La sua è una presenza costante dagli anni Settanta ad oggi sulla scena di Chicago, con coerenza e entusiasmo porta avanti tuttora, (il suo secondo CD per la Delmark è uscito qualche mese fa), gli insegnamenti del suo mentore J.B. Hutto.
Come hai scoperto il blues? Tramite i dischi dei tuoi genitori?
Avevo un vecchio giradischi Victrola nel seminterrato. Avevo un disco, Teddy Bear Blues che riascoltavo di continuo. I miei genitori ascoltavano jazz, swing e canzoni celebri dai musical. Io mi sono appassionato prima al rock, con Beatles, Stones e Jimi Hendrix. Come tanti quando ho sentito gli Stones, che facevano pezzi blues, mi chiedevo chi li avesse scritti. Quindi cercando sulle note di copertina del primo disco degli Stones, saltò fuori il nome McKinley Morganfield, ecco il blues. Scambiai alcuni album di rock per Big City Blues di Howlin’ Wolf e quando lo ascoltai rimasi sbalordito! Mi chiedevo «ma cosa stanno suonando? E’ giusto?» E allo stesso tempo non riuscivo a smettere di ascoltare Wolf. “I got a brown skin woman, know they call her the chocolate drop, when it comes to lovin’, she just won’t stop. I got a light skin woman, sweet as she can be, don’t let no black woman, lay her hands on me”. Questa roba m faceva impazzire, anche se non capivo perché stesse dicendo così. Non avevo nessun pregiudizio di razza o classe. Semplicemente non lo capivo, eppure la musica era così ipnotica, e per me lo è ancora oggi. Adoro il modo di suonare di Willie Johnson, lui mi piaceva ancora prima di Hubert! Poi comprai Black Cadillac Blues di Lightnin’ Hopkins, mi piaceva come sapeva raccontare una storia: “you know rubber on heels, is faster than rubber on wheels”, quando correva dietro alla sua donna che se ne era andata con la sua nuova Cadillac! Comprai anche Don’t Answer The Door e il Live At The Regal di B.B. King, Real Folk Blues di Muddy Waters, fu qui che ascoltai per la prima volta la chitarra slide. Non lo dimenticherò mai. E poi ci fu A Man And The Blues di Buddy Guy. Questi dischi li ho letteralmente consumati, tanto che tempo dopo li ho dovuti ricomprare. A tredici anni mi portarono a vedere James Brown in concerto, nel Southside di Chicago, fu una esperienza del tutto nuova ed eccitante, anche perché eravamo gli unici bianchi presenti. Dopo ebbi un’altra strana esperienza. Ero al liceo e una notte feci un sogno, vidi un tizio che suonava una chitarra slide, uno che non avevo mai visto, un tipo piccolo, ben vestito che stava su una sorta di teca di vetro illuminata e aperta sul davanti. Aveva un sorriso enorme e lo sguardo fisso verso di me. Giuro che è stata una premonizione dell’arrivo di J.B. Hutto nella mia vita. Oltretutto aveva un aspetto molto africano, ma era sempre vestito con impeccabili abiti americani. Non ho mai scordato quel sogno.
Com’era Chicago negli anni in cui bazzicavi il Club 1815 di Eddie Shaw?
Un’avventura! Con me erano tutti molto amichevoli, il gruppo comprendeva Shaw, Lafayette Gilbert (per breve tempo) al basso, L.C. Robey, Doug McDonald o Boston Blackie e Hubert Sumlin alla chitarra, Chico Chism alla batteria e Detroit Junior al piano. Spesso c’era Jewtown Burks a suonare con noi. Certe sere accompagnavamo otto o dieci musicisti diversi, c’erano anche ballerine nude e una volta siamo persino stati arrestati tutti quanti, perché una di loro si è messa a fumare una sigaretta proprio lì out of her coochie, c’erano poliziotti nel locale che non aspettavano altro. Portarono anche noi della band in prigione. Eddie Shaw ci fece uscire e quando il caso finì in tribunale il giudice si mise a ridere e lo chiuse subito, nei documenti c’era scritto “arrestati in un luogo di fornicazione”. Negli anni abbiamo suonato con Otis Rush, Maxwell Street Jimmy, Little Wolf, Taildragger, B.B. King Jr, Guitar Junior e molti altri. Una volta Eddie (Shaw) mi mandò con Jewtown Burks a comprare alcolici, ma Eddie tamponò una macchina e dovette dare al conducente tutti i soldi che avevamo. Era un quartiere nero, nel West Side e nella zona c’erano altri locali più piccoli, a volte con blues band, però il 1815 era davvero il tempio nazionale del blues. Tutti i ragazzi si fermavano a chiacchierare fuori o di fianco, seduti in auto abbandonate a bere vino o gin. Ci capitavano tutti prima o poi, mi ricordo che una volta con J.B. Hutto, poco dopo che lui ebbe iniziato a suonare, ci fu un black out e dovemmo andarcene nel buio più completo.
Quali altri bluesmen hai conosciuto in quel periodo?
Abb Locke, che è rimasto nel gruppo per quindici anni! Ascoltavo le sue storie ogni settimana, era un bel modo di passare il tempo sul furgone. Raccontava di Elmore James, Howlin’ Wolf, Two Gun Pete, Earl Hooker, Jim Capone, il fratello di Al, i fratelli Chess, Willie Dixon, Willie Mabon, Albert Collins, Ike & Tina Turner e B.B., Bobby Bland, Junior Parker, Muddy, Lonnie Brooks, Memphis Slim, Eddy Clearwater, per non parlare di tutte le sue disavventure con le donne! Mi ha insegnato molto sulla vita, mi diceva sempre: «basta un minuto per mettersi nei guai, ma ci vogliono anni per tirarsene fuori!». Ho conosciuto anche Clarence ‘Gatemouth’ Brown, anche se lui non voleva essere definito bluesman, lo percepiva come un limite. Ci conoscemmo a Winemucca, Nevada, suonava in un casino, mi ha ospitato a casa sua sia a Farmington, New Mexico, che a New Orleans. Mi ha insegnato parecchio e ci siamo salutati da amici, l’ultima volta che ci siamo visti è stato durante una Blues Cruise norvegese, gli dedicammo una canzone, You Got Money e la cosa lo fece sorridere. A dire il vero all’inizio non la prese benissimo, ma io avevo incalzato il pubblico chiamandolo e tutti presero ad applaudirlo, così alla fine fu quasi obbligato a tirar fuori un lungo sorriso. Devo citare anche Floyd Jones, Walter Horton, John Brim, Eddie Taylor, Little Arthur, Brownie McGhee e Blind John Davis, che oltre ad essere molto bravo, fu molto gentile con me. Ed anche Little Brother Montgomery, Albert Collins, Pat Rushing, Robert Lockwood e Homesick James.
Altri artisti coi quali hai suonato?
Sono moltissimi e elenco sarebbe davvero troppo lungo.
Che ricordi hai delle incisioni realizzate con Eddie Burks, che sono uscite sull’etichetta di Bob Corritore?
Ero sorpreso che mi volessero in studio, stavo ancora imparando. C’erano due leader in quelle sessions, uno era Chico Chism, l’altro Eddie Burks. Forse la cosa migliore che ho fatto quel giorno è stato suonare un accordo di nona aumentato su Coo Fanny Coo di Chico. E’ il famoso accordo che Kenny Burrell usa su Chitlin’ Con Carne e quando lo suonai, Chico mi indicò davanti a tutti e mi disse «te lo avevo detto!», mi rese orgoglioso di quell’accordo. Per il resto filò tutto liscio. Eravamo in un piccolo studio a Evanston. Ho ancora il 45 giri che venne fuori, Chico cercava di convincere gli altri che poteva cantare, c’era anche Boston Blackie. Non provammo nulla, Chico ci spiegò sul momento cosa aveva in mente e Burks fece lo stesso. Si mise a cantare qualcosa come “Operator, operator, disconnect this phon, because there is something going on wrong”. Era un verso da Bring It On Home di Sonny Boy Williamson, cambiò giusto una parola! Mi disse come suonarla e quando io gli risposi «ah certo come in quella di Sonny Boy», ci rimase un po’ male, perché stava cercando di farla passare come una sua idea.
Hai suonato anche con Ted Harvey e Brewer Phillips, la band di Hound Dog Taylor.
E’ stato il mio primo ingaggio pagato. Mi davano dieci dollari a sera, credo, e suonavamo al Sweet Pea’s tra la quarantasettesima e Ingleside. La cosa andò avanti per circa un anno. Nel locale ero l’unico bianco e una volta un tale voleva attaccar briga per questo, ma tutti gli altri presero le mie difese e lo buttarono fuori. Ero alle prime armi, mi sono comprato in quel periodo la prima chitarra, una CE 100 Guild del 1954, che ho ancora oggi. Left Hand Frank e Pocket Watch Paul si univano a noi di tanto in tanto, una volta tentarono di liberarsi di me convincendomi ad andare a suonare con un altro, ma poco dopo mi ripresentai al club come se nulla fosse. Poi Brewer venne ferito alla gola da una coltellata da parte di sua moglie, mi ricordo che andai a trovarlo in ospedale e gli portai una copia di Living Blues! Lui sopravvisse e stranamente anche il loro matrimonio, Suzie e Brewer rimasero insieme fino alla fine. Poco dopo incontrai Brewer a Irving Park nel North Side, mi ingaggiò per suonare perché si era rotto la mano colpendo in testa uno che tentava di rapinarlo! Quanto a Ted Harvey, lui divenne il primo batterista della mia band, Dave Weld & The Imperial Flames, nel 1988. Era un grande batterista e un bravo tipo. Un paio di volte arrivò ubriaco, ma non è mai stato un problema. Mi piaceva, e ci dava dentro da matti.
Nel 1976, apparve su Living Blues una tua intervista con J.B. Hutto, come vi eravate conosciuti?
Ci eravamo conosciuti al Wise Fools Pub sulla Lincoln e fu gentilissimo sin da quel momento. Ero con la mia ragazza Lee Ann e amavamo molto la musica di J.B. Aveva Bombay Carter al basso, Lee Jackson alla chitarra e non ricordo se alla batteria ci fosse Frank Kirk o no. Frank aveva registrato con lui per la Testament ed era piuttosto noto per aver suonato con Bo Diddley. Quella sera mi diede il suo numero e mi disse che potevo chiamarlo senza problemi. Parlai con Jim e Amy O’Neal, i fondatori di Living Blues e loro si dissero molto interessati a pubblicare una intervista con J.B.
L’amicizia che stabilisti con lui ha avuto una grande rilevanza per la tua vita e carriera.
Assolutamente! Andavo a casa sua ad Harvey, Illinois, ogni martedì per anni e suonavamo. Ogni tanto mi portava in città in qualche club a ‘duellare’ al Theresa’s o appunto al 1815 o una volta a tirare fuori di galera suo nipote. J.B. soffriva di diabete, mi ricordo che una volta lo arrestarono per guida in stato di ebbrezza, ma non era ubriaco erano gli effetti della malattia. Mi insegnò come comportarmi nei club neri, prendeva le mie difese e mi teneva d’occhio. Andavo d’accordo anche con sua moglie Lulu Bell e suo figlio Mike. E’ sempre stato onesto, mi ha insegnato a suonare la seconda chitarra, insieme a lui, poi a fare parti soliste e mi faceva notare sempre quando sbagliavo. Stessa cosa per lo scrivere, mi diceva «scrivi canzoni da adulto» e «devi ribaltare la tua anima per scrivere un buon blues». Mi ha insegnato a gestire e guidare i musicisti della band. Mi ha presentato Lil’ Ed e Pookie e così quando lui si è trasferito a Boston abbiamo formato i Blues Imperials. All’inizio pensavo che sarei stato io il leader, ma Ed era naturalmente dotato per quel ruolo e lo accettai, e mi chiese se potevamo chiamare il gruppo Lil’ Ed & The Blues Imperials. Gli dissi che la cosa mi stava bene. Per circa dieci anni abbiamo messo a ferro e fuoco il West Side suonando per sette o dieci dollari a sera. Questo fino a quando non ho trovato un ingaggio nel North Side e allora sono arrivati i soldi…25 dollari a testa! Cento per l’intera band.
Però ad un certo punto le vostre strade si sono divise, come mai?
Volevo dedicarmi alla mia musica, scrivere, cantare e suonare la chitarra solista. Sviluppare di più un mio stile. Ogni tanto, non spesso, saltavo qualche concerto preferendo stare a casa ad esercitarmi o a finire un pezzo; questo comunque mi fece capire che avevo davvero il desiderio di concentrarmi sulle mie cose. Ma c’erano altre ragioni, avevo anche un lavoro da Sears, mi avevano da poco aumentato lo stipendio e avevo un mutuo da pagare. La band aveva iniziato a viaggiare parecchio, ma Ed beveva un po’ troppo e la cosa poteva diventare un problema. Ma in realtà con Ed siamo sempre rimasti amici, anche quando ha licenziato Louie; decidemmo insieme che avrei usato la parola Imperial per la mia band, dato che avevo contribuito per tanto tempo ai Blues Imperials, potevo legittimamente portare avanti quell’eredità, perciò siamo diventati Dave Weld & Imperial Flames.
Anni dopo tu e Lil Ed incideste un bel disco per la Earwig.
Ed aveva lasciato o era stato licenziato dall’Alligator, e venne a suonare con la mia band per un po’. Ci è sempre piaciuto sederci a suonare insieme, per il puro piacere di farlo, e così abbiamo ripreso a farlo e a scrivere canzoni, lui veniva a casa mia o viceversa. Ad un certo punto suonammo i pezzi per la band e cominciammo a metterli in repertorio. Decidemmo che ci serviva un CD, anche per ottenere più lavoro, suonavo più che altro a livello locale o dovunque Jay Rail ci procurasse un ingaggio. Sapevamo che quelle canzoni erano buone e meritavano di essere ascoltate. Presi contatto con John Stedman in Inghilterra, il quale era interessato a produrci, ma poi parlai con Mike Frank della Earwig e siccome accettò subito ed era di Chicago, ci accordammo con lui. Registrammo agli studi ACME, sulla Belmont, con Blaze Barton come ingegnere del suono; ci divertimmo molto, facemmo in pratica come sul palco, ma in studio. Dopo la prima session però, lo studio venne rapinato. Qualcuno aveva lasciato una cassaforte aperta e c’era sempre un gran viavai anche di notte. Fatto sta che Mike mi chiamò il giorno dopo e quasi dovette cancellare la session seguente, persero almeno milleduecento dollari e il CD era a rischio. Per fortuna Mike tenne duro e potemmo completare il lavoro. Quel CD ci ha portato in giro per il mondo.
Quanto è cambiata Chicago e il blues con esso in questi anni? C’è qualche giovane promettente che ti ha colpito?
Ci sono sempre meno concerti blues, ogni tanto spunta qualche nuovo locale, che chiude dopo un po’ oppure resiste. Nel South e West Side un tempo c’erano molti più club, con musicisti che si trovavano a suonare per divertimento, anche il pubblico purtroppo si è un po’ perso. Ma appunto ogni tanto qualcosa si muove. Mi mancano i giorni in cui si andava suonando di locale in locale, aperti tutte le sere, nel South o West Side per un pubblico in grande maggioranza afroamericano. Incredibile essere parte di quella scena, un fenomeno culturale, vedere come i neri sono venuti su dal Sud in cerca di lavoro, portando cultura, musica e cibo. Hanno portato forza e resistenza e speranza, e da loro ho imparato a cercare il meglio in ogni situazione e a guardare in alto. Ci sono sempre musicisti che si affacciano sulla scena, i migliori sono quelli che hanno imparato dai vecchi. Mi piace Greg Guy, figlio di Buddy, altrimenti non gli avrei chiesto di suonare nel nostro nuovo CD. Avevamo suonato insieme al club di Buddy e ad un festival, è un tipo tranquillo col quale ci siamo trovati bene, lo abbiamo invitato a suonare in un pezzo che non conosceva, perché convinti che potesse fare un bel lavoro. E lo ha fatto.
Che rapporto hai con Bob Koester?
Ci conosciamo da oltre trent’anni, da quando il Jazz Record Mart era su Grand Avenue a Chicago. Sono quasi finito su Delmark quando ho prodotto il mio Rough Rockin’ In Chicago agli Streetville Studios, ma alla fine l’ho pubblicato sulla etichetta belga Parsifal. A Bob piaceva ma aveva bisogno di un musicista che teneva più concerti, in modo da vendere dischi. Cosa che ho fatto e che mi ha consentito di tenere insieme la band e farmi conoscere. Mi ci sono dedicato a tempo pieno, occupandomi di tutto in prima persona, dalla gestione degli ingaggi allo scaricare il furgone prima dei concerti. Ho dovuto rallentare per prendermi cura di mia madre, che si è ammalata. Monica mi ha aiutato molto negli ultimi quattro o cinque anni, siamo infermieri provetti ormai. E’ successo sovente che mi abbiano chiamato per dirmi che avevano dovuto portare mia madre in ospedale, perciò finito il concerto ci precipitavamo al pronto soccorso alle quattro di mattina e aspettavamo fino alle nove che si liberasse un letto per lei. Assicuratici che aveva tutte le cure necessarie, ci alternavamo con Monica in modo che ci fosse sempre qualcuno con lei. Quando mia madre è uscita dall’ospedale ha avuto bisogno di lunghe cure speciali, di cui ci siamo occupati ancora noi. E’ stato il mio modo per dimostrare a Monica che sono una brava persona, e lei si è convinta. Un giorno ero con Monica e mia madre in un locale e stavamo facendo colazione, io stavo tagliando il cibo di mia madre e chiedendole se aveva bisogno di qualcosa. Pensavo tra me che il tizio dietro di noi di sicuro si stava chiedendo se sono del tutto a posto o che forse esageravo nel prendermi cura di lei. Quando abbiamo finito di mangiare, mi sono girato e ho scoperto che il tale seduto dietro di noi era proprio Bob Koester. Mi disse che era impressionato da come riuscivo a continuare a lavorare, ogni settimana, e al tempo stesso dedicarmi a mia madre, mi disse qualcosa del tipo «con tutto quel lavoro ecco come si diventa bravi!» Non molto tempo dopo ottenni un provino alla Delmark per un eventuale contratto. Andammo in studio e suonammo i nostri pezzi, a loro piacquero e quindi ottenemmo il contratto. Il CD è andato bene e quando è arrivato il momento di pensare al secondo, ci abbiamo lavorato ancora di più, per avere materiale di prim’ordine. La mia idea infatti è di scrivere cose nostre, perché avere una band se non fai cose originali? Slip Into A Dream è il disco che avevo in serbo da una vita e lo devo a Koester. Abbiamo anche suonato alla festa dei suoi ottant’anni e allora mi disse che avrebbe voluto quei pezzi sull’album. Ci abbiamo messo tre anni a provare, anche dal vivo, il materiale del disco, un lavoro lungo e faticoso. Abbiamo suonato per quanto più possibile, altrimenti tenere insieme il gruppo sarebbe stato difficile. Anche a casa abbiamo avuto alcuni problemi, una battaglia legale per l’affidamento di nostro nipote. Un ragazzino straordinario, che quando guidiamo dice «Pà, suona un po’ di blues!». Bob quando siamo andati in studio ha dato istruzioni a Steve Wagner affinché ci desse tutto il tempo di finire il nostro progetto, ha creduto in noi, e questo non lo dimenticherò.
Come lavori in fase di scrittura? Molti brani sono collaborazioni con la tua compagna, Monica Myhre.
Questo disco è nato vent’anni fa. Alcune idee o ritmi risalgono davvero indietro nel tempo, altri sono nuovi, difficile distinguerli. Dato che ho cominciato come secondo chitarrista, ci sono alcuni passaggi ritmici che tengo a mente. Cerco di trovare dei versi per comunicare al pubblico quello che ho in testa; Monica mi dà una mano coi testi, in modo che siano coerenti e adatte alla struttura melodica del brano. Ci ispiriamo sempre alla vita quotidiana, Slip Into A Dream è venuta fuori così, da un groove e da un accordo di Do minore. Un giorno stavo guidando e ripensavamo alle nostre domeniche, a casa a riposare sul divano, dopo il concerto della sera precedente. Per questo ci è venuto in mente come titolo Lazy Day, tanto che tra noi la chiamo ancora così, solo che poi mi in qualche modo è arrivato il verso “Slip into a dream, after loving you”, che era perfetto per armonizzare a tre voci con Jeff Taylor e Monica. Abbiamo passato un intero pomeriggio per trovare un turnaround, lo ha fatto Monica cantando ed io ho trovato gli accordi adatti, che producono un effetto drammatico: Re+, Re, Sol+, Sol. Stesso processo con Take Me Back, siamo partiti da un groove che al pubblico piaceva e lo abbiamo sviluppato da lì. In studio abbiamo capito che avrebbe funzionato meglio una sezione fiati, rispetto ad un controcanto, ho trovato The Heard su youtube e poi è venuto fuori che Steve Wagner li conosceva, una vera fortuna! In studio loro hanno capito subito come suonare, dopo averci sentito cantare. Sweet Rockin’ Soul risale a vent’anni fa, poi mi sono messo a suonarla in salotto per Max, nostro nipote, utilizzando le parole di una canzone per bambini che gli cantiamo spesso e fa “I like Max, he’s a friend of mine”. Però non funzionava a tempo di rock’n’roll, così mi sono messo a cantare semplicemente “I Like you” e lui si è messo a ballare. La canzone ha preso vita e le parole si sono scritte quasi da sole, ho trovato la linea di basso, il ponte e l’armonica con Tell Me Why, grazie a Monica, con qualche aggiunta conclusiva per avere maggior varietà (alternando ‘I like you’ a ‘I want you’). Anche Tremble è un vecchio pezzo per il quale ho scritto un nuovo testo, mi è venuto in mente una notte, una storia di alcolismo e follia nei bassifondi. Maybe Right, Maybe Wrong, addirittura a venticinque anni fa, l’abbiamo riarrangiata, con nuove parole e la parte di Monica è grande, per essa ci siamo ispirati alla cantante di Ray Charles su The Night Time Is The Right Time (Margie Hendricks n.d.t.). Looking For A Man e Sweet Love sono groove recenti, Louise è nuova ma suonata vecchio stile. Insomma ce l’abbiamo messa tutta per fare di questo il nostro disco migliore.
E’ complicato essere sé stessi e al contempo fedeli alla tradizione?
Niente affatto. Resto me stesso perché è l’unica possibilità che ho. Quando suono uno shuffle alla Jimmy Reed, lo faccio perché non posso farne a meno, li adoro davvero. Quando suono Take Me Back, è un groove che sento pienamente mio. Suono molto blues tradizionale e cerco di metterci del feeling, perciò quando mi viene un’idea che si discosta un po’ dalle dodici battute classiche, non mi preoccupo, perché poi mi accorgo che non mi sono allontanato molto. Mio fratello mi diceva sempre: «non temere di essere diverso, sai come puoi essere diverso? Diventando migliore!» Dunque cerco di suonare al meglio e lasciare che il mio stile parli per me. Potrò non piacere a tutti, ma la gente si accorge se sei sincero e ci metti passione, per comunicare l’essenza della tua creatività. J.B. Hutto mi disse che il blues ci sarebbe stato sempre, fino alla fine della terra. Mi piacerebbe venire in Italia, siamo già stati in Norvegia, Inghilterra, Canada, Giappone e in diversi festival americani.
Come vedi il futuro del blues? In che modo lo si può supportare, perché continui a crescere?
Beh, il blues è in primo luogo una forma d’arte, bisogna pensare a questo aspetto della musica. Questa è l’età dell’informazione, si può sapere tutto e anche riguardo al blues basta un click. Ma come lo si presenta? Pensiamo ad esempio a Honeyboy Edwards, che ha suonato con Robert Johnson e saltava sui treni merci, girovagando in lungo e in largo. Il tipico bluesman è l’essenza dell’indipendenza, ancora oggi. Non credo ci si aspetti che un musicista di blues si unisca ad una cover band dei Pink Floyd o dei Led Zeppelin per fare quattro soldi e poi si dimentichi del blues. Certo ci si può aspettare che suoni nel suo set qualche cover, magari di Hendrix o degli Stones, per un pubblico che non necessariamente conosce Jimmy Reed o Big Maceo. Di sicuro vedendo la band dare il massimo, qualcuno penserà «hey non sapevo che il blues fosse questo, mi piace» oppure, «di solito il blues non mi piace, ma questa roba non è male». In generale, ci vogliono nuove idee che esplorino altre direzioni, ma con un piede ben piantato nella tradizione. Quando B.B. King incise The Thrill Is Gone, il produttore aggiunse gli archi e di certo era una cosa nuova, ma era il momento giusto e la cosa funzionò, il pezzo divenne un enorme successo crossover e finì in vetta alle classifiche di Billboard. Tutti conoscono quel pezzo.
Bob Koester mi ha parlato di quel che è successo al jazz tradizionale, si è fossilizzato perchè la gente non voleva ascoltare altro che When The Saints Go Marching In, i musicisti hanno continuato a suonare solo quella e altri standard senza cercare di allargare il genere, che si è quasi estinto a parte pochi appassionati o band che suonano in quello stile. Quando è uscito il film The Blues Brothers, nonostante ci fosse una componente commerciale, ha contribuito a far sì che in molte città ci fossero blues bar, in cui gente come me poteva lavorare. Lo stesso dopo il successo di Stevie Ray Vaughan, che suonava blues e Jimi Hendrix, ha aperto porte anche a tanti musicisti blues. Sta tutto nell’avere una finestra sul mainstream, si tratta dello stesso processo che Ike Turner con Rocket 88 o Chuck Berry poco dopo, hanno originato, facendo scoprire quella musica all’America bianca. E’ la strada più difficile, ma se ci penso, noi artisti blues non dobbiamo preoccuparci di paradisi fiscali o del nostro yacht. Perché non dovremmo scrivere materiale originale? Cercare nuovi ritmi, sequenze di accordi, melodie, senza riciclare i giri classici. D’altra parte per quanto possiamo andare avanti a suonare solo Sweet Home Chicago, Mustang Sally o Got My Mojo Working (buone canzoni che, per carità, suono anch’io ogni tanto)? Mi piace pensare che la chiave sia questa, appunto, guardare avanti ma tenere presente la tradizione. Per finire ringrazio ogni appassionato di blues, per aver grande gusto, in fatto di cultura!
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 134, 2016