A distanza dal sorprendente debutto di cinque anni fa con Phoenix, si ripresenta sui nostri lettori (di CD, s’intende) Vince Bell, chitarrista, cantante, compositore, ma soprattutto spirito libero texano, come libera e scevra da ogni catalogazione è la sua espressione artistica e musicale.
“Musica totale, nutrimento per l’anima e per il corpo, trampolino di un ideale salto nel tempo e nello spazio, dove le influenze si mescolano per poi separarsi, si accoppiano per riprodursi e dare vita a nuovi geni del tutto diversi dai procreatori…”. Così viene definita la musica di Vince Bell, virtuoso della chitarra, ma senza strafare, senza elevare lo strumento al rango di divinità attorno alla quale fare ruotare ogni sua espressione artistica e musicale.
Nel suo secondo sforzo solistico Texas Plates, la voce e la chitarra sono sullo stesso piano, ricoprono il medesimo importante ruolo e riscuotono lo stesso plauso da chi ha la volontà di accostarsi ad un album davvero complesso e difficile.
Se il titolo evoca in voi immagini di ‘targhe texane’ applicate sui cofani cromati delle luccicanti auto che potrebbero popolare le highways del Lone Star State o se il solo nome del Texas vi trasporta d’impeto nelle praterie assolate (e via di questo passo con i luoghi comuni più noti… ) avete capito proprio male, perché quanto sopra non c’entra proprio niente con il CD in questione.
L’espressione dell’arte di Vince Bell si trasmette sì attraverso gli strumenti tipici del più tipico dei cantautori, ma i suoni che si propagano dagli speakers del mio impianto in questo momento poco hanno a che vedere con l’orecchiabilità, la melodia (intesa nell’accezione più immediata del termine) o tantomeno le classifiche di vendita. Niente di più lontano. Semmai potremmo avvicinarci piuttosto ad un contesto di psichedelia (?), e definire Vince Bell un ‘cantautore country-oriented’ avrebbe meno senso che definire Kevin Welch in tal senso.
Se proprio devo fare un accostamento per aiutarvi a raccogliere le idee, potrei avvicinare Vince a certe performances di Dirk Hamilton, per quell’uso iconosclasta e provocatorio della voce. Musica che spazia fra influenze lontane fra loro mille anni luce, eppure c’è anche l’accenno al cantautorato più tradizionale, come l’iniziale Poetry, Texas un tempo dimora del grande Ray Wylie Hubbard, c’è l’accenno lontano al folk dei sixties nell’intro di Push Comes To Shove, l’uso del sitar di Robin Eaton in 2nd Street, la sconclusionata recitazione/citazione dì Armstrong, Manson e Hawking in All The Way To The Moon, con un testo degno del più classico ‘trip lisergico’.
Se nella vostra musica cercate esperienze stimolanti, che vi aiutino ad ampliare il vostro orizzonte personale, questo è il vostro album. Se vi orientate invece ad un ascolto disimpegnato e superficiale, proseguite oltre.
Paladin 24725-2 (Alternative Country, Country Rock, 1999)
Dino Della Casa, fonte Country Store n. 49, 1999