Ry Cooder e David Lindley

Sinfonia per 130 corde e due elementi. In un ‘teatro’ che ha ospitato di tutto, dagli spettacoli di Prince all’orchestra di Frank Sinatra fino ai (parecchi) decibel degli Aerosmith, si rimane francamente colpiti a vedere quanta gente si è mossa per una serata assai particolare, per dei personaggi ormai decisamente `fuori dal tempo’ (se ‘dentro’ mai ci sono stati…).
Fuori del Palatrussardi c’è la solita atmosfera fatta di ‘hotdogs’ nostrani e artigianato spicciolo, ma non mancano le magliette stampate appositamente per il concerto. Si ha subito l’impressione tangibile di un grosso affetto che le persone arrivate da tutta Italia recano con sè per testimoniare a Cooder quanta importanza abbia avuto per loro il suo lavoro musicale degli ultimi vent’anni.
Eppure parliamo, notoriamente, di uno dei più scontrosi personaggi della scena musicale internazionale, lo stesso che da un decennio amministra le interviste col contagocce e si è rintanato stabilmente in uno studio a registrare una colonna sonora dopo l’altra, tenendo tutti sulla corda nell’attesa di ‘nuovi album’ sempre più distanziati fra di loro. Vecchi amici degli inizi come Taj Mahal alla domanda se sono ancora in contatto con lui scrollano le spalle, mormorano qualcosa sul carattere dell’uomo e sul fatto che ognuno fa le sue scelte. Eppure…non è questo che esce fuori dai dischi.

Oggi quarantatreenne, Ry Cooder è un personaggio molto interessante, virtuoso/stilista/musicologo (ma che brutta parola…) che, a un certo punto della sua carriera, è riuscito a sfuggire alla routine poco stimolante del sessionman di lusso per trovare uno sbocco, quello cinematografico, che gli permette, evidentemente, di fare le cose che gli piacciono senza troppe rotture di scatole. Questo arriva dopo essere già diventato personaggio quasi mitico grazie soprattutto alla leggendaria abilità nell’uso del bottle-neck sulle corde di una chitarra e aver prestato la sua opera ai dischi di Captain Beefheart, Rolling Stones, Arlo Guthrie ed Eric Clapton, fra gli altri.
Dobbiamo tener conto che per un intero decennio Cooder difficilmente compone ma è quasi sempre l’arrangiatore, orgoglioso ricercatore che ripropone materiale spesso dimenticato o musicisti straordinari che sarebbero rimasti altrimenti sconosciuti. È il caso di Flaco Jimenez, il grande accordeonist messicano che il chitarrista va a scovare a casa sua all’inizio degli anni settanta ma non prima di aver fatto un’adeguata preparazione e i ‘compiti a casa’. Dichiarerà Flaco: ”Ero in casa tranquillo con la mia famiglia e arriva questo giovane americano chiedendo di me. Rimasi veramente stupito perchè aveva imparato sull’accordeon gran parte dei miei pezzi”. Comincia così per Jimenez una proficua carriera negli Stati Uniti che lo porterà ad esportare il suo Tex-Mex anche in Europa, con Cooder e altri.
Altro capitolo importante è indubbiamente la scoperta della musica hawaiiana (quella seria) con conseguente viaggio in loco, avvicinamento e proficuo contatto con Gabby Pahinui, maestro di steel guitar e ottimo cantante. Trascinerà anche lui in un paio di avventure discografiche.

Considerato che tutto questo si inserisce su una base di amore totale e cieco per tutto ciò che è tradizione americana, bianca e nera, blues, country, folk ma anche rhythm’n’blues e, di seguito, il primo rock’n’roll, senza dimenticare la dimensione tradizionale dello stesso jazz dei primissimi decenni, ecco a voi ‘Mr.Roots’ in tutto il suo splendore, uno dei pochi ad aver assimilato veramente la lezione del passato capace anche di sfruttarne gli elementi o riproporla in piena vitalità.
Alla base di tutta la carriera di Cooder c’è qualcosa che non può non trasparire dai solchi dei dischi o dal suo aspetto su un palco: l’entusiasmo. Quando parla dei suoi eroi e della musica che ama è un pazzo scatenato, un ragazzino che venderebbe sua madre per scoprire il tipo di chitarra usata da Robert Johnson per le sue storiche incisioni. Lo confessa, ha passato tutta la vita (“lavorando duro e ogni santo giorno”) per riuscire a suonare nello stile di Blind Willie Johnson, chitarrista e cantante texano di cui ci sono arrivate alcune storiche incisioni effettuate fra il 1927 e il 1930, maestro nello sfruttare un coltello a serramanico come slide. Lo stesso tema, celeberrimo, di Paris, Texas, viene da lì, da un tipico passaggio di Blind Willie in Dark Was The Night – Cold Was The Ground, che Cooder considera il brano più straordinario di tutta la musica americana. E’ diventato così intimo dei grandi bluesmen del passato da poter azzardare ipotesi interessanti come per Robert Johnson: “Penso che se all’epoca avessero potuto fornirgli un Marshall cui collegare la chitarra sarebbe stato estremamente felice”. Alcuni ha fatto in tempo a conoscerli personalmente come Mississippi John Hurt, Gary Davis o Sleepy John Estes: da tutti ha imparato molto.

Unico rimpianto, ovviamente, essere nato un po’ tardi: “L’immagine che abbiamo è quella di musicisti anziani che ce la fanno a malapena, beh, negli anni ’20 non era certo così. La cosa doveva essere cosmica? Tutto quello che ci rimane è su disco, più qualche fotografia. È veramente una vergogna”.
Tutto questo è dentro all’uomo che si presenta sul palco dopo il set di Flaco Jimenez e il suo conjunto, indossando una morbida camicia bianca, sandali in gomma e la fida fascia sulla fronte, prendendo posto all’interno di un vero e proprio anfiteatro chitarristico assieme all’amico Lindley.
Quest’ultimo non delude le aspettative con il suo tipico aspetto da folletto scozzese: capelli e favoriti lunghissimi, giacca e pantaloni in varie configurazioni di quadrettoni, scarpe assassine da damerino di Harlem. Altro session-man impareggiabile e ricercatissimo, dopo la lunga militanza con Jackson Browne è partito all’avventura con la sua band El Rayo-X senza ottenere risultati straordinari ma riuscendo a imporre la sua immagine di musicista e performer spiritoso oltre che bravissimo.

Il pubblico esplode in una ovazione e comincia l’excursus che i due faranno tra le pagine di una discografia che attraversa un ventennio ma abbraccia quasi un secolo di musica o tradizione. Citano Guthrie e Leadbelly (Vigilante Man, Bourgeois Blues), richiamano le gesta di Jesse James con l’omonima canzone, ripercorrono le proprie personali storie discografiche (Smack Dab In The Middle, Jesus On The Mainiine, la It’s All Over Now già rubata agli Stones) senza dimenticare il passato recente delle colonne sonore, da Borderline a Paris, Texas. Quando Cooder attacca il tema famosissimo della soundtrack scritta per il film di Wenders, con Lindley a suonare il bordone con l’archetto su uno dei suoi bouzouki elettrici, un brivido percorre la sala e la slide del chitarrista trasporta tutti in un terreno magico fatto di immagini e malinconie.
Incredibile, poi, la maestria dei due nell’eseguire duetti a due chitarre hawaiiane, fra l’ironia onnipresente di Lindley e il ‘tiro’ incredibile di un Cooder che non sembra in grado di suonare una sola nota sbagliata, assolutamente padrone del ritmo e con una mano decisamente straordinaria (leggi: vibrato.). Il suono generale è decisamente stupendo se si pensa che la gran parte della strumentazione è acustica e ogni pezzo prevede un cambio di ‘attrezzatura’.

A questo riguardo qualcuno gradirà forse dei particolari sulla vera e propria esposizione messa su dai due musicisti. Lindley sfoggiava per l’occasione ben due chitarre hawaiiane ‘square neck’ e una con manico normale, due bouzouki elettrici e uno acustico, un violino e un tamburo di tipo turco/medioorientale (darabuka o simile). La sua amplificazione comprendeva un Roland Chorus e un vecchio Fender Deluxe con cassa aggiuntiva della stessa epoca.
Cooder aveva la sua Strato customizzata con un pick-up da lapsteel al ponte, una 12 corde elettrica a scala normale e una `mignon’, un’acustica cutaway, una chitarra messicana, un mandolino, una hawaiiana, un bouzouki acustico e una piccola elettrica a otto corde. Il tutto accanto a un Fender Deluxe ‘tweed’ con cabinet bass reflex, a testata e cassa Hiwatt. Faceva bella mostra anche un’unità echo d’epoca, sfruttata in un paio di brani. Tutti gli strumenti acustici erano amplificati con pick-up Sunrise.
Una serata veramente memorabile, conclusa da una immancabile jam finale in cui Flaco, con quella sua aria epica da Errol Flynn del barrio, impreziosisce con il suo accordeon la dolce e famosissima Irene Goodnight che tutti cantano in coro.

Stefano Tavernese, fonte Chitarre n. 55, 1990

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