chitarra, suonavo reggae, mi sono accorto che quasi ogni bar di Chicago ospitava blues jam, mi sono messo ad ascoltare blues. Era la musica che sentivamo provenire dal salotto dei miei nonni, quando si riunivano con gli amici per giocare a carte o solo per parlare. Noi bambini dovevamo stare alla larga e lasciare che i grandi stessero tra loro. A ventidue o ventitrè anni mi sono messo a suonare la chitarra, perché non potevo giocare a basket, mia sorella suonava il piano ed era entusiasta della musica. Comprai una chitarra acustica, che ho ancora, imparai alcuni accordi. Quando decisi di provare a suonare blues, cominciai da alcuni classici, Mojo e Help Me ad esempio e a frequentare qualche jam, soprattutto al mercoledì al Blues Etcetera. Compresi ben presto che più canzoni conoscevo e più tempo avrei potuto stare sul palco ed essere in controllo di quel che avveniva, non solo per due pezzi.
Andavi nei club anche per vedere all’opera altri musicisti?
Certo, dopo il lavoro o nei miei giorni liberi e ascoltavo Billy Branch, Carlos Johnson, L.V. Banks, Otis Rush…chiunque fosse in scena quella sera. Rush lo vedevo giocare a biliardo al Blues Etcetera, ma all’inizio non realizzai subito la sua importanza, avevo un paio di cassette con la sua musica però. Solo in seguito quando ho studiato un po’ la storia ho capito il suo ruolo nel West Side sin dagli anni Cinquanta. Tra l’altro ho avuto la fortuna di aprire un suo concerto al locale di Buddy Guy, circa sei mesi prima che avesse l’infarto, mi firmò anche la chitarra.
Qualcuno di loro ti ha dato una mano?
Mike Wheeler è stato il primo. Sai alla fine di una serata ci si scambia i biglietti da visita e ci si dice «ci sentiamo eh, allora ti chiamo», ma poi non succede mai. Invece Mike mi chiamò al telefono, «sono Mike, come va?» disse, io ero contento e molto sorpreso che qualcuno mi avesse chiamato. Da allora siamo diventati amici, ho grande rispetto per lui, era sulla scena da molto più tempo e a livello professionale non mi doveva nulla, eppure mi ha contattato. Sono cose che non si dimenticano e per cui gli sono riconoscente tuttora. Memore di questo se dico che chiamerò qualcuno, per una jam o una semplice telefonata, lo faccio perché so come ci si sente ad essere ignorati.
Eri amico anche di Chico Banks? Gli hai dedicato un brano nel tuo primo CD su Delmark.
Chico era un grande chitarrista, inconsapevole di quanto fosse bravo. Quando ero agli inizi e frequentavo le jam nei locali, di solito la house band arrivato il momento della jam lasciava il palco, in pratica perché eravamo ritenuti troppo scarsi. E lo eravamo in effetti. Ma io volevo guadagnarmi il loro rispetto. Chico era uno di questi e ci siamo conosciuti così. Poi abbiamo suonato insieme ad un festival e una sera entrando in un club, venne verso di me e mi porse la sua chitarra. Non me lo aspettavo e provai a suonarla, riuscii giusto a fare qualche nota. Sono mancino ma non sono Otis Rush o Albert King, che erano abituati a suonare senza invertire le corde. Chico era quasi dispiaciuto, disse qualcosa come, «amico, non me lo ricordavo che fossi mancino». Ma fu comunque un bel gesto, mi fece sentire accettato, parte della scena. Tempo dopo con Chico e Mike Wheeler suonammo a San Jose ad un festival, era l’agosto del 2008, l’anno che è morto Chico. Io avevo a disposizione solo venti minuti per il mio set, ma ero molto contento di essere lì, con due musicisti più affermati di me, passare del tempo con loro. Ricordo che Chico vide il mio tatuaggio di Jimi Hendrix e voleva a tutti i costi farsene uno uguale. Gli dissi di lasciar perdere, sarebbe stato ridicolo avere lo stesso tatuaggio. Ma lui insistette, così alla fine dovetti portarlo dal tatuatore, volevo quasi chiedergli di scrivermi sul braccio che il mio lo aveva fatto per primo! Vidi Chico per l’ultima volta la sera prima che si sentisse male, suonava al Diva Contest, mi chiamò chiedendomi di sostituirlo nella seconda parte dello spettacolo. Dovetti rifiutare perché di lavoro guido un autobus e mi alzo spesso alle sei del mattino se non prima, così gli dissi che purtroppo ero già in pigiama e mi sarei dovuto alzare presto, non potevo suonare fino alle due al B.L.U.E.S. Pochi giorni dopo era morto. Per me e per quelli della mia generazione Chico era il nostro Michael Jordan. Inoltre era un tipo molto tranquillo, credo di averlo visto arrabbiato giusto una volta.
Credi che il tuo lavoro di conducente d’autobus ti abbia aiutato a sviluppare uno spirito d’osservazione diverso e quindi nello scrivere canzoni?
Beh, di certo c’è una bella differenza se stai lì fuori a lavorare o fare altre cose o se invece te ne stai a casa senza responsabilità, aspettando che ti vengano delle buone idee per la musica. Nel secondo caso di cosa puoi scrivere? Del fatto che stai lì ad aspettare che la tua ragazza torni dal lavoro, perché è lei che paga le bollette? Nel mio caso, vedo coi miei occhi molte cose che accadono a Chicago, tutti i giorni, incidenti, discussioni, la vita semplicemente. Non per essere melodrammatico ma anni fa ho persino visto un tipo sparare, tra Western e Harrison, ed erano le due del pomeriggio. Diciamo che tutto questo finisce anche nella mia musica. La cosa ridicola è che alcuni musicisti pensano che siccome ho un lavoro regolare, non sono un vero musicista perché per vivere non faccio solo quello, ma chi dice questo poi ha qualcuno che provvede a lui in modo che possa permettersi di fare solo il musicista. Io devo lavorare ogni giorno, occuparmi degli ingaggi come musicista, trascurare un po’ la mia famiglia e ‘competere’ con musicisti che non fanno altro che aspettare il prossimo concerto.
Open Letter sul tuo primo disco parla anche di questo?
Ah quella canzone si basa su diverse storie, di persone che si fingono tuoi amici ma in realtà non lo sono affatto. “Back biters and syndicators pose as your friends…” questo verso l’ho preso da John Lee Hooker. C’è gente pronta a tutto, a pugnalarti alle spalle e allora la vendetta va servita fredda, proprio perché si comportavano da amici prima. Mia madre mi diceva sempre, «avrai bisogno di me prima che accada il contrario» ed aveva ragione. Perciò è quello che dico a me stesso in quelle situazioni, ad esempio se qualcuno che è stato poco corretto nei miei confronti, poi viene a chiedermi referenze per un locale o una band. A qualcuno può non piacere il mio stile di blues, forse perché non sono un tradizionalista. Anche se intendiamoci, mi piace molto il blues tradizionale, penso che le cose debbano andare avanti. Muddy non suonava come Son House anche se lo adorava, Buddy non suonava come Muddy e neppure Jimi e così via. Il mio blues risiede nelle storie che racconto, la musica deve fluire a seconda di come un’artista la sente, a prescindere dalle progressioni di accordi classiche.
Il tuo prossimo disco uscirà su Alligator, tutto a posto con Bob Koester?
Con Bruce Iglauer siamo amici da anni, gli ho sempre chiesto consigli su vari aspetti e due o tre volte all’anno andavamo a pranzo insieme. Non ho mai pensato che avrei firmato per l’Alligator e nemmeno per la Delmark. Mi limitavo a suonare nei locali. Una volta Steve Wagner della Delmark, mi ha chiamato dicendomi «fammi sapere quando sei pronto». Ora siccome lui faceva un programma su una internet radio, pensavo si riferisse ad una mia partecipazione al programma, ed infatti lasciai passare qualche giorno prima di richiamarlo. Dato che mi era venuto il dubbio che potesse riferirsi alla Delmark, al telefono gli dissi «Steve ma parlavi della radio o della Delmark?» e lui «Delmark». «Caspita ti avrei richiamato subito se lo avessi capito prima!». Con Bob Koester c’è un ottimo rapporto. Così come con Bruce, che pure agli inizi ha lavorato per Bob e sono ancora amici. Tanto è vero che Bruce scrisse le note di copertina del mio primo CD per Delmark. Però non pensavo che Bruce mi avrebbe offerto un contratto, perché di solito non prende gente di Chicago, l’ultimo è stato forse Lil’Ed, a parte il disco di Eddy Clearwater di qualche anno fa. Per la gente del mio livello Alligator è come la Sony. Dal mio punto di vista non volevo dare l’idea che fossi lì ad aspettare l’Alligator, ero già molto contento che qualcuno mi avesse voluto. Forse la gente pensa che ci sia una competizione tra le due etichette ma non è così sono amici, parte della stessa comunità. Il mio secondo CD, John The Conquer Root, è stato un altro passo avanti, ha avuto buoni riscontri e persino una nomination ai Blues Awards. Ci sono persone come Billy Branch, Lurrie Bell, Carlos Johnson, Carl Weatherby che sono sulla scena da molto più tempo, poi ci sono quelli come me, Mike Wheeler, Demetria Taylor, Eric Davis…Credo che Bruce in un certo senso mi abbia tenuto d’occhio, abbia visto che ero progredito, riuscivo a viaggiare parecchio, sono stato in Armenia tre volte, Francia, Brasile. Ho cercato di venire anche in Italia, spero di venirci l’anno prossimo. Quando sono andato a prendere dei CD da vendere ai concerti, Koester l’ultima volta mi ha detto che Delmark era casa mia ma era contento per me, perché sa che è un passo avanti, per marketing, promozione e diffusione della musica. Si è congratulato con me e con Bruce per aver scelto una persona affidabile, sa che non sono uno che beve, fa storie o dà buca ai concerti.
Nel tuo secondo CD c’è un brano acustico, ne farai altri?
Di sicuro, mi piacerebbe fare qualcosa nello stile di Elmore James, magari in acustico. Ho detto anche a Bruce che voglio che si parli di me come un Chicago bluesman non come un bluesman di Chicago, c’è differenza, non sono solo un musicista che vive a Chicago. Lui mi ha chiesto se ero proprio sicuro, se non fosse come un incasellamento. Gli ho risposto se è così, quella ‘scatola’ mi sta benissimo, ne sono orgoglioso. C’è chi non vuole definirsi bluesman, preferisce artista, musicista o qualcos’altro perché lo percepisce come limitativo, ma per me è questione di scelte, alla fine devi scegliere e appunto essere fiero di questo. Nella mia biografia per i media, Chicago è menzionata ventidue volte.
Farò un CD più tradizionale in futuro, sto anche imparando a suonare slide, soprattutto per suonare Elmore James.
Cosa ci puoi dire del prossimo disco?
Ci sono canzoni che parlano della vita, come Midlife Crisis perché ho quasi cinquant’anni, un’altra, Bad Contract parla di matrimonio e un’altra intitolata Fine Seasond Woman, che parla di donne…sopra i trentacinque anni. Ho lavorato molto sui pezzi, Bruce mi ha sempre detto che la gente non canta certo gli assolo di chitarra, ricorda la canzone; di fatto è così anche per i classici come The Sky is Crying o Can’t Hold Out. La storia non deve essere troppo lunga ma al contempo deve restare impressa. Nel disco suonano Brother John Kattke, Larry Williams che è il bassista di Mike Wheeler, Pookie Sticks alla batteria, una sezione fiati su qualche brano e una ragazza ai cori in un paio di pezzi, è sempre bello avere una voce femminile, aggiunge varietà al disco. E’ un disco diverso, ma già John The Conquer Root non si può dire che suonasse come un disco Delmark, eppure Steve Wagner mi ha lasciato esplorare come se fossi Hendrix e lui Eddie Kramer. Questo è importante, è un po’ come un gatto in una casa nuova, si guarda attorno e si spinge oltre, ora con l’Alligator ho adottato lo stesso approccio, voglio provare a essere diverso.
Come lavori sulla scrittura? Nel primo disco alcune erano collaborazioni?
Avevo un pezzo di Mike Wheeler, uno di Nina Simone e altri scritti con Lawrence Gladney col quale siamo ancora amici, anche se abbiamo smesso di collaborare. Per restare amici abbiamo capito che sarebbe stato meglio smettere di farlo, non solo per un fatto artistico più che altro per una questione di dinamiche interne alla band. Scrive ancora bene e ora fa cose per conto suo. Non è che non fossi in grado di finire un pezzo da solo, ma per un po’ stato bello scambiarsi costantemente idee con qualcun altro e costruirli insieme. Mi porto sempre dietro un taccuino e dato che sono su autobus per otto / dieci ore al giorno, quello è il mio ufficio, se mi viene qualche idea ne prendo nota e poi la sviluppo la sera a casa. Ho fatto così per gli ultimi due dischi. In questo nuovo non c’è nulla da buttare, ogni cosa è stata pensata con attenzione. C’era un pezzo invece Sweet Sweet Sweet, sul disco precedente che era quasi improvvisato, però su quello avevo Joanna Connor alla slide; ero parte della sua band agli inizi. Mi sembra bello riconoscere e ringraziare chi ti ha dato una mano, un altro è stato ad esempio Matthew Skoller che quando non avevo nemmeno una band mi chiese di dirigere per due settimane la jam in un locale. Avrebbe potuto chiedere a qualcun altro, al suo bassista o al suo chitarrista, ma per qualche ragione lo chiese a me. Per ringraziarlo lo invitai a suonare l’armonica nel mio primo CD.
Chi sono i tuoi bluesmen preferiti?
J.B. Hutto, Hound Dog…quelli che hanno un suono ruvido e sporco. Ogni tanto per scherzo penso a come canterò John The Conquer Root quando avrò settant’anni, suonerò come Elmore? Anche se so bene che lui non ci è arrivato a quell’età. La sua voce esprime una sorta di dolore controllato, che si trova in pochi altri. Spero di arrivarci, il segreto è continuare a vivere. Poi certamente Albert e B.B. King, ma so che in ogni caso non potrò mai suonare così. Mi piace molto anche Ronnie Earl, anche se non canta ma con la chitarra è molto espressivo, ci siamo conosciuti ai Blues Music Awards ed è stato molto gentile. Mi piace come suona Moanin’ e Eddie’s Gospel Groove. Dave Specter lo conosce e una volta gli ha detto «il mio amico Toronzo vorrebbe sapere gli accordi di Eddie’s Gospel Groove» e Ronnie Earl ha risposto «hey questo tuo amico Toronzo non incide per Delmark?». Beh insomma sapere che Earl sa chi sono perché apprezza la Delmark e segue quello che pubblicano è un onore, anche se la mia musica è diversa da quella che predilige. Ai Blues Awards l’ho ringraziato per quegli accordi e poi abbiamo scattato una foto insieme e l’ho postata sulla mia pagina Facebook, mi ha fatto sentire davvero parte dello stesso mondo. Sono il tipo di persona che ogni tanto ha avuto dubbi, insicurezze però in quei momenti è sempre successo qualcosa di buono, ad esempio mi hanno chiesto per la prima volta di suonare in Francia o in Brasile. Inoltre anche se, a causa del mio lavoro ho qualche restrizione e non sono sempre disponibile, tengo molto a suonare con continuità e non una o due volte al mese. Essere su Delmark e ora su Alligator è una motivazione ulteriore, perché hanno una storia lunga e un catalogo straordinario, pensiamo a Magic Sam, Junior Wells, Willie Kent, Jimmy Dawkins, Jimmy Johnson, ma anche Sun Ra, Dinah Washington e Koko Taylor o Carey Bell, Lonnie Brooks, Albert Collins…anche perché sono uno dei pochi a Chicago ad avere fatto questo passaggio, almeno tra quelli della mia generazione. Vuol dire che qualcosa di buono devo aver combinato.
Rispetto ai tuoi inizi, è cambiata molto Chicago, anche in termini di opportunità di suonare?
Credo che in generale ci siano meno club, bar o posti per suonare, non solo in confronto agli anni Sessanta e Settanta, ma anche rispetto ai Novanta. C’è il locale di Buddy, House of Blues, Blue Chicago, B.L.U.E.S., Kingston Mines, Rosa’s e qualcosa nei sobborghi, ma non molto altro. E’ come se fosse diventata una piscina più piccola. Non sempre c’è spazio per tutti e questo può creare gelosie o invidie. Basta non prenderla troppo sul personale. Ad esempio per me all’inizio è stato difficile suonare al Kingston Mines, nonostante Charlie Love e BJ (l’ex batterista di Magic Slim, che lavora lì) avessero parlato bene di me. Ora invece ci suono regolarmente, ma non me la sono mai presa con altri. Tutti noi musicisti cerchiamo di mettere in piedi un bel concerto in modo che la gente sia invogliata a restare per tutta la serata e magari a tornare. Ho imparato l’importanza di coinvolgere il pubblico, avere uno scambio e renderlo partecipe.
Curi molto anche i contatti sui social media.
Si ed è un aspetto che molti trascurano. Anzi c’è persino chi tra i colleghi pensa che quando posto una foto su Facebook dalla Svizzera come adesso o dal Brasile, lo faccia per vantarmene, ma non è così. Lo faccio perché questo potrebbe interessare altri promoter, procurarmi altri concerti, potrebbero pensare «hey se è andato a suonare in Armenia, magari è interessato a venire in Italia o da qualche altra parte». E posso assicurare che c’è gente che mi ha scritto su Facebook chiedendomi quale fosse il mio agente o come fare per ingaggiarmi. Credo anche che sia una forma di promozione che aggiunge credibilità ad un artista, far sapere che sono qui con Billy Branch o che ho suonato alla Legendary Blues Cruise è senz’altro utile.
(intervista realizzata a Lucerna, Svizzera, il 13 novembre 2015)
Matteo Bossi e Marino Grandi, fonte Il Blues n. 134, 2016