Del fatidico giorno dell’evento il sottoscritto, il suo inseparabile socio Antonio ed il solito gruppo di organizzatori, ricordano soprattutto il dolore causato dai crampi alle dita, scaramanticamente tenute incrociate per tutta la settimana precedente al festival a scongiurare la possibilità di nubifragi, smottamenti, slavine etc. sull’accogliente sala del Parco Mamoli. Per fortuna le cose non sono andate esattamente così. Chi ha voluto godersi una intera giornata di musica e danza country al suddetto parco, ci è arrivato senza grandi difficoltà. Anche se, è triste ricordarlo, la bella giornata di caldo sole quasi estivo passata all’ombra degli alberi, suonando spassionatamente con amici giunti da vicino e lontano, degustando salsicce e salamelle seduti sull’erba e ballando (o tentando di) sull’ampia pista esterna, non la si è vissuta proprio.
“Cielo coperto con rovesci di carattere temporalesco”, esattamente come diceva la truccatissima signorina della tivù. E così niente picnic e barn dance ma solo ossa e strumenti umidi per tutto il santo giorno, con i musicisti testardi al punto di rovinare Martins e Gibsons, schiacciati come sulla 65 in orario di punta sotto il metro e mezzo di veranda per jammare i soliti evergreen.
I workshops sugli strumenti sono stati comunque seguiti con interesse (mi è parso), lo stage di danze ha divertito nonostante si fosse tenuto all’interno della sala in condizioni logistiche alquanto discutibili, e il sound check non lo si è potuto ritenere tale. Risultato, un suono a dir poco osceno. “Succede anche in situazioni molto più importanti”, potrebbe rammentarci qualcuno in un disperato ed invano tentativo di consolazione (ve lo ricordate il concerto dei Platters all’Arco della Pace?), eppure, bisogna riconoscere che le cose anche da questo punto di vista sono andate proprio male. Vuoi, mi ripeto, per colpa dei contrattempi di cui sopra, vuoi (…e diciamolo!) per la qualità dell’impianto. Nonostante tutto, l’obiettivo principale (oltre naturalmente a quello di rivedere vecchie facce amiche e conoscerne di nuove) che mette in moto da sette anni a questa parte il nostro festivaluccio, cioè quello di raccogliere fondi, è stato ampiamente raggiunto. Infatti, nessuno di noi si attendeva una partecipazione di pubblico così alta in una giornata meteorologicamente così brutta: quasi 300 anime! E non osiamo pensare a quante potevano essere se le nuvole fossero rimaste a casa loro. Vabbè.
L’accoglienza, la gentilezza e l’organizzazione del Circolo Arci di Lacchiarella che ci ha ospitati ha stupito tutti, e ci ha fatto piacere scoprire, durante una riunione un paio di settimane dopo l’evento, che gli stessi del Circolo saranno felicissimi di riaverci anche il prossimo anno. Abbiamo fatto bella figura.
I ballerini giunti dalla Repubblica Ceca sono piaciuti ed hanno divertito molto (beh, non a tutti, ma che importa) nonostante i costumi ‘eccessivi’ ed uno spettacolo composto da coreografie forse più vicino ad una concezione circense piuttosto che filologica. Comunque sia, grande soddisfazione, con la speranza di riaverli anche nelle prossime edizioni (su questo nessun dubbio: si provi a pensare cosa sarebbe stato questo festival senza di loro). Per chiudere il discorso danza, va ricordato anche il buon successo ottenuto dal breve stage di country line-dancing.
La musica è partita in ritardo, con i problemi che sappiamo. Primi i Beans, Bacon & Gravy, il quintetto old-time che già abbiamo ascoltato in altre occasioni e che ancora una volta si è fatto apprezzare per la fedeltà allo stile eseguito (nonostante il malaticcio Rogora…).
I torinesi Bluegrass Ties hanno nuovamente confermato di essere buoni intrattenitori e performers, attenti alla costruzione dello spettacolo, e quindi costantemente alla ricerca di quanto può più piacere ai non-fans, anche se ci è parso che molti dei momenti più importanti del loro show siano rimasti gli stessi di qualche tempo fa (e perché cambiarli se funzionano?).
I Freeway 89 sono aggressivi e ‘carichi’ e il loro blue-new-old-rock-equant’altro-grass è sempre pieno di adrenalinica tensione: per loro un set di 45 minuti vale 6 ore di palestra. Intricati arrangiamenti e voci spinte al limite per un repertorio di brani classici del country rock oltre a pezzi di provenienza bluegrass (niente Monroe e tanto meno Flatt & Scruggs!).
I Red Wine sono stati i più penalizzati dall’impianto. Ritorni a tutto andare, e come se non bastassero quelli, ci si è messo pure il microfono di Martino che non voleva saperne di stare fermo. Sui Red Wine niente da aggiungere rispetto a quanto detto in passato nei loro confronti (di loro si può leggere anche nell’articolo di Ruben Minuto su Lawson & Co.) a parte il fatto che riuscire a tenere il palco in quelle condizioni è già una buona dimostrazione di professionalità. Ah dimenticavo, hanno delle belle magliette.
I Dobro, infine, visti per la prima volta da queste parti, con impianto loro (e che impianto), si sono esibiti quando ormai putroppo la sala era mezza vuota. Il sospetto che i ragazzi fossero grintosi e vigorosi lo nutrivo nonostante li avessi ascoltati solo su disco. E quel disco non rende affatto giustizia al livello del loro spettacolo! Tutti molto bravi, un suono compatto e potente per tanto sano new country e country rock. Stupefacente il chitarrista, che deve aver condiviso per un paio di anni l’appartamento con Albert Lee. Grande chiusura.
Chiusura? Ma non doveva esserci una mega jam session con tutti i musicisti che si interscambiavano democraticamente il posto davanti ai microfoni? Già, sarebbe stato proprio bello… se i contrattempi… sarà per il prossimo anno.
Un grazie ancora a tutti i musicisti per il grande spirito di partecipazione!
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 33, 1996