Lost Highway Records

La Lost Highway Records rappresenta una delle realtà più interessanti attualmente in essere nell’ampio panorama delle indies americane. A dire la verità, non si tratta di una indie propriamente detta, in quanto i padri fondatori della label sono Luke Lewis, Presidente della Mercury Nashville e Frank Callari, ma la gestione e l’approccio di questo nuovo marchio sono assolutamente alternativi, rispetto alla mentalità che governa le majors.
Nonostante il nome sia tratto dall’omonimo brano di Hank Williams Sr. e nonostante il primo grosso successo dell’etichetta in questione sia stata la colonna sonora del film O Brother Where Art Thou?, il motore propulsore è il rock.

Fra i vari nomi che fanno bella mostra di sé nella scuderia Lost Highway appaiono i vari Willie Nelson, Ryan Adams, Lucinda Williams ed alcune compilations di artisti vari: in questa sede cercheremo di considerare alcuni dischi che, a tutt’oggi, riteniamo importanti nell’economia dell’etichetta.

Willie NelsonThe Great Divide
Più che di un disco DI Willie Nelson, oserei affermare che si tratta di un disco CON Willie Nelson, dove il grande vecchio dell’outlaw country appare logicamente in tutti i brani, ma dove manca la coesione che rende un album omogeneo. Willie non è nuovo a progetti spesso considerati ‘alternativi’ al filone country (OK, è un sottile eufemismo), ma questo volersi attorniare a tutti i costi di ospiti più o meno noti – come se Willie non fosse abbastanza famoso di per sé, è stato scritto che il nostro ha tanto bisogno di pubblicità quanto il Papa a Roma – ha portato, nel tempo, a risultati altalenanti e questa volta la sua scelta non ci trova d’accordo.
L’unico brano di Willie è il title-track, una ballata acustica ricamata sulla sua ormai consunta chitarra dalle corde di budello (gut-string guitar) cha ha anche un nome, Trigger, tanto Willie le è affezionato, ma gli interventi/arrangiamenti di brani quali Be There For You, eseguita con Sheryl Crow, francamente fanno a cazzotti con l’immagine che abbiamo del Red Headed Stranger.
Anche Mendocino County Line (eseguita con Lee Ann Womack) non è malvagia e potremmo ancora chiudere un occhio (pardon, un orecchio…) se non fosse che stiamo ascoltando una delle icone della country music ed oramai l’unico sopravvissuto del duo che ha creato il filone del cosiddetto outlaw country, Willie & Waylon.

No Willie, non ci siamo. Lasciatelo dire da chi comprerebbe (e compra) i tuoi dischi anche se canti le Pagine Gialle di Austin: puoi e sai fare ben di meglio di così, non hai alcun bisogno di distruggere la tua musica per adattarla alle mode del momento, come devono invece fare tanti tuoi pseudo colleghi per mettere insieme il pranzo con la cena.
Sai spaziare a trecentosessanta gradi, dal blues (vedi Milk Cow Blues, album davvero eccellente) ad un disco interamente strumentale, quale l’irripetibile Night And Day. Hai saputo rendere ‘tuo’ e scambiare in modo intelligente il suono con un tipo quale Daniel Lanois e Teatro è un risultato che in tanti sono il fila per raggiungere. Allora che bisogno c’è di un album come The Great Divide? E cosa ci porterà il tanto favoleggiato album reggae prodotto da Don Was ed ancora unreleased?

Ryan AdamsGold
Ryan Adams, novella Araba Fenice, è fuoriuscito dalle ceneri dei Whiskeytown, gruppo cardine del movimento noto come No Depression Sound ed artefici di una felice fusione fra folk ed alt.country, fino a quando il bel sogno è durato.
A seguito dello scioglimento della band, Ryan ha registrato un CD di esordio da solista intitolato Heartbreaker (2000), ma il vero salto di qualità lo ha fatto con questo Gold datato 2001. Il disco è davvero bellissimo, anche se estremamente eterogeneo nelle sue espressioni, dal quasi folk-rock urbano di New York con tanto di accenno di sax, alla ballata stile sixties introdotta dall’armonica di Firecracker. Dall’esercizio Younghiano di Answering Bell con implicazioni vocali a-la Crosby (tanto per restare in tema di West Coast), ad un altro dei momenti topici del CD, quella La Cienega Just Smiled, che resta fra i gioielli della sua ancor breve carriera.
The Rescue Blues e la seguente Somehow Someday rappresentano un ‘uno-due’ che metterebbe al tappeto qualunque avversario. Nobody Girl, intrisa di profonda tristezza, ha delle reminiscenze Dylaniane (Lay Lady Lay), ma la chitarra distorta di Enemy Fire è ben altra cosa ed il contrasto infonde nuova linfa vitale a tutto il lavoro. Harder Now That It’s Over ha le credenziali della ballata destinata a restare un classico di un certo suono cantautorale, ma Touch, Feel & Loose ha l’intro dei classici soul degli anni ’60, anche se poi lo sviluppo verte in tutt’altre direzioni.
Tina Toledo’s Street Walkin’ Blues succhia il latte dai blues di marca Rolling Stones ed il sapore del rock si mischia in una miscela sapientemente inebriante. Goodnight Hollywood Blvd. chiude l’ascolto: ballata pianistica, che richiama certe cose del primo Tom Waits (il più melodico) con la voce di Ryan, molto particolare, che suggella un album-must per chi apprezza questo genere.

Lucinda WilliamsEssence
Lucinda Williams non è un’esordiente, questo è certo. Ad una gavetta trascorsa nella semi oscurità di un anonimato-culto, nota solo a pochi aficionados del suo suono cantautorale molto personale, conosciuta soprattutto grazie a qualche suo brano reinterpretato da qualche collega più famoso/a (Big Red Sun risale al 1988 ed era compresa nel suo album intitolato semplicemente Lucinda Williams), Lucinda colleziona una serie di albums che non le danno certo la ricchezza, ma la fanno conoscere nei circuiti che contano.
E’ del 1998 il disco che segna il suo salto di qualità, quel Car Wheels On A Gravel Road che fa gridare quasi al miracolo per la purezza e la personalità del suono. Era difficile bissare un successo quale quello di Car Wheels, ma Lucinda c’è riuscita. Anzi, con Essence è andata oltre gli stilemi che avevano decretato il plauso per l’album precedente ed è riuscita a superare se stessa, mantenendo inalterato quel suono così sudista, sonnacchioso, paludoso, nebuloso, umido. Ascoltate Lonely Girls, in apertura di CD, e capirete quanto intendo dire, con i giri ipnotici che ti catturano, grazie anche al cantato ripetitivo che fa ripensare ad un altro artista maledetto, il Lou Reed di Walk On The Wild Side.

Nella bluesata Are You Down il parallelo con il sound caratteristico di J.J. Cale è immediato nello stile di Bo Ramsey. Tutto il disco è pervaso dalle atmosfere estremamente rilassate che caratterizzano certi paesaggi del profondo Sud degli Stati Uniti, quel senso di immobilità, di staticità, di immutabilità delle cose così agli antipodi della frenetica vita delle megalopoli del nord-est industriale o della costa occidentale. Ogni brano trasuda personalità e grande maestria nel gestire e mischiare i suoni.
Chitarre acustiche ed elettriche sono sapientemente dosate, la sezione ritmica si percepisce, piuttosto che sentirla ed il resto lo fa la voce di Lucinda, essa stessa sonnacchiosa, strascicata e quasi riluttante ad uscire ed a farsi sentire.
Molti sono i paralleli che avvicinano Lucinda Williams ad un’altra interprete emergente, Mary Gauthier, autrice di un paio di CD, fra i quali segnaliamo l’eccellente Drag Queens In Limousines. Cosa dire poi della country ballad Reason To Cry, riletta e filtrata attraverso la personalissima sensibilità di Lucinda? Sono ben undici i brani di questo grande album, per complessivi oltre cinquantun minuti, ma non ce n’è uno che si perda nella noia. Un nome da cerchiare in rosso, in attesa della prossima prova.

A.A.V.V.Down From The Mountain
Si tratta della trasposizione live del suono che è stato scelto come soundtrack del notissimo film dei fratelli Joel e Ethan Cohen intitolato O Brother Where Art Thou? Musica folk, blues, gospel, country, old-time per confezionare un prodotto rigorosamente attento al suono tradizionale e quindi decisamente in controtendenza, rispetto ai concetti di prodotto=profitto che vigono in quel del Nashville business delle majors.
Un concerto tenutosi al Ryman Auditorium (sede originale della Grand Ole Opry il 24-05-2000 al quale hanno partecipato personaggi del calibro dei Fairfield Four (gruppo gospel che si esibisce a-cappella, cioè senza il supporto di strumenti), John Hartford (recentemente scomparso), Alison Krauss & Union Station, the Cox Family, Gillian Welch & David Rawlings, the Whites e – dulcis in fundo – Emmylou Harris. La forma in cui vengono proposti i brani è quella più strettamente tradizionale ed acustica, ma il risultato finale è di una purezza quasi mistica, assolutamente unica. Sono operazioni come questa che danno la misura dello spirito pionieristico di operazioni quali la creazione della meritoria label Lost Highway Records.

A.A.V.V.Timeless: A Tribute To Hank Williams
Negli ultimi anni si è assistito ad un gran proliferare dei cosiddetti album-tributo, celebrazioni di artisti particolarmente meritevoli di riconoscimento – fossero essi tutt’ora in vita o già deceduti – da parte dei propri colleghi. Alcune operazioni si sono rivelate mere e bieche speculazioni, ma altre, molte altre, hanno dato vita a progetti estremamente meritori.
Questo album appartiene indiscutibilmente alla seconda schiera, anche perché è meritevole già di per sé riuscire ad assemblare personaggi del calibro di Bob Dylan (I Can’t Get You Off My Mind), Sheryl Crow (Long Gone Lonesome Blues), Keb Mo’ (I’m So Lonesome I Could Cry), Beck (Your Cheatin’ Heart), Mark Knopfler & Emmylou Harris (Lost On The River e Alone And Forsaken), Tom Petty (You’re Gonna Change), Keith Richards dei Rolling Stones (You Win Again), Hank III (I’m A Long Gone Daddy), Ryan Adams (Lovesick Blues), Lucinda Williams (Cold, Cold Heart) ed il grande Johnny Cash (I Dreamed About Mama Last Night).
Il filo conduttore che unisce artisti fra loro così diversi (si pensi a cosa possono avere in comune, per esempio, Johnny Cash e Keb Mo’) è proprio il fatto di rendere omaggio ad un grande, il padre della moderna country-music, Hank Williams Sr. Può sembrare anacronistico definire ‘moderno’ uno stile popolarizzato da un personaggio morto negli anni ’50, ma l’insegnamento di Hank Sr. è ben impresso nel DNA di tanti gruppi/solisti attualmente in azione, per non dire esordienti, che hanno fatto loro l’approccio alla musica che fu del grande e sfortunato loner.

I brani sono molto famosi, ma la rilettura ad opera di interpreti così diversi fra loro li riveste di un’aurea di particolarità e di peculiarità da stimolare come minimo la nostra più che legittima curiosità.
Keith Richards riesce a rallentare ulteriormente la già lentissima You Win Again ed il nipote di Hank Sr, Hank III, è quasi impressionante nella versione di I’m A Long Gone Daddy, tanto la voce assomiglia a quella del nonno e senza dover fare alcuno sforzo per imitarla.
Che dire poi della strascicata ed alcolizzata versione di Cold, Cold Heart ad opera di Lucinda Williams? E’ talmente trasgressiva che sicuramente Hank Sr. sorride compiaciuto da dove si trova ora, in quanto la trasgressione è sempre stata una delle componenti prevalenti del suo essere.
Il disco si chiude con una commovente ‘recitation’ interpretata dalla voce del grande Johnny Cash. Johnny non è più in forma fisica da quando il morbo di Parkinson e disturbi vari ne hanno minato la salute, ma non dimentichiamo che la sua voce ha accompagnato, ed accompagna tutt’ora, grazie a Dio, una cinquantina d’anni di country music. Un tributo affettuoso ad un’icona della musica che amiamo, una Musica che necessita assolutamente della lettera maiuscola.

Dino Della Casa, fonte Country Store n. 65, 2002

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