Articolo di Western Swing articolo

Come precedentemente accennato, un altro paio di bandleader si erano dati da fare prima dell’esordio discografico di Bob Wills: Bill Boyd e Roy Newman.
Sebbene i Cowboy Ramblers di Boyd, almeno nel corso della loro prima session, fossero costituiti da metà dei componenti la formazione di Roy Newman, il suono dei due gruppi è totalmente diverso e denota le differenti concezioni musicali dei titolari: più orientata verso la tradizione quella del primo; marcatamente jazz quella del secondo.
Anche se per certi aspetti analoga a quella dei Brownies nel periodo ’35/’36, la musica di Newman è del tutto priva di quella componente popolare e tradizionale presente nelle altre band, tanto da poter essere annoverata nel jazz classico anziché nel western-swing. Persino il repertorio è costituito da brani provenienti perlopiù dal jazz, o con esso imparentati, e dal blues.

Ma la musica di Roy Newman è jazz non solo nella forma ma anche nella sostanza grazie alla presenza del clarinettista ‘old time’ Holly Horton che, combinando il suono del suo strumento con quello dei due fiddle presenti in formazione, spesso rievoca i vecchi collettivi New Orleans (12th Street Rag), ed è con la chitarra ed il fiddle, il comprimario dei continui interventi solisti che caratterizzano ogni brano. E non è tutto. Il suono della band, incalzando nel ritmo, si arroventa a tal punto da precorrere, nel 1938 appena, il rock con brani tipo Everybody’s Trying To Be My Baby o My Baby Rocks Me accaparrandosi così un primato di tutto rispetto!
Devo dire che i Boys di Newman, a differenza di quelli di Wills e Brown, nella ventina di incisioni sinora pubblicate, mantengono degli standard qualitativi molto elevati sia nella scelta e nell’esecuzione dei brani che nelle prestazioni dei singoli musicisti, tra i quali mi piace ricordare Jim Boyd, che diede il suo contributo allo sviluppo del western-swing dalle file di alcune formazioni storiche come i Light Crust Doughboys (1938), e in essi trovò più spazio nelle mansioni di cantante/chitarrista (fu il primo solista di chitarra elettrica nel western-swing) che non nei Cowboy Ramblers del suo più noto fratello Bill.

Un repertorio di disparata provenienza e un suono dinamico il cui propellente sembra tratto dalla fiddle-music e, più in generale, dalla musica tradizionale (Jig o Under The Double Eagle), distinguono i Cowboy Ramblers di Bill Boyd dalla band di Newman. Ma soprattutto è la disinvoltura con cui vengono snocciolati i fraseggi jazz nel corso di un brano, sia esso di ispirazione popolare oppure un hit del momento, che fa dei Cowboy Ramblers l’incarnazione di ciò che i termini western-swing o hillbilly jazz possono lasciare intendere. Valga per tutti l’esempio di Barn Dance Rag, in cui i rispettivi assoli di fiddle, piano chitarra, mandolino e banjo tenore, sanciscono quanto sia in fondo esigua la linea di demarcazione tra musica rurale bianca e di colore, jazz e rockabilly!
Partita come un’essenziale e tradizionalissima string-band di quattro elementi ampliatasi successivamente con l’aggiunta degli strumenti più vari (piano, steel guitar, clarinetto), i Cowboy Ramblers danno l’impressione di essere una formazione aperta, costituita da musicisti provenienti dalle più svariate orchestre, che si ritrovano di volta in volta, session dopo session, intorno ai fratelli Boyd, unici elementi fissi della band.

Simili riunioni musicali, tuttavia non rappresentano un fenomeno atipico nel western-swing degli anni ’30 che sembra costellato da gruppi collaterali, attivi solo negli studi di incisione (i Bob Dunn’s Vagabond, ad esempio) e da un continuo andirivieni di solisti da una formazione all’altra (si pensi al pianista ‘itinerante’ Moon Mullican, presente in quel periodo un po’ ovunque).
Tra queste volonterose ed elastiche compagini, quella dei Cowboy Ramblers probabilmente resta la più importante e rappresentativa dal momento che ospitò nelle sue file contemporaneamente e in diverse riprese, come in un’enorme jam session, membri degli Hillbilly Boys, Hi-Flyers, Texas Playboys, Light Crust Doughboys …. e chi più ne ha più ne metta!
Accompagnamenti impeccabili ed eccellenti strumentali, specie se ritmicamente sostenuti, sono il risultato conseguito da Bill Boyd nella scelta dei suoi autorevoli gregari. Un’ulteriore prova dello stato di grazia della band ci è fornito da Jennie Lee (Ottobre ’36) che, fra l’altro, ci permette di confrontare al meglio i Cowboy Ramblers con i gruppi di Wills e Brown, anch’essi alle prese con la loro personale versione dello stesso brano.

Inutile dire che le tre interpretazioni si lasciano facilmente apprezzare: scarna e con un unico, magnifico, break chitarristico di Junior Barnard, quella appartenente al Wills delle Tiffany Transcriptions; un po’ più scontata nell’arrangiamento quella dei Brownies (gennaio ’35), con le parti cantate dopo l’iniziale accenno strumentale della melodia e i buoni assoli di piano e steel-guitar. La Jennie Lee di Boyd mette invece bene in evidenza le capacità del leader come arrangiatore e la sua abilità nell’ottenere ciò che vuole dagli strumentisti che ha a disposizione.
In essa, dopo l’immancabile duetto di fiddle che propone la melodia, ecco arrivare un frenetico break di piano (Jack Henson) invece della strofa cantata presente a questo punto dell’esecuzione sia nei Brownies che nei Texas Playboys. Subito dopo giunge il duetto vocale seguito a ruota da uno spigliato assolo di fiddle, e di nuovo il motivo cantato per concludere il brano.
Diciamoci la verità: Jennie Lee è un pezzo alquanto insignificante che si presta tuttavia, per la sua andatura, ad interventi strumentali atti a valorizzare i solisti e, di conseguenza, il brano stesso.

La versione di Wills, drasticamente ridotta a due minuti e con un solo break, lascia un po’ l’amaro in bocca; in quella di Milton Brown invece mi sembrano eccessive le tre strofe cantate, evidentemente per dare più spazio agli inserimenti strumentali. Con quel sorprendente assolo di piano dopo una così ovvia introduzione di fiddle, con le due parti cantate che sembrano voler spezzare un brano interamente strumentale.
La Jennie Lee di Boyd pare più adeguata e meglio riuscita. Ma non solo per questo è la più indovinata. Escludendo l’esecuzione dei Texas Playboys, senz’altro più elegante ed avanzata, ma anche posteriore di undici anni rispetto a quella dei Brownies, e per ciò non destinata a fare testo, il confronto si restringe ai soli Brown e Boyd. L’interpretazione dei Brownies, non so dire se per loro gusto o per nervosismo, è leggermente accelerata; il fraseggio è un po’ impacciato, specie quello di Bob Dunna, che non si può certo definire un musicista emotivamente tranquillo nella esposizione di un break, e, tutto sommato, la loro inventiva sembra molto più libera nella riproposta degli hit jazzistici registrati nel corso della stessa session.
Al contrario, l’esecuzione dei Cowboy Ramblers si snoda all’insegna della più completa rilassatezza e ci offre nei tre minuti scarsi del brano, un’azzeccata combinazione tra musica western e jazz. In altre parole, il gruppo di Brown è al massimo della sua resa nella reinterpretazione del jazz (o del blues) i cui accenti non sempre interferiscono o si adattano (come nel caso di This Morning, This Evening, So Soon) ai brani di chiara matrice tradizionale scelti dai Brownies.

Viceversa per Bill Boyd si può parlare di linguaggio jazzistico (e non di jazz) innestato un po’ ovunque; una sorta di compromesso tra generi musicali, come testifica la garbata versione del classico Beale Street Blues, riproposto una volta tanto con delle inusitate sonorità countryeggianti.
In definitiva, per i miei gusti, i gruppi di Boyd e di Newman, nella loro prima serie di incisioni tra il ’34 e il ’35, se la sono cavata meglio dei Texas Playboys.
Ma il Wills annata ’36 riserva delle piacevolissime sorprese.
Non so dire se nell’anno esatto che separa il primo gruppo d’incisioni dal secondo, i Playboys siano andati a ripetizioni di musica o se si siano esercitati come dei matti sui loro strumenti, sta di fatto che l’orchestra di Wills nel settembre ’36 sembra formata da tutt’altre persone.
Eppure grossi cambiamenti non ce n’erano stati: una sostituzione al contrabbasso, la defezione dell’inutile trombone di Art Haines e la contemporanea entrata di due jazzisti di valore come Everett Stover alla tromba e Ray De Geer al sassofono e clarinetto. Probabilmente a questi nuovi arrivati va uno stile orchestrale così omogeneo e moderno, meno New Orleans e più orientato verso la musica di New York e Chicago, come testimonia, fra i tanti, l’ascolto di Red Holt Gal Of Mine.

Azzardata o no questa ipotesi, il suono della band appare incentrato sui fiati, nella cui minuscola sezione si trovano i migliori tra i solisti al servizio di Wills in quel momento. E ancora il repertorio marcatamente jazzistico, gli attacchi e gli assoli ben calibrati, l’impasto tra fiati e strumenti a corde, l’incedere ritmico energico e discreto, sono le caratteristiche ricorrenti nelle incisioni di questi ‘nuovi’ Playboys, tra le quali Basin Street Blues è un fulgido esempio. Addirittura la penetrante voce di Wills in Sugar Blues suona alle mie orecchie adeguata e ricca di gusto, così come mi piace la bella dimostrazione di tromba sordinata presente nello stesso brano. E c’è anche Steel Guitar Rag che ha in un rinnovato Leon Mc Auliffe il suo protagonista. Eliminati gli iniziali tentennamenti, Mc Auliffe si dimostra ora uno steel-player da quattro note scelte con cura e suonate con vigore, precisione e con un vibrato da pelle d’oca!

Nelle incisioni del giugno ’37 ai Playboys si aggiungono un sax e un fiddle (Cecil Brower). Lo stato confusionale tra fiati e corde di circa due anni prima è solo un ricordo e ormai Wills sembra a proprio agio nella direzione di una formazione con quindici e rotti elementi. Dall’inflazione di ‘stomp’ sfornati nel corso di questa session sono evidenti un ulteriore miglioramento conseguito dall’orchestra e la lezione che il leader ha imparato da Benny Goodman, a cui allude con sfrontatezza specie nel rovente Playboy Stomp.
Nulla di nuovo aggiungono le sedute del ’38 tranne qualche sostituzione, l’entrata del chitarrista Eldon Shamblin che dá all’orchestra il tocco definitivo, e la raggiunta maturità nello stile di Jesse Ashlock e Leon Mc Auliffe. Ormai la formazione è messa a punto completamente e brani come Little Girl Go And Ask Your Mama fanno chiudere benevolmente tutti e due gli occhi sulla sciattoneria di The Waltz You Saved For Me o Silver Bell, mentre l’anima rurale di Wills rinverdisce la vecchia Beaumont Rag.

C’è poco da dire: ormai i Playboys suonano ed eccellono in qualsiasi genere musicale; sono diventati, per usare un termine in voga dalle nostre parti, una vera e propria orchestra-spettacolo, con cotillon annesso!
E sarà così pure in seguito, nonostante i vari rimaneggiamenti alla formazione e la continua riproposta dei successi di sempre, propri e altrui.
La mia personale e laconica storia sulle incisioni dei Texas Playboys vuole chiudersi con le Tiffany Transcriptions, una serie di registrazioni effettuate a uso radiofonico tra il ’45 e il ’48.
Tecnicamente i Playboys di questo periodo sono ineccepibili come non mai; l’orchestrazione e gli assoli favoriscono gli strumenti a corde; il suono d’insieme è equilibrato e perfetto. La ritmica pulsante, le rapide improvvisazioni, gli intrecci di chitarre rimettono a nuovo cavalli di battaglia di qualsiasi genere e rendono ascoltabile persino una Ida Red piacevolmente appesantita da fin troppi strumenti, o una ennesima riproposta di San Antonio Rose, reintitolata per l’occasione Lum e Abner Special, contenente un break mozzafiato di Junior Barnard. E c’è anche una versione interamente ‘a corde’ della Take The ‘A’ Train di Ellington.

Ma il suono troppo perfetto ed elegante non sempre giova, a mio avviso, a brani di natura ‘folkloristica’ (ma ormai possiamo chiamarli western), resi goffi da un’orchestra con tanto di lacrimosi violini o steel-guitar, voce melliflua e persino tromba. Sto pensando all’insopportabile, almeno per i bluegrassari incalliti come il sottoscritto, versione di Blue Bonnet Lane, o a similari flaccide atmosfere western, in cui i più attenti ravviseranno molto del futuro Nashville Sound.
Comunque, messi da parte quasi completamente i fiati, il nuovo stile musicale di Wills poggia ora sull’ampio uso di chitarre elettriche (steel e non) e su arrangiamenti in cui continui e ripetuti assoli di ispirazione jazzistica diventano di prammatica. A fare la parte del leone sono proprio i chitarristi che appaiono i più avanzati tecnicamente (dall’amplificazione alla diteggiatura) quasi a voler recuperare, dopo il breve ed efficace insegnamento di Charlie Christian (altro texano trapiantato, guarda caso, in Oklahoma), gli anni di servile accompagnamento.

A dire il vero, simili novità si possono ascoltare già nel 1938 dalla chitarra di Eldon Shamblin, in quel tempo alle dipendenze dello stesso Wills, un po’ prima quindi che Christian diventasse famoso. Indugiare sulla autenticità dello stile di Shamblin o ipotizzare una tecnica chitarristica indigena del Sud Ovest è argomento da trattare in altra sede; per ora ci basti verificare che nelle Tiffanys i solisti di chitarra elettrica (steel e non) hanno bruciato letteralmente le tappe in soli dieci anni, come traspare dagli attacchi decisi di Noel Boggs, che rendono la steel-guitar simile ad una aggressiva sezione di ottoni, o dalla seconda nota prolungata all’inizio del break di Dinah, con cui Junior Barnard sembra voler dare il via all’ascesa della chitarra elettrica nel rock!

Repertorio ‘western’ o ‘swing’, il suono dei Playboys appare comunque moderno ed innovativo (per il suo tempo), e senz’altro originale, specie se confrontato a quello del decennio precedente, che rimane a conti fatti, una bella imitazione (riveduta e corretta, per via della diversa strumentazione) delle orchestre degli anni ’20 della Swing Era. Purtroppo (per Wills, naturalmente) a ben guardare, la musica dei Playboys nelle Tiffanys può considerarsi la logica prosecuzione o l’evoluzione dello string-jazz suonato da Milton Brown dieci anni prima. Di fatto Bob Wills cominciava a fare bene proprio quando Milton Brown aveva già detto la sua!
Tra coloro che registrarono nel ’35 ho taciuto per decenza musicale gli Hillbilly Boys, associandoli ai Light Crust Doughboys (la cui storia più narrabile inizia nel ’36), formazione adibita a campagne politico-alimentari per l’intrigante W. Lee O’Daniel (governatore del Texas e venditore di farina), già incontrato con gli stessi Doughboys nel ’32, ‘padrino’ (per via della carica politica) più che padre del western-swing.

Ben più frettoloso accenno meriterebbe invece la seconda e più nutrita schiera di band che approdarono negli studi di incisione dal 1936 in poi, e che purtroppo rimane tagliata fuori da queste pagine per motivi di spazio dedicato sinora al western-swing visto attraverso lo stile di coloro che per primi arrivarono al traguardo del disco, il cui ascolto, alla fin fine, suffraga così tanto e ispirato scrivere.
Questa omissione (temporanea) sarà dunque il pretesto per ritornare sull’argomento. Ritengo infatti che non si possano ignorare gruppi come gli Hi-Flyers o Ocie Stockard, tanto per citarne alcuni certamente degni di nota, che ebbero l’unico torto di arrivare ‘secondi’ (e non solo in sala di registrazione) per una serie di circostanze quali il nobile gregariato, i continui cambi di formazione e quindi il perfezionamento del proprio stile musicale.
E’ da queste band, nella varietà dei loro stili che si ascolta il western-swing più verace e diretto, e non solo e non sempre nel suono un po’ più ‘nero’ di Milton Brown o in quello sofisticato di Bob Wills. In effetti il western-swing degli anni ’30 fu un fenomeno musicale così ampio ed eterogeneo da non poterlo identificare facilmente in ciò che suonavano i suoi ‘padri’ e i suoi ‘re’ come qualcuno amò autoeleggersi o che qualche altro elesse. Di sicuro esso ebbe i suoi iniziatori, gli ispiratori, ma non di certo gli stilisti che lo definirono come fece Bill Monroe per il bluegrass o Louis Amstrong per il jazz.

Basti pensare al modo di suonare così diverso dei primi tre gruppi che incisero nel ’34. Finanche la differente strumentazione impiegata aggiungeva o toglieva colore allo stile di queste band: non tutti, ad esempio, usavano la fisarmonica, così come altri evitavano gli strumenti a fiato o la batteria. Tuttavia una standardizzazione più o meno accentuata, a secondo della corrente musicale intrapresa da queste variopinte compagini, si ravvisa nelle incisioni effettuate dal ’37 al ’41 e ad esse, più che a particolari esecutori, vanno le mie preferenze.
I continui rifacimenti di vecchi e nuovi successi rubacchiati un po’ ovunque, i musicisti ottimi ma non sempre rivoluzionari o dotati di spiccata personalità come Leon Mc Auliffe (si pensi ai tanti emuli di Joe Venuti), credo siano le pecche più appariscenti nell’originalità del western-swing. Ma non c’è tentativo di imitazione vero o presunto che tenga o che non si faccia dimenticare volentieri di fronte alle novità percettibili anche da un orecchio non avvezzo al western-swing.

Le si ascolta nel jazz, che sembra aver trovato in musicisti dalla cultura e dagli strumenti così nuovi e diversi, la propria soluzione di continuità e una maggiore propaganda; e anche nella musica tradizionale che, tra forzata urbanizzazione e linguaggio jazzistico, appare notevolmente rinnovata. E il rinnovamento si scorge un po’ dappertutto: dalle sonorità, dagli arrangiamenti ottenuti orchestrando un’essenziale e aggiornata strumentazione (cfr. oltre alla menzionata steel-guitar, il mandolino elettrico di Leo Raley) alle tante incoerenze stilistiche che da un brano all’altro riescono a spiazzare ogni nostro giudizio.
Addirittura il già più volte citato rock ‘n’ roll e ciò che oggi chiamiamo country music fanno la loro comparsa nel western-swing con un congruo anticipo sul loro tempo.
Ma questi sono particolari più da sentire che da leggere e comunque all’ascoltatore va la gioia di scoprire ulteriori dettagli perché non esiste critico musicale più qualificato e sacrosanto delle proprie orecchie! E qualcuno farà bene ad usarle per sfatare la nomea che vuole il western-swing come musica più sdolcinata che eccitante, un tipico prodotto da orchestra del liscio versione stelle e strisce.

Per fortuna non è così, o almeno non spesso, fermo restando la sua natura ‘danzereccia’, che non è poi quel peccato mortale come qualche moralista vuol far credere. Tranquillizzatevi, non sono affetto da ‘Dancemania’ e comunque ogni originaria ‘febbre da ‘sabato sera’ del western-swing si è sbollita con il trascorrere del tempo e delle mode (e quindi dei balli). Tuttavia esso rimane pur sempre musica elettrizzante, se non per i piedi, almeno per le orecchie.
E dopo mezzo secolo, non è un risultato da poco.

A questo punto una discografia consigliata è proprio quello che ci vuole.
Sebbene gli LP di western swing finora pubblicati non siano moltissimi e potrebbero essere contenuti in questa pagina, un distinguo tra disco e disco mi pare d’uopo.
Così, riducendo all’osso le sdolcinature e tenendo conto delle ben note ragnatele che assillano le nostre tasche, ho elencato gli album che gradisco maggiormente. Insomma, anche se scelti con molta parzialità e ignorando l’importanza storica di qualche matrice, questi sono, secondo me, i primi dischi di western swing che si dovrebbero ascoltare.
lo comincerei subito con le antologie, certamente poco esaurienti, per quel che riguarda la definizione dello stile di un gruppo, ma efficaci per carpire le tante sfaccettature del western swing. Da lì a comprare tutti i dischi di coloro che ci sono piaciuti di più, il passo è breve.
Questi, dunque, i ‘miei’ consigli e le ‘mie’ opinabilissime preferenze. Buon ascolto e, soprattutto, buona caccia.

Antologie

Okeh Western Swing, Epic 37324
Beer Parlor Jive, String 801
Hot As I Am, Rambler 105
Western Swing, Old Timey 105
.Western Swing Vol. 2, Old Timey 116
Western Swing Vol. 3, Old Timey 117
Western Swing Vol. 4, Old Timey 119
Western Swing Vol. 5, Old Timey 120
Devil With The Devil, Rambler 102
Texas Sand, Rambler 101
Stompin’ At The Honky Tonk, String 805
Operator’s Special, String 807

Milton Brown
Pioneer Western Swing ’35/’36, MCA 1509
Taking Off, String 804

Roy Newman & His Boys
Omonimo ’34/’38, Qrigin Jazz Library 8102

Bill Boyd & His Cowboy Ramblers
1934/47, Texas Rose 2701

Light Crust Doughboys
1936/39, Texas Rose 2704

Bob Wills & His Texas Playboys
’32/’41, Texas Rose 2709
The Tiffany Transcriptions Vol. 1, Kaleidoscope F 16
The Tiffany Transcriptions Vol. 3, Kaleidoscope F20

The Hi Flyers
1937/41, Texas Rose 2705

Ocie Stockard & The Wanderers
1937 – The Famous Fourteen, Origin Jazz Library 8103

The Tune Wranglers
1936/38, Texas Rose 2703

Jimmie Revard & Oklahoma Playboys
Oh! Swing It, Rambler 108

Smokey Wood
Houston Hipster 1937,Rambler 107

Pierpaolo De Luca, fonte Hi, Folks! n 22, 1987

Link amici

Comfort Festival 2024