Nei dieci anni, dal 1965 al 1975, che disintegrarono l’identità americana, artisti e pubblico che si riconoscevano nel rock’n’roll si esposero, si confrontarono e produssero una moltitudine di canzoni inerenti al conflitto vietnamita e ai suoi effetti. Essendo ormai diventato materia per testi scolastici e tesi universitari, il ruolo della musica in quel drammatico frangente storico è assodato e indiscutibile. Lo è rimasto anche dopo, nel raccontare ferite che non si rimarginano come cantava Bruce Springsteen in Born In The U.S.A. (e mai canzone fu più controversa, anche se bisogna ricordare che, prima di diventare quel roboante inno che conosciamo, nella sua versione originale era una sorta di scarnissimo blues il cui working title era proprio Vietnam). Va da sé che i bluesmen non furono esenti dal contagio e dalle condizioni generate dalle cronache quotidiane di una nazione belligerante, prima di tutto con se stessa. L’approccio rispetto alle reazioni esplicite e schierate, fu diverso, un po’ più obliquo, un po’ più personale e questo soprattutto perché l’evoluzione della guerra per gli afroamericani è stata ambivalente. Lo specificava con una certa precisione Wallace Terry in La faccia nera del Vietnam (Piemme): «Negli ultimi anni di presenza americana in Vietnam, neri e bianchi combatterono per sopravvivere a una guerra che sapevano che non avrebbe potuto essere vinta in senso convenzionale. E, spesso, lottarono gli uni contro gli altri. Il conflitto, che divise l’America come non accadeva ai tempi della guerra civile, si trasformò in un doppio campo di battaglia in cui soldati americani si scontravano contro altri soldati americani».
La prima linea è stata l’occasione per l’integrazione perché i combattimenti non fanno sconti, ma la moltitudine di ‘fratelli’ rastrellati dalla coscrizione obbligatoria e spediti nel fango, nascondeva a sua volta, e ancora, un’altra un’ambigua forma di segregazione. Come è naturale, ognuno ha trovato il suo modo di percepire e di comunicare l’emozione, il dolore, la tristezza, il disorientamento. Il più profondo e immediato è stato il Vietnam Blues di J. B. Lenoir non solo perché è stato ripreso spesso e volentieri fino alla recente e raffinata interpretazione di Cassandra Wilson. Intanto, J. B. Lenoir era recidivo. Una prima testimonianza, chiamata Vietnam era in realtà un adattamento di Korea Blues: non per questo trascurabile, visto che J. B. Lenoir è stato uno dei pochi a commentare quel conflitto irrisolto e dimenticato da tutti, e non c’è dubbio che la sua definizione sia stata la più efficace. Vietnam Blues andava oltre: l’incipit resta un punto di svolta nella consapevolezza che la guerra in Vietnam e le condizioni in patria non erano poi così slegate, anzi: «Vietnam, Vietnam, piangono tutti per il Vietnam, ma il governo mi uccide tutti i giorni qui nel Mississippi e a nessuno gliene importa niente». Il Vietnam Blues andava un po’ più in là perché come scriveva James E. Perrone in Music Of The Counterculture Era, J. B. Lenoir raggruppava in una sola canzone due istanze, la lotta alla discriminazione razziale e la contrarietà all’intervento americano in Vietnam, anticipando la naturale tendenza che da lì in poi seguiranno più o meno tutti. Del resto, il finale di Vietnam Blues non è da meno dell’inizio, anzi, e si rivelerà profetico quell’invito al presidente a pulire la casa quando verrà il momento di andarsene.
Il caso e la storia vorranno che J. B. Lenoir vedesse giusto nel momento sbagliato: si stava rivolgendo al presidente Lyndon Johnson, poi fu Richard Nixon a dovere lasciare la casa più importante d’America, dopo averla inondata di spazzatura. La contiguità tra le deformazioni del potere costituito e l’esperienza continua della guerra sono richiamate più spesso dai bluesmen, come se sapessero leggere i fili invisibili che legano i conflitti tutti interni, quelli legati ai diritti civili (primo tra tutti il diritto a vivere in pace) e quelli legati alla protesta pacifista e antimilitarista. Come se il blues offrisse un canale diretto, incensurato, incontrollabile per rivolgersi ai ‘masters of war’. Lo farà senza esitazioni Lightnin’ Hopkins prima con Please Settle In Viet Nam e poi con Billy Bizor all’armonica in Vietnam War, anche lui rivolgendosi direttamente al presidente in prima persona. Lo farà Big Joe Williams manifestando la paura, non del tutto illogica, che in Vietnam si arrivasse a usare un’arma atomica, come peraltro all’epoca caldeggiava Strom Thurmond, senatore repubblicano del Texas. Registrato nel 1969 da Chris Strachwitz, fondatore e deus ex machina dell’Arhoolie, con Charlie Musselwhite all’armonica, Army Man In Vietnam ricollega le due dimensioni, quella della protesta pubblica e della sofferenza privata che già Junior Wells aveva affrontato in Vietcong Blues nel 1966. Qui c’è un grande chitarrista e si tratta di Buddy Guy, che compie dei veri e propri salti mortali per supportare le sue parole. Piccola parentesi chitarristica: è bene ricordare anche T-Bone Walker particolarmente ispirato nella sua visione del Vietnam Blues, nonché Freddie King nella sua rivisitazione di Yonder Hall, una canzone della seconda guerra mondiale riadattata allo scopo.
In sé, Vietcong Blues sembra un’elaborazione, con più dettagli, con più immagini, con più suggestioni del Vietnam Blues di J. B. Lenoir, come se su quella scheletrica, grezza ed essenziale impalcatura, Junior Wells avesse ricostruito tutta un’altra storia. Con più precisione. Se l’inizio è tradizionale che più non si può («I woke up early this mornin’ I was feelin’ kind of blue», e davvero non serve la traduzione), poi la canzone si evolve assumendo i tratti di una short story. Una lettera dice che il fratello è laggiù in Vietnam e tutti sanno che non aveva alcuna ragione per combattere, ma ha fatto quello che doveva fare. Andava così, ma, a casa, non c’è da mangiare, non ci sono i soldi per comprarsi i vestiti e chi canta i blues, li canta per le madri, le mogli, i padri che hanno i figli in Vietnam perché il paese dovrebbe rispettarli, e dovrebbe avere un po’ più di rispetto per se stesso. La tensione è tale che Junior Wells chiede persino perdono perché sta andando fuori di testa nel tentativo di comprendere la confusione tra vittime e carnefici. Non è l’unico ad avere avuto quella sensazione, esprimendola così come vuole un blues, con la percezione di qualcosa di sbagliato, ma senza averne compreso l’ingovernabile realtà. L’analisi più approfondita, ma coincidente nella composizione finale, è quella di Norman Mailer che in Le armate della notte (Baldini&Castoldi) «era arrivato a pensare che forse la pazzia era al centro dell’America. Il paese aveva vissuto in una schizofrenia controllata, anche ferocemente controllata, che era andata aggravandosi col passare degli anni. E forse il punto di rottura era stato superato. Ogni uomo o donna che fosse devotamente cristiano e lavorasse per l’azienda americana, era prigioniero di una morsa invisibile la cui pressione poteva scindere la sua mente dalla sua anima».
Sarà Memphis Slim a raccontare con Chicago Seven la sua interpretazione delle «armate della notte», quindi gli scontri dell’agosto 1968 a Chicago, e poi gli studenti uccisi in Ohio e nel Mississippi durante le proteste del 1970 con la guerra che ormai ha contagiato Laos e Cambogia e i sogni della repubblica trasformandoli nei peggiori degli incubi. Il motivo per cui venne persa la guerra al fronte, nonostante il dispiegamento di uomini, armi, mezzi e risorse, è lo stesso per cui un’intera nazione crollò. Il campo da battaglia era ovunque, nemico o alleato erano parole senza senso, restavano soltanto la distruzione e il blues, con la sua semplicità, tornava a dire niente meno che la verità. Quando Robert Pete Williams nel suo Vietnam Blues dice «non mi piace questa guerra che chiamano Vietnam» è proprio il 1970 e interpreta alla perfezione quella variazione linguistica che ha portato a identificare il Vietnam come sinonimo universale di sconfitta. Resta la malinconia individuale. Johnny Shines in So Cold In Vietnam offriva già nel 1966 un ruvido punto di vista emotivo, prendendo le parti di un soldato che ha spedito l’anello di fidanzamento alla sua ragazza e rimane in attesa di vederla, un gesto che racchiude due elementi non solubili, speranza e angoscia, nell’ennesima contraddizione. Non c’era alternativa, come scriveva Tim O’ Brien in “Mettimi in un sacco e spediscimi a casa” (Piemme): «Cazzo, amico il segreto per resistere in Vietnam è andare via dal Vietnam. E non parlo di andare via in un sacco di plastica. Parlo di andare via vivo, così come lo sento quando la mia ragazza mi abbraccia».
Lo slang dello scrittore americano (che poi darà forma alla sua fuga nel capolavoro di Inseguendo Cacciato, Feltrinelli) è cruda e rauca quanto John Lee Hooker quando riadatta Rollin’ And Tumblin’ nel 1969 e la trasforma in I Gotta Go To Vietnam. Sarà più esplicito con I Don’t Want Go To Vietnam dove è palese il richiamo a tutti i guai che ci sono a casa, senza doversi imbarcare in folli e disastrose avventure belliche. L’ultimo Vietnam Blues è quello di Champion Jack Dupree inciso nel 1971 e pubblicato negli Stati Uniti nel 1974, appena un anno prima dalla caduta di Saigon e dalla fine della guerra. Champion Jack Dupree, tra l’altro con una grande performance musicale, fa uno sforzo ulteriore nel comprendere che quello definito come un nemico avrà come tutti una casa, una famiglia, gli stessi problemi a partire dal fatto che ci sarà, anche dall’altra parte, una madre che sta aspettando il ritorno del figlio. Siamo ancora a quel punto. La voce di Irma Thomas accompagnata da Ronnie Earl in New Vietnam Blues è un lamento spiritato e dignitoso, soltanto che nessuno, quando incisero la canzone, pensava che invece di aprire una porta sul passato, spalancava, nel tragico autunno del 2001, un altro secolo di guerra e così come direbbe Tim O’Brien «eccoci qui, proiettati verso l’opposto e l’assurdo antipodo di ciò che riteniamo giusto» ed è dove siamo noi, dove il Vietnam è diventato lo spietato blues dell’America.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 134, 2016