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“Mi sto preparando per andare in tour” ci dice subito JJ Grey “saremo in Europa, Australia e poi di nuovo in America”. Siamo alla vigilia della pubblicazione del nuovo CD, Ol’ Glory, il primo per la nuova etichetta Mascot/Provogue, nel segno della continuità comunque per l’artista della Florida settentrionale (vive nei pressi di Jacksonville), si affida come sempre al produttore Dan Prothero ai Retrophonic Studios, nella vicina St. Augustine.

Come funziona per te il processo di composizione di un nuovo album?
Beh il tempo passa, la vita va avanti e per così dire mi vengono fuori delle nuove canzoni. A quel punto cerco di ricordarle, trascriverle e di solito incido da solo un demo nel mio studio casalingo. Quando mi sembra di averne abbastanza, passo dei CD coi miei demo ai ragazzi della band e in studio ci lavoriamo sopra, e dico loro più o meno come fa il pezzo, la sequenza di accordi o il tempo per il batterista, ma senza che siano vincolati ad imparare una parte precisa, voglio che ognuno senta il brano e ci entri a modo suo. Per la mia esperienza credo sia meglio che ogni musicista si lasci andare e resti sé stesso, inoltre sono tutti ottimi musicisti e non c’è bisogno che imparino una parte nota per nota.

Vi capita di suonare dal vivo delle canzoni che non avete ancora inciso?
Si, ci è successo. Ad esempio prima di registrare questo disco abbiamo suonato in Europa diverse canzoni del disco, anche perché è un modo per prepararle. Per This River avevamo suonato dal vivo solo un paio di pezzi, ma per questo nuovo album, una buona parte delle canzoni le abbiamo suonate varie volte dal vivo prima di andare in studio.

The Hurricane è una di loro?
Ah, quella è una mia vecchia canzone che suono da anni sul palco, ma per qualche ragione non sono mai riuscito ad inciderne una versione di cui potessi dirmi soddisfatto su disco. Alla fine l’ho incisa da solo a casa e poi il mio amico Luther ha aggiunto una parte di dobro, all’inizio non avevo in mente di metterci altro, poi una linea di basso e di batteria l’abbiamo messa, per quanto minimale.

Visto che hai citato Luther Dickinson, sappiamo che lo scorso anno con lui, Anders Osborne e Marc Broussard, avete fatto un tour acustico denominato Southern Soul Assembly.
L’idea era venuta al mio manager e mi era sembrata subito buonissima. Con Luther siamo molto amici, con Anders ci eravamo incontrati qualche volta, mentre di Marc conoscevo la musica ma non ci eravamo mai incontrati prima. E’ stata una esperienza molto bella che credo ripeteremo, soprattutto perché ci siamo divertiti molto a suonare insieme.

Avete in mente di registrare qualcosa?
Ci piacerebbe, non abbiamo ancora un programma o delle scadenze, ma credo che scriveremo altre canzoni e prima o poi la cosa si concretizzerà. C’è una sorta di ispirazione reciproca nello stare con loro, in quanto ognuno di loro ha dei punti forti ma sono anche molto versatili. Anders tutti sanno che scrive grandi canzoni, ma è anche un cantante e chitarrista straordinario, Marc invece è conosciuto per la voce ma anche alla chitarra se la cava egregiamente e quanto a Luther, beh non devo dire io che grande chitarrista sia, ma quando canta ha una voce inconfondibile.

La tua scrittura si colloca, ci sembra, nella tradizione di autori come Tony Joe White, Dan Penn o Eddie Hinton, come nasce la tua predisposizione al raccontare una storia?
E’ un bel complimento essere accostato a nomi del genere, grazie. Tutti siamo storytellers, a volte senza nemmeno rendercene conto, è qualcosa di radicato in tutte le culture nei posti più diversi del mondo. Io sono cresciuto ascoltando storie, mio padre aveva dei dischi di gente come Jerry Clower, uno stand up comedian della Grand Ole Opry che incise per la MCA, oppure Brother Dave Gardner. Quest’ultimo era un batterista, predicatore e comico, un tipo beatnik, in anticipo rispetto ai suoi tempi, incise anche alcuni dischi prodotti da Chet Atkins. Ha inciso anche altra roba negli anni Settanta, piuttosto folle. Entrambi erano piuttosto famosi nel Sud e da ragazzino sapevo recitare a memoria gran parte delle storie sui loro dischi. In musica une delle mie prime influenze è stato Jerry Reed, le cui canzoni erano una sorta di sintesi delle storie che sentivo dagli altri due. Inoltre molti della mia famiglia, mio padre e i miei nonni, amavano raccontare storie, non che lo facessero per professione, erano gente comune; però mi piace pensare che un po’ di tutto questo sia filtrato fino a me.

Alcune dei racconti dei nonni o dei parenti sono finiti nelle tue canzoni, ci vengono in mente On Palastine o The Sun Is Shining Down.
Oh si, quelle sono davvero nate così. The Sun Is Shining Down all’inizio non avevo capito nemmeno io di cosa parlasse, solo in un secondo momento mi è apparso evidente che parlasse di una conversazione sentita tra i miei nonni. A volte le storie escono così, quasi a livello inconscio, senza che cerchi per forza una direzione. Ma in genere scrivo di cose che fanno parte del mio mondo, quello che ho visto o vissuto, perciò mi viene facile parlarne.

Il senso dei luoghi, la natura, l’ambiente sono una componente essenziale nelle tue canzoni, che però non hanno un tono predicatorio.
L’unica persona verso cui potrei predicare è me stesso, per ricordarmi di ciò che conta davvero. Anche quando parlo della protezione dell’ambiente naturale o cose del genere, non mi sono seduto lì pensando «ora scrivo una canzone per dire alla gente che è importante tutelare l’ambiente». Nulla di tutto ciò, questi temi sono cominciati ad affiorare nelle mie canzoni quando ho preso coscienza di quanto ami i luoghi in cui sono nato e cresciuto, e di quanto contino per me. Come dicevo, a volte catturi una storia senza sapere bene come o perché, ripensandoci dopo ho capito che molte delle mie prime canzoni parlavano di svegliarsi alla vita, saperla gustare, proprio perché vivevo un periodo in cui non gustavo abbastanza la vita, quello che avevo, ero troppo preso a pianificare questo e quello. Se mi guardo indietro alle parole delle canzoni Blackwater e anche prima, pezzi mai incisi su disco, mi sembra davvero che dicessero la stessa cosa a me stesso di svegliarmi. L’effetto che mi danno queste canzoni, anche Everything Is A Song sul nuovo album, è quello di tanti post-it attaccati sul frigo, promemoria di quello che devo fare, di riappropriarmi delle cose importanti. Non mi sognerei di dire a qualcun altro cosa debba fare della sua vita, ognuno cerca di fare del proprio meglio per capirlo e io non sono nella posizione di dare consigli, d’altra parte sto ancora cercando di capirlo anch’io!

Tendi a guardare al lato positivo delle cose?
Credo di sì, ho imparato che se guardi le cose nel momento, c’è poco di sbagliato. La perdita di una persona amata ci rende tristi per un po’, ma da qui a qualche anno forse lo saremo di meno. Dicono che il tempo guarisca in tal senso, però secondo me col tempo smetti semplicemente di pensare a certe cose perché sei occupato con altre. Mia nonna è morta due anni fa e se me ne sto qui seduto per un po’ a parlare di quanto mi manchi, ricomincio subito a piangere. Spetta a me cercare di andare avanti, fare delle scelte giorno dopo giorno; se ci accade qualcosa di simile, soffriamo, ma poi in qualche modo cerchiamo di superare il dolore e andiamo avanti. Se riusciamo a farlo per la perdita di una persona cara, qualcosa che accade purtroppo a tutti, possiamo farlo anche per altri aspetti della vita e allora scopriremo che c’è bellezza in tante cose e il mondo non è per forza un posto ostile e terribile.

Tornando alla musica, su Ol’ Glory, come già su Georgia Warhorse c’è il contributo di Derek Trucks, anche lui dalla Florida.
Derek abita a venticinque minuti da casa mia, siamo amici. E’ uno dei miei musicisti preferiti, non dico di adesso ma proprio in assoluto. Lo è già ora, ma credo che col tempo sarà considerato davvero tra i più grandi, come Louis Armstrong, Charlie Parker…lui trascende il suonare uno strumento, è andato oltre da anni, lui canta attraverso la sua chitarra come facevano Muddy Waters e gli altri grandi, la sua chitarra diventa una voce umana. Non fa mai una nota di troppo. Ascoltarlo suonare per me è come ascoltare un field holler, o come ascoltare le grandi voci di Mahalia Jackson, Aretha Franklin o Otis Redding.

Su Georgia Warhorse hai duettato con Toots Hibbert.
Insieme a Otis Redding Toots è il mio cantante preferito, cosa posso dire se non che è stato un onore averlo sul mio disco, poi siamo diventati amici.

Hai anche collaborato con Shemekia Copeland nell’ultimo suo album 33 1/3.
Si, un’altra grande voce, come quelle che citavamo prima. Mi ricordo di averla vista duettare su I Pity The Fool con Robert Cray al concerto Lightnin’ In A Bottle, mi aveva colpito molto. Shemekia è fantastica, una forza della natura, una potenza vocale straordinaria e una bella persona, ci siamo conosciuti anni fa ad un festival a Madison, Wisconsin. E’ divertente collaborare con gente come lei; negli anni sai ho incontrato tante persone e devo dire tutte persone gentili e aperte come lei, nessun cretino finora.

E anche coi Galactic.
Sì, loro sono ottimi amici, mi hanno aiutato in molti modi, sia come musicisti sia dal punto di vista diciamo del business, al momento di alcune decisioni che dovevo prendere. Al pari di Derek, Luther o Shemekia, è come se facessero parte della mia famiglia.

Curiosità, trai ispirazione per comporre dalle opere di scrittori tuoi conterranei come Harry Crews o Carl Hiaasen?
Sì, li ho letti entrambi, e di Hiaasen mi ha divertito soprattutto Tourist Season(in italiano uscì come Alta Stagione per Baldini e Castoldi n.d.t.). I libri di Crews mi piacciono tutti, in particolare A Childhood – the biography of a place (Un’infanzia, ancora per Baldini e Castoldi n.d.t.). Lui era della generazione di mio padre, ma le sue storie sono ambientate nei miei luoghi, tra il quartiere Springfield di Jacksonvile e il nord della Florida fino al confine con la Georgia, che dista venti minuti da casa. Anche i libri di J.T. Glisson sono tra i miei favoriti, The Creek è bellissimo. Non posso non citare tra i libri importanti per me A Land Remembered, che racconta la storia di una famiglia di coloni in Florida nell’arco di circa cent’anni (l’autore dovrebbe essere Patrick D. Smith n.d.t.). Mi piace molto anche un artista sempre della Florida come Victor Nunez, non è uno scrittore ma ha diretto film come Gal Young’Un, Ruby con Ahsley Judd e Ulee’s Gold con Peter Fonda.

Ti sarebbe piaciuto registrare uno dei tuoi dischi a Muscle Shoals, negli anni d’oro?
Tutta la musica che proveniva da quegli studi esercita una grande influenza, Roger Hawkins, David Hood uno dei miei bassisti preferiti, magari Eddie Hinton alla chitarra, Rick Hall e Tom Dowd a produrre, con Dan Penn a gironzolare per gli studi cercando di finire una canzone…Jerry Wexler a supervisionare il tutto! Sarebbe incredibile. Dei tre grandi centri di soul, Memphis/Stax, Detroit/ Motown e Muscle Shoals, li amo tutti s’intende, ma Muscle Shoals è il mio preferito.

Con Prothero comunque avete una bella intesa, non hai mai cambiato produttore.
Dan mi conosce molto bene, mi ha sempre spinto a valorizzare i miei punti di forza. Mi segue dal primo disco ed è rimasto a bordo finora, per mia fortuna. E’ il tipo che preferisce restare quasi in disparte, scomparire sullo sfondo ma assicurarsi che la registrazione venga bene, non interviene molto spesso, ma sa quando farlo. Di solito registriamo in presa diretta, senza lavorare troppo di sovra incisioni o post-produzione, ma dipende anche dai brani. L’album più ‘prodotto’ anche se molti non lo percepiscono come tale è stato Blackwater. Mi ricordo che quando Dan se ne andò a casa coi nastri, mi dissi che non lo avrei più sentito, mi sbagliavo ovviamente; lui fece un gran lavoro di ‘editing’ per mettere insieme il disco. Lochloosa ha alcune canzoni dal vivo in studio e altre più elaborate.

In quei primi dischi non avevi i fiati.
Non potevo permettermeli! E poi Dan, a ragione, disse che non aveva senso metterli a tutti i costi nel disco, se poi non potevo permettermi di averli dal vivo, dato che eravamo all’epoca una band di quattro elementi.

Quando hai cominciato, ti saresti aspettato il percorso che la tua carriera ha finito per seguire.
No, ma mi ritengo molto fortunato. Probabilmente c’è una ragione per tutto. Molte cose succedono in modo inaspettato, surreale, voglio dire conoscere e duettare con uno dei miei eroi come Toots Hibbert è stato qualcosa che si è materializzato senza quasi che io abbia cercato di entrare in contatto con lui, è semplicemente accaduto. Stessa cosa con un altro dei miei idoli, Bill Withers. Forse non ci sono coincidenze, appunto, ma sono grato del punto in cui mi trovo ora e di tutto quel che mi è successo.

Ci auguriamo di vederti in Italia un giorno.
Lo spero proprio anch’io. Sono rimasto in ottimi rapporti con l’Alligator ma la nuova etichetta, Mascot, ha una buonissima rete in Europa, hanno sedi negli Stati Uniti ma la loro base è in Olanda, perciò più presente sul mercato europeo. Il posto più vicino all’Italia dove abbiamo suonato finora è Locarno, abbiamo aperto per un tipo che faceva una musica vagamente brasiliana, non mi ricordo il suo nome.

Zucchero forse?
Si, si mi sembra il nome fosse questo!

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 130, 2015

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