Correva l’ormai lontano 1995: così lontano che Bill Monroe era ancora vivo, Ricky Skaggs e Rhonda Vincent suonavano ancora country, ed i Johnson Mountain Boys non erano ancora definitivamente scomparsi; a metà estate le riviste specializzate annunciavano l’uscita di un album, It’s A Long, Long Road, di un nuovo gruppo, Blue Highway.
Niente di particolare: ogni mese vengono annunciate decine di tali uscite, di solito si tratta di gruppi di amici più o meno appassionati, noti giusto nella cerchia degli amici del bar. Sarà stato per questo motivo, sarà stata la stagione, sarà stata l’assonanza del nome con quello di Lost Higway, gruppo di notevole longevità e di non eccessivo peso che batte da anni California e dintorni: la notizia mi era passata non quasi, ma del tutto inosservata.
Sennonché, durante una telefonata, il nostro Grande ed Illustre Presidente (un po’ di buone maniere …) mi parlò in termini assolutamente entusiastici del CD e della nuova band. Per cui, quando su Country Store apparve l’altrettanto entusiastica recensione, avevo già avuto modo di apprezzarne le virtù.
Che non sono poche: in effetti, i nomi dei musicisti, se pubblicati, mi avrebbero detto qualcosa. Forse non tutti, ma certamente quello di Tim Stafford, voce e chitarra, transfuga dagli Union Station di Alison Krauss.
Ma anche la carriere di Shawn Lane, fiddle e voce, non era trascurabile: avendo collaborato, fra gli altri, con Ricky Skaggs. Degli altri tre, poco o nulla si sapeva, a parte qualche collaborazione di Rob Ikes: ma il semplice fatto che qualcuno lasciasse Alison Krauss (e, con lei, una paga sicura, ché Krauss è uno dei pochi nomi del settore che faccia cassetta e garantisca veramente la possibilità di mantenere una famiglia) per mettere su con loro una banda nuova nuova dava qualche garanzia.
L’album si fa notare immediatamente per il suono nuovo, contemporaneo nella tradizione, quindi non del tipo progressive-ad-ogni-costo (anche, magari, contro ogni evidenza di buon gusto), od aperto, sempre ad ogni costo, o in modo gratuito, nelle più svariate direzioni, vuoi rock, vuoi jazz, vuoi new age: di bluegrass si tratta, al di là di ogni dubbio. Questo non significa però che si tratti dell’ennesima rifrittura del solito vecchio suono, innovativo ai suoi tempi, classico oggi.
Il ritmo ed il timing sono quasi aggressivi, alla Union Station, anche se non esattamente, le voci, mai calanti, sono sempre perfettamente in pitch, come piace al pubblico contemporaneo, ma anche high & lonesome, come piace al pubblico nostalgico; molte delle canzoni sono originali, composte da Wayne Taylor o da Tim Stafford, ed anche quelle riprese dalla tradizione o dalla penna di un maestro come Carter Stanley ricevono un trattamento assolutamente originale: prendono il suono Blue Highway; espressione che, con gli album successivi, acquisterà un significato preciso.
Parliamo dei musicisti, e, per non far torto a nessuno, lo facciamo in ordine alfabetico. Jason Burleson suona il banjo, viene da una famiglia musicale della Nord Carolina, e, oserei dire, si sente. Il nostro inizia con il banjo ad undici anni, dopo un po’ passa a chitarra e mandolino, facendo diversi mestieri per guadagnarsi pane e companatico: tra cui l’addetto ad uno ski-lift. Il che, conoscendo l’effetto del gelo sulle dita, fa venire i brividi a qualsiasi banjoista.
Dopo un po’ torna al banjo, con cui si guadagna da vivere suonando a Dollywood, il parco a tema che Dolly Parton ha costruito a Pigeon Forge, nel Tennessee, ai piedi delle Smoky Mountain.
Forse non è molto per mettersi on the road a tempo pieno: certo è che il suonare in un parco a tema dovrebbe dare un mestiere non trascurabile, oltre che un notevole punch, necessario per attirare un pubblico distratto e, per lo più, incompetente. E di punch Jason Burleson non difetta, a costo di sacrificare, a volte, la quantità di note che suona: direi anzi che è il suo carattere distintivo, secondo in questo (forse) a Ron Block.
Rob Ikes, nel 1995, non era un illustre sconosciuto, avendo collaborato ad un paio di album della Cox Family, di cui uno con Alison Krauss, ed avendo partecipato alle Great Dobro Sessions curate da Jerry Douglas: ma poco mancava. Oggi è sicuramente uno dei massimi rappresentanti del suo strumento: a detta degli addetti ai lavori, il massimo, visto che vince costantemente l’IBMA award dal 1996 ad oggi (prima di lui, lo vinceva costantemente Jerry Douglas).
Oltre ad essere ‘fisso’ con Blue Highway, dal 95 ad oggi Rob Ikes ha collaborato ad un grandissimo numero di album bluegrass e/o country (se avete in casa solo tre o quattro CD bluegrass recenti è quasi impossibile che il suo nome non compaia); ed ha pubblicato due album a proprio nome, Hard Times (Rounder 0402), che poteva sembrare, sia pure a tratti, progressivo, fino a che non è uscito Slide City (Rounder 0452), splendido lavoro di jazz acustico (una volta lo avrebbero probabilmente chiamato jazzgrass) che presenta una particolarità notevole: non c’è ombra, in tutto l’album, di chitarra.
Shawn Lane è il fiddler, ma suona anche il mandolino. Nativo della Virginia, è vicino di casa di personaggi come Carter e Ralph Stanley, Jim & Jesse McReynolds, la Carter Family. Come spesso accade da quelle parti, la sua prima banda era formata dai parenti più stretti. È stato, formalmente, allievo di John McCutcheon: ma solo per una lezione.
Evidentemente l’allievo era in gamba (del maestro nessuno dubita), perché la lezione è stata bene assimilata. Poi iniziò a suonare con un certo Marcus Smith, che faceva parte della East Tennessee State University Bluegrass Band, e che poi troveremo nei Carolina Blue di Lou Reid. Insieme a Marcus Smith, Shawn Lane comincia a cantare come tenor.
E siamo a quattordici anni. Poi la prima vera banda: Blue Ridge, sempre con Marcus Smith e, fra gli altri, James Alan Shelton. Riesce anche, grazie ai buoni uffici di Smith, ad aggregarsi alla ETSU Bluegrass Band durante una tournée in Russia: non male per un ragazzo mai uscito dalla Virginia. Poi collabora con Lou Reid, incide con Larry Sparks, e, subito prima di partecipare a New Highway, lavora per un anno con Ricky Skaggs.
Tim Stafford, del Tennessee, è un altro allievo della ETSU, East Tennessee State University (ora, io non dico che le scuole italiane dovrebbero tenere corsi di bluegrass: sarebbe assurdo, anzi ridicolo; ma, da noi, c’è solo il conservatorio di musica classica; ed i danni che questo fa alla creatività di chi vorrebbe fare musica, e non limitarsi a riprodurla, solo chi si è cimentato nell’impresa titanica di trasformare un diplomato in un musicista – nel senso di artefice di musica – può saperlo; ma questa è un’altra storia: magari, una volta, ci scrivo su un articolo).
Come detto, la sua carriera musicale inizia in alto: con Alison Krauss & Union Station, che abbandona solo per formare il nuovo gruppo. Ma, oltre che suonare, si occupa di un sacco di cose, sempre correlate alla musica bluegrass: scrive articoli, lavora in radio (WETS-FM, Johnson City, TN), produce album, e scrive canzoni, due delle quali, Farmer Blues (che suscita l’invidia di Alison Krauss, di sicuro) e lo strumentale Canadian Bacon si trovano sul primo album di Blue Highway (e, la seconda, per qualche tempo, sulla segreteria telefonica del sottoscritto).
In effetti Tim Stafford non lascia Alison Krauss per formare una nuova band: la lascia perché, con più di 200 date all’anno, un giorno il suo bimbo non lo riconosce, e si mette a piangere. Il che è sufficiente per convincere il più duro dei padri a trovarsi un’occupazione più tranquilla, o per lo meno più vicina a casa.
Wayne Taylor, bassista, altro virginiano DOC, da ragazzo prova a suonare rock. Senza grossi risultati, tanto che, intorno ai venti anni, passa all’opposto, diventando cantante gospel. La musica rimarrà sempre un’occupazione a tempo parziale: essendo il suo lavoro, per diciotto anni, quello di camionista; e, questo, fino a quando non si costituisce Blue Highway, cui Wayne Taylor porta un enorme contributo non solo come cantante, ma anche e soprattutto come autore.
Già sul primo album possiamo apprezzarne le doti in Lonesome Pine, che ha avuto cover fino in Bulgaria, Before The Cold Wind Blows, grande ballata di pionieri, viaggi & polvere da sparo, solo parzialmente rovinata da un finale deamicisiano come pochi (ma basta non ascoltarne le parole), e The One I Left Behind, che viene eseguita persino dal sottoscritto.
Del CD di esordio, It’s A Long Long Road (Rebel 1719), abbiamo ormai detto quasi tutto: restano da nominare la title cut, scritta da Jack Tottle, di rara potenza ed orecchiabilità, un pezzo di Carter Stanley, Say, Won’t You Be Mine, uno di Norman Blake, Lord, Won’t You Help Me, poi In The Gravel Yard, che nello stesso anno viene incisa anche da Doyle Lawson (difficile, in questi casi, stabilire chi sia arrivato prima: lo avranno sentito eseguire da qualcuno; e poi non ha molta importanza, perché le due versioni sono abbastanza diverse); una malinconica England’s Motorway, dalla penna di Ewan MacColl, ed una rivisitazione assolutamente Blue Highway di un pezzo Irish, Flannery’s Dream.
Dovremmo avere detto tutto: tranne il fatto che il CD in questione fu premiato come album dell’anno 1996 dalla IBMA. Il che, per un disco di esordio, non è male. Va da sé che, nello stesso anno, la banda fu premiata come gruppo emergente.
È quindi naturale che il secondo album fosse atteso con ansia, sia dalla critica che dal pubblico. L’attesa non fu lunga: nel 1996 esce Wind To The West (Rebel 1731), che a partire dall’attacco della omonima canzone conferma un suono caratteristico ed inconfondibile. Ora, qui dipende dall’atteggiamento del critico: quello benevolo dirà che la banda ha definito e mantiene un proprio stile ed un proprio suono.
Quello meno benevolo dirà invece dire che il secondo disco assomiglia molto al primo, forse troppo. Posso citare un episodio: avevo prestato il primo CD ad un amico; quando me lo rese, gli prestai il secondo. Quando me lo riportò disse: “All’inizio pensavo che ti fossi sbagliato, e mi avessi ridato quello di prima”.
Bene, diciamo che andando avanti nell’ascolto l’amico si è accorto dell’errore: certo è che le somiglianze sono molte. Non è detto che questo sia un difetto: ad esempio, quando si chiede consiglio su un disco di Jimmy Martin, di solito ci si sente rispondere: “Uno qualsiasi: ha un suono così consistente che non c’è molta differenza”.
E, di solito, non viene detto con intenti denigratori: anzi. Certo che, solo per fare un esempio, tra la Good Time Blues di questo CD, e la In The Gravel Yard del precedente ci sono parecchie assonanze.
È anche vero che I Can Stand The Truth, più country che bluegrass, scritta a sei mani da Stafford, Taylor e Burleson, non assomiglia a niente di precedente del gruppo; come la West Virginia’s Last Hand Loader, splendida, testo potente e tristissimo senza essere caramelloso, autentica poesia che precorre tema ed atmosfere di Old Kentucky Miners, eseguita anni dopo da Larry Cordle, o di Coal Minin’ Man di Jim Mills, eseguita da Ricky Skaggs.
Si conferma qui, anzi si rafforza, la vena compositiva del gruppo: ben sette pezzi su tredici sono scritti a due o più mani dai membri del gruppo: lo sforzo viene tanto più apprezzato in quanto il booklet riporta tutti i testi.
Anche qui i pezzi non originali sono interpretati alla Blue Highway: ad esempio la qui presente versione di Two Coats non fa rimpiangere quella degli Stanley, anche se non dà gli stessi brividi: ne dà di diversi; e l’arrangiamento (quasi) a cappella di God Moves In A Windstorm si guadagna un award IBMA come esecuzione gospel dell’anno (forse non ci faccio una grande figura, ma ci ho messo qualche anno a capire che è la stessa canzone eseguita da Tim O’Brien come Jonah And The Whale).
Più di un pezzo finisce in classifica, e ci resta a lungo. E, come direbbe, Forrest Gump, non ho altro da dire su questo.
Il terzo album, Midnight Storm (Rebel 1746), si fa attendere un po’ di più, fino al 1998. Verrebbe da dire nulla da segnalare, ed io personalmente comincio ad avvertire chiari sintomi della sindrome da Jimmy Martin citata sopra: tanto che penso che non acquisterò altri album del gruppo. Non perché siano brutti, tutt’altro: ma proprio perché si assomigliano così tanto che si ha l’impressione di risentire sempre lo stresso disco. Sarei un bugiardo se dicessi che ho ascoltato questo CD con la stessa attenzione con cui ho ascoltato i precedenti.
Anche i temi trattati diventano ripetitivi: ad esempio, il Lonesome Pine ricorre con una frequenza fastidiosa. È vero che è un simbolo carissimo al cuore di chi è nato sui monti del Blue Ridge (si tratta di un albero, raro, che, pur assomigliando ad un pino, non è nemmeno una conifera, e che cresce solo da quelle parti): ho avuto modo di constatarlo di persona in mezzo ad un pubblico di kentuckyani e virginiani: ma, dopo la Lonesome Pine dell’esordio, condita da ampie citazioni nei testi di altre canzoni, il proporre qui I’d Rather Be A Lonesome Pine fa pensare “Ma questi ci marciano”. Come se Primo Casadei, dopo Romagna Mia, avesse scritto Vorrei Essere Nella Mia Romagna, e Romagna Mia, Ti Penso.
C’è in effetti una novità, purtroppo spiacevole, rispetto al capitolo precedente, ed è l’assenza dei testi: chissà perché. In generale si osserva un incremento, per quanto sembri impossibile, della perfezione tecnica e della pulizia del suono: a scapito però del calore, che dal primo album a questo diminuisce gradualmente ed inesorabilmente.
Il gruppo dal vivo, invece, è abbastanza caldo: può darsi che dipenda anche dall’interazione con il pubblico.
Quando li ho sentiti io a Louisville nel 1998 mi è sembrata una banda al di sopra della sua produzione discografica: al contrario di quanto mi era stato detto, perché mi avevano parlato di un gruppo piuttosto molle. Ma, a Louisville un gruppo come Blue Highway gioca chiaramente in casa. Io li ho trovati assolutamente perfetti: certo, non sono dei compagnoni, tipo Lonesome River Band o Del McCoury: ma non dormono e non fanno dormire.
Nell’ottobre 1988 c’era però una grossa novità: al banjo debutta Tom Adams. Non penso ci sia bisogno di dire molto di lui: Johnson Mountain Boys e Lynn Morris Band sarebbero già credenziali sufficienti, ma ci sono anche (almeno) un titolo di campione nazionale ed un album come Right Hand Man (Rounder 0282: se qualcuno di voi suona il banjo e non ce l’ha, smetta di leggere e vada immediatamente ad ordinarlo: aspettiamo qua), e molto altro.
È questa la formazione che sento io, ed è quindi possibile che un bel po’ del calore che sento lo abbia portato proprio Tom Adams: i gruppi da cui viene non saranno formalmente ed asetticamente perfetti come questo (lo sono comunque sufficientemente …), ma di calore umano, cuore, ed anima, ne hanno, o avevano, da vendere.
Ed è proprio questo il commento che un critico autorevole fa dell’album successivo, intitolato semplicemente Blue Highway (Ceili 2002): gli album precedenti erano solo perfetti. Questo, in più, ha soul. Concordo. Infatti, contravvenendo ai miei propositi, lo compro: e scopro altre novità.
La casa discografica, sono passati con Ricky Skaggs, che avrà i suoi difetti, ma lui alla musica bluegrass ci crede come ad una religione (e detto di lui …): la sua produzione, infatti, è sempre piuttosto ricca di soul. Tornano i testi delle canzoni, come è nello stile Ceili (certo, gente, che i caratteri di stampa che usa Ricky Skaggs-occhio-di-falco fanno sembrare cubitali le clausole dei contratti assicurativi). La copertina è, per il genere, quasi scandalosa: niente che non possa andare in mano ad un bambino, chiaro, si tratta di un album bluegrass.
Ma io, una donna bionda, bella ed in minigonna, e che non faccia parte della banda, sulla copertina di un disco bluegrass non l’avevo vista mai (vediamo di capirci: non sono un baciapile represso, sto solo osservando che la cosa è inusuale: stop).
Lo stile, anche, è un po’ diverso: il background è quello, ma la banda chiaramente reagisce al suono del nuovo banjoista (è uno strumento maledetto, che sa rompere come pochi, e più difficile da accordare di una motocicletta: ma l’influenza che i migliori banjoisti hanno avuto sui capiscuola di questa musica è innegabile; pensate solo ad un Bill Monroe senza Earl Scruggs). Bene, il suono è più morbido, più caldo, più soul.
Non saprei dire, tra il primo e questo, quale sia l’album migliore. Questo ha i suoi bei punti di forza: il pezzo di apertura, Born With A Hammer In My Hand, di Shawn Lane, hard driving, va subito in classifica e ci resta per un pezzo; Clay And Ottie, di Tim Stafford, è un gran bel pezzo di country acustico; Man Of Constant Sorrow, cantata da Shawn Lane, coraggiosissima cover di un classico degli Stanley, che pochissimi hanno il coraggio di riproporre, è qui semplicemente splendida. Il dobro di Rob Ikes la riporta al blues che doveva essere in origine: se dovessi dire se sia meglio questa o la versione dei Soggy Bottom Boys sarei in grave imbarazzo.
Don’t Come Out Of The Hole, con uno swing da Texas, è ispirata a fatti reali, e fa riflettere: parla di un bagno penale in miniera, dove i guardiani avevano l’ordine di sparare a vista sui galeotti che avessero tentato di uscire dal pozzo.
Non manca un gospel a cappella, l’originale di Shawn Lane I’m Near The Gate (ma, da come cantano i gospel questi qui, mi chiedo cosa aspettino a fare un album gospel). C’è poco altro da dire: compratelo e ascoltatelo, vedrete che lo riascolterete.
Bene, siamo alla fine del 2000, Tom Adams ci fa sapere che è andato a suonare con Rhonda Vincent, e veniamo a sapere che Jason Burleson è tornato con il gruppo. Ad inizio del 2001 attendiamo, stavolta con ansia, il loro prossimo lavoro.
Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 56, 2001