“Ho sempre sentito parlare dell’Italia e di Milano, mi piacerebbe venire a suonare da voi” esclama Kara Grainger, una volta appresa la provenienza nostra e della rivista. La cantante e chitarrista australiana ci aveva favorevolmente impressionato durante il concerto, di conseguenza la scelta di conoscerla meglio. Quanto segue quindi, è frutto anche del desiderio di fornire una spinta ad un panorama non sempre prodigo di volti nuovi, e per giunta femminili, da cui Kara potrebbe affrancarsi per ritagliarsi uno spazio tutto sommato personale.
Potresti presentarti ai lettori?
Sono nata a Sidney, in Australia, ma sono cresciuta in una cittadina più piccola, dove c’era molta musica, blues soprattutto e una comunità molto unita. Mio fratello maggiore suona chitarra e armonica ed è stato senza dubbio una delle mie prime influenze; è un bravissimo armonicista, sa suonare nello stile di Jimmy Reed e Sonny Boy Williamson. Avevamo una band insieme, con la quale abbiamo suonato sulla costa est australiana, anche all’East Coast Blues & Roots Festival. Alla gente piacevamo perché eravamo appena usciti dalle superiori, e a diciannove anni suonavamo blues. Rimanevano spiazzati perché non si aspettavano da ragazzi giovani suonare blues così. Non so spiegare la mia attrazione per il blues e in generale la musica del Sud degli Stati Uniti.
Qual era il nome della band?
Papa Lips, e abbiamo suonato parecchi concerti. La prima volta che sono salita su un palco avevo solo dodici anni, anche se allora suonavo musica folk, ispirata da Joni Mitchell, Joan Baez e Maria Muldaur. Grandi cantanti e autrici. Poi a quindici o sedici anni, scoprii musicisti come Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan e artisti come Etta James, Irma Thomas, Neville Brothers. Un percorso di ricerca anche verso la musica soul, in quanto mi piacevano quelle voci piene e dense di emozioni.
Quando hai cominciato a scrivere pezzi tuoi?
Più o meno a sedici anni. Ci sono stati periodi in cui ho fatto più fatica a comporre e altri in cui tutto viene più facile. Sono il tipo di persona che deve avere una scadenza, un piano, se ad esempio devo andare in studio da qui a un mese, allora mi metto a scrivere in fretta e di solito, sorprendentemente, funziona bene. Nella set-list inserisco sempre qualche cover di alcuni dei miei artisti preferiti, come Albert King e Robert Johnson. Al momento la percentuale di originali è circa del 70%, ma credo che sia destinata ad aumentare.
Pensi che sia importante per un artista aggiornare il proprio repertorio? Crediamo anche il pubblico sia stanco di ascoltare l’ennesima Got My Mojo Working.
Si, per l’artista e anche per il pubblico. Il blues inoltre è diventato più aperto, non ha solo la classica struttura a dodici battute e tre accordi, si è contaminato con funk, folk, roots, incorporando armonie vocali…è sicuramente una categoria più ampia oggi, inclusiva di qualunque cosa abbia cuore, anima, feeling. E’ una musica molto espressiva, non intellettuale.
Ci sono altre influenze sulla tua musica, al di fuori del blues?
Beh, ce ne sono molti, mi piace molto Ryan Adams, scrive grandi canzoni, suoni autentici e riesce a veicolare le sue emozioni in un modo che vorrei incorporare nella mia musica, sebbene io le combinerei con un approccio più blues.
Quando componi ti ispiri a qualcosa che succede nella tua vita o a persone che conosci?
A volte a qualcosa che mi è successo. Ma spesso non so subito di cosa parlo, parto da una sensazione e la cosa acquista senso solo quando lo trascrivo, è un processo personale. Le parole sono un mezzo per esprimere quello che sento, per comprendere le mie emozioni.
Vivi in America o in Australia?
A Los Angeles, anche se ho l’Australia nel cuore. L.A. è un posto ideale per vivere, ci sono moltissimi musicisti, certo c’è l’industria del cinema, ma ci vivono molti creativi, artisti, si respira una bella energia.
Abbiamo apprezzato i pezzi all’acustica slide e la parsimonia nell’uso di effetti sull’elettrica.
Cerco di limitare effetti e pedali. Per l’acustica sono contenta che vi sia piaciuto, è un approccio più grezzo e diretto, non di tecnica ma di emozioni. E’ per questo che il blues accomuna persone da parti diverse del mondo, che magari nonostante le barriere linguistiche, rispondono allo stesso modo al linguaggio delle emozioni.
Se pensi ad una grande blueswoman del passato, quel è il primo nome che ti viene in mente?
Direi Memphis Minnie, era così dotata e avanti rispetto ai suoi tempi. Poi amo molto Irma Thomas, Etta James, Mavis Staples. Quando sento la sua versione di Since I Fell For You ho ancora i brividi, è una delle interpretazioni più belle di quel pezzo.
Cosa pensi di Bonnie Raitt?
Mi piace, ovviamente, anche se l’ho scoperta un po’ più tardi, quando già suonavo. Sento che abbiamo gusti simili, come se avessimo ascoltato le stesse cose e questo sia filtrato nelle rispettive musiche. Lei è una musicista fenomenale.
C’è qualcuno con cui vorresti collaborare in futuro?
Sicuro. Ho aperto i concerti di Taj Mahal, Jonny Lang, Peter Frampton…Con Taj c’era l’idea di fare qualcosa, sarebbe bello. Mi piacerebbe lavorare con Mike Zito, qualcuno dei Meters o dei Neville Brothers, Bonnie Raitt. Il suo bassista Hutch Hutchinson ha suonato su alcuni dei miei brani.
Ti piace il southern rock?
Si come avete sentito ho fatto un pezzo degli Allman Brothers (Whipping Post n.d.t.) stasera, che è molto divertente da suonare. C’è una parte della mia musica che tende verso quella tradizione, non con un gruppo particolare di riferimento, ma direi più per l’energia e il suono. Un’altra è invece diretta verso cose più rilassate e soulful, senza dimenticare l’acustico. Cerco di tenere insieme diversi elementi, mi piace avere più varietà possibile, se fossi nel pubblico è una cosa che apprezzerei.
Conosci altre artiste, già note dalle nostre parti, che si muovono su terreni simili come la tua conterranea Fiona Boyes e Susan Tedeschi?
Certo, spero di poter suonare più spesso in Europa come loro. Ho un agente che si occupa di organizzare le tournèe, più in America in verità; anche il marito di Ana Popovic ogni tanto mi procura dei concerti.
(Intervista realizzata a Lucerna, Svizzera il 15 novembre 20014 – traduzione di Matteo Bossi)
Silvano Brambilla e Marino Grandi, fonte Il Blues n. 130, 2015