Cambridge Folk Festival (30 luglio 1983)

Non c’è modo peggiore per godersi un concerto dell’andarvi col proposito di scrivere un articolo poiché quest’impostazione rischia spesso di far perdere il contatto emotivo con lo spettacolo e il puro e semplice divertimento. Il dramma peggiore, comunque, rimane le foto: fra registratori, taccuini, borse e boccali (per non parlare degli strumenti musicali), un obiettivo in più può significare il tracollo definitivo. Quindi, specialmente se il sole brucia impietoso come quest’anno a Cambridge e siete proprio costretti a giocare al reporter, il mio personale consiglio è di assicurarvi la presenza di un volonteroso amico fotografo che possa accollarsi questa parte delle incombenze (e del peso).

Non bisogna dimenticare comunque che spesso, come nel presente caso, il gioco vale la candela, e che con due palcoscenici pieni di buona musica, cibarie e rinfreschi di ogni tipo (tanta birra), svariati stands di generi musicali e non, e servizi igienici accettabili, si può anche sopportare qualche disagio minore. Se poi si arriva in tempo, la conquista di un ‘posto all’ombra’ all’interno della stessa area del festival può migliorare di parecchio le cose. Si posteggiano allora sotto la tenda bagagli inutili e compagni di viaggio poco entusiasti e ci si avvia alla scoperta del luogo, occhieggiando a sinistra e a destra la fauna locale, in genere interessante.
Svoltato l’angolo dell’ultimo stand, un suono di flauti e fiddles accompagna la comparsa del palco principale all’ombra del quale un gruppo è già all’opera. E’ mezzogiorno ed il programma dice che siamo di fronte alla Doonan Family, un’ottima formazione irlandese piuttosto tradizionale, con tre membri della succitata famiglia più chitarra e basso acustico esterni. John Doonan è campione di ottavino e non fa fatica a dimostrare il perché; carina anche la versione ‘europeizzata’ di Orange Blossom Special (?!).

La Oyster Band risulta invece dedita al folk-rock e, unendo al fiddle e all’organetto anche sax e tastiere, ci offre uno spettacolo di buon livello per lasciare poi posto agli Steel Skies. Questo è il nome del gruppo di Alistair Anderson, molto applaudito anche lo scorso anno per la sua abilità con la concertina e le uilleann-pipes; il loro repertorio, siamo tornati al tradizionale, ci trascina in una sarabanda di danze e melodie piene di fascino.
A questo punto è il caso di sgranchirsi le gambe (e riposarsi un poco all’ombra), così andiamo a dare uno sguardo allo stage 2 dove è appena iniziato il seminario di chitarra, perfetto terreno per i preziosismi di John Fahey che si rivelerà molto meno convincente, invece, nel concerto vero e proprio grazie anche ad un repertorio poco adatto a catturare l’attenzione di questo tipo di pubblico.

Dave Peabody ci porta in un territorio più legato al blues e al boogie, con l’apporto di un ottimo Bob Greenwood al dobro. Dopo di essi Peter Rowan, che non è certo un maestro della chitarra ma le sue canzoni hanno fatto epoca e quello che dà al pubblico è senz’altro un bell’esempio di come un buon ‘back up’ può evidenziare oltremodo le doti di un cantante. Il seminario termina con John Hammond, scatenatissimo come sempre e deciso a dimostrare con armonica, chitarra e voce di quanta energia dispone e di quanto amore per il blues.

A proposito di blues, è meglio correre perché sul palco centrale è arrivato Alexis Korner con l’affascinante Gillie McPherson. Korner è riconosciuto da tutti come personalità di base nella nascita e sviluppo del blues inglese e tanti nomi oggi più che famosi sono passati una volta tra le file della sua band. Fred Wedlock, che segue, è invece più umorista che musicista e i suoi divertenti sproloqui fanno sganasciare i presenti dalle risate mentre la parte strumentale è totalmente a carico del chitarrista Chris Newman, un flat-picker veramente degno di nota.

A questo punto, alle tre del pomeriggio, il sole e la birra, se non la musica, hanno svolto il proprio compito portando il pubblico al giusto punto di cottura. Ed ecco che spunta Queen Ida.
Questo gruppo di zydeco della Louisiana, regolarmente sconosciuto, è stato un po’ la rivelazione delle tre giornate ed il ritmo e la vitalità della sua musica sono rimasti a lungo in testa alla gente. Queen Ida non è giovanissima, canta e suona l’accordeon, accompagnata da batteria, basso e chitarra elettrica, più fiddle e percussioni (washboard, ovviamente, e altro).
L’ottimo fiddler Tom Rigney ci offre un’ ennesima scatenata Orange Blossom e nessuno riesce più a tener fermi i piedi sul ritmo trascinante del gruppo: saranno loro a chiudere la nottata sul secondo palco lasciando ancora a lungo l’aria piena di elettricità.

Maria Muldaur, invece, salutata come una delle stelle del festival e presentatasi all’appuntamento con una band dal sound piuttosto robusto, si rivela al di sotto delle aspettative dimostrandosi personaggio certamente simpatico ma musicalmente poco incisivo, con un repertorio che spazia dal blues classico a Bob Dylan e al country & western, ma senza troppa personalità. La voce stessa non raggiunge momenti particolarmente efficaci mentre la Muldaur, ex D’Amato, percorre in lungo e in largo il palco agitando un ventaglio. I maligni dicono che, anche per lei, la colpa è della crisi religiosa che sta divorando sempre più vittime nell’America musicale.
Per fortuna comunque è giunto il momento di trasferirsi tutti sotto il tendone alle spalle del palco in previsione della sera e qui, saltando John Fahey alle cui disgrazie ho già accennato, un nuovo set della Doonan Family basta e avanza a rimetterci in carreggiata, grazie anche all’esibizione di due ballerine in costume tradizionale, mentre Steve Young, cantautore piuttosto apprezzato negli USA, è qui meno fortunato, tardando il pubblico ad apprezzare appieno la vena malinconica delle sue canzoni. Peccato, ma il suo posto viene presto preso dai Furys, formazione di fratelli irlandesi (quattro) che, assieme a Davey Arthur, mettono in scena un notevolissimo set di bravura tra pezzi tradizionali e originali arrangiati in maniera alquanto personale. Ottimo, come prevedibile, Finbar alle pipes.

Piccola pausa ed ecco un’altra delle attrazioni della giornata: si tratta di Peter Rowan con Tex Logan e Flaco Jimenez, o The Free Mexican Airforce, dall’omonimo pezzo di Rowan. Di quest’ultimo bisogna dire che, non avendo fatto proprio nulla per diventare un personaggio particolarmente simpatico ed avendo assommato un numero notevole di esperienze musicali di cui poche da disprezzare, avrà sempre al proprio attivo, assieme a molte belle canzoni, una costante tendenza al rinnovamento e alla ricerca, più evidente forse nelle incisioni che nei concerti italiani dove, per forza di cose, è sempre stato costretto a limitarsi all’aspetto più tradizionale della sua musica. In questa formazione anche i suoi classici più celebri come Land of Navaho o Midnight Moonlight vengono offerte in veste tex-mex, complice l’arrangiamento ritmico ed il grande Flaco all’accordeon.

Più dimesso mi è sembrato Tex Logan, forse in serata negativa, mentre non c’è proprio niente da dire sul sound della Telecaster di Rowan, poco digerito invece da una giornalista inglese, evidentemente poco elastica. Il gruppo era completato da pedal steel, contrabbasso e batteria inglesi, per un buon concerto con la voce di Rowan in piena forma e Flaco a dirigere il gran finale sulle note di La Bamba.
Ma la serata non è ancora finita e appaiono sul palco gli Strawbs di Dave Cousins redivivi. Li ricordate? In questa formazione hanno militato a suo tempo Sandy Denny e il biondo Rick Wakeman, non ancora finito negli Yes, ripropongono qui i loro vecchi successi per la gioia del pubblico.
E così siamo finalmente al termine con la magia del violino del vecchio grande Stephane Grappelli che per un’ora ci riporta tutti all’atmosfera dell’Hot Club, col fantasma di Django che fa capolino da dietro le quinte: gran classe e carica che a 75 anni suonati non accennano a diminuire.
Fine di tutto dunque e ci ritiriamo in buon ordine verso le tende, mentre le note di Queen Ida dall’altro palco ci ricordano che la buona musica è difficile da dimenticare. Una giornata lunga, ma ne valeva la pena.

Stefano Tavernese, fonte Hi, Folks! n. 4, 1984

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