Nel settembre 1980 a Milano, al Palatenda di Lampugnano, era in programma il concerto di Mike Bloomfield, uno dei miei grandi miti del Blues sin dalla metà degli anni Sessanta, quando era uno dei componenti della più grande blues band bianca di Chicago: la Paul Butterfield Blues Band.
Il sound di quella formazione fu quello che influenzò i miei primi passi sulla strada del Blues, ed il carisma e la passione del grande armonicista Paul Butterfield furono determinanti per le mie scelte artistico/musicali agli inizi dei miei favolosi Seventies.
Di tutto ciò parlai con Bloomfield quando mi fu presentato, in una pausa del sound-check pomeridiano, dall’amico Claudio Trotta, organizzatore della serata e anch’egli grande appassionato ed intenditore della musica origine.
Nacque subito un feeling immediato. I nostri sguardi si intrecciarono spesso in quel tardo pomeriggio di settembre: ero di fronte ad un mio grande mito musicale, che era considerato dalla grande comunità musicale d’oltreoceano «il chitarrista bianco più nero» che il Blues potesse presentare.
Bloomfield fu di una gentilezza squisita nei miei confronti e mi chiese, dopo una buona mezz’ora di chiacchere, se avevo con me l’armonica per verificare il mio livello musicale.
Come un allievo un po’ intimorito, alla sua prima importante performance di fronte ad un maestro di musica, salii sul palco e mi posizionai davanti al microfono. Stranamente Mike si sedette al pianoforte a coda e, dopo avermi dato la tonalità del brano, partì con un trascinante boogie in Sol maggiore. Dopo poche battute si fermò, si alzò dal seggiolino, arrivò verso di me e mi abbracciò.
A me venne da piangere: a 31 anni, dopo aver registrato 3 vinili e partecipato ad importanti rassegne di Blues, mi resi conto che tutto quello che avevo fatto sino ad allora stava passando in second’ordine. La cosa più bella, l’emozione più forte la stavo vivendo lì in quel momento.
Il musicista che aveva conosciuto le grandi leggende del Blues nero, il chitarrista ammirato da Buddy Guy ed Hendrix, il chitarrista di uno dei più bei dischi di sempre, Supersession, mi aveva abbracciato e mi aveva accettato.
Mike disse che gli era piaciuto il mio stile, e mi assicurò che mi avrebbe chiamato sul palco la sera stessa.
Dopo tanti anni a volte ancora riascolto la rarissima registrazione del concerto serale e rivedo la cassetta video che gelosamente conservo tra i miei ricordi più belli: c’è un momento in cui Mike è commosso, e sembra essere tornato il Bloomfield che avevo conosciuto attraverso i suoi bellissimi dischi.
Quella sera, con me all’armonica, suonò solo il pianoforte.
Entusiasta del risultato, decise con Claudio Trotta di registrare pochi giorni dopo, a Torino, un live (elettrico) accompagnato dalla Treves Blues Band. Anche in quell’occasione si dimostrò paziente, generoso e sensibile: era felice, sembrava aver lasciato alle spalle tutti i problemi personali legati alla sua dipendenza di alcool e droga.
Pochi mesi dopo la terribile notizia della sua improvvisa scomparsa.
Ho mantenuto i rapporti con la sua famiglia e sono orgoglioso di aver potuto inserire, con la loro entusiasta autorizzazione, un brano di quella serata milanese in un album dal titolo assai significativo Bluesfriends.
Perchè da sempre, per me, lui è stato un vero amico, nel nome del BLUES.
Fabio Treves, fonte Il Blues n. 126, 2014