Il Continental Club è relativamente piccolo per i grandi concerti ma, stando alle votazioni del Chronicle, è il più popolare di Austin per il 19%. E’ il locale dove tiene banco Junior Brown alla domenica sera e dove Tony Rice scalda le happy hours con il suo blues delicato almeno una volta alla settimana. Ogni musicista di Austin passa frequentemente su quel palco e tra il pubblico piuttosto vivace si riconoscono volti noti della scena musicale locale (Terry Lickona, produttore di Austin City Limits, è cliente abituale) e talvolta di veri divi. Una volta mi parve anche di riconoscere Sharon Stone ma non ebbi il coraggio di avvicinarmi: mi sembrava impossibile che fosse lì dove ero anch’io. Poi mi dissero che non sarebbe stato affatto improbabile.
Il Continental Club è sulla ampia main Street (Congress) di cinque corsie che attraversa in lieve salita il fiume Colorado e si dirige in linea retta verso Sud. Parcheggiando di fronte al locale ci si gode la vista della spettacolare linea di luci che guida il colpo d’occhio al Capitol illuminato ed ai grattacieli multicolori della downtown. Quella sera la scelta di concerti è ardua: in altri locali suonano Marcia Ball e i Derailers ma dopo un rapido calcolo delle opportunità con sott’occhio i programmi della settimana, decido per Dale Watson.
Passata la soglia e subita la timbratura ormai di rito a fronte di un cover di dieci dollari, mi confondo nella piccola folla: il locale infatti non è molto grande, ci staranno duecento persone accalcate: è anche abbastanza trasandato ma nella norma.
Sulla sinistra il bancone del bar, centro di attività permanente, sulla destra lo scranno dello shoeshine Charlie, ‘best shine in the west’, anziano e burbero negretto che protegge brontolando il suo pannello pubblicitario incorporato sul lato dello scranno da chiunque, sospinto dalla calca o dalla ricerca di spazio vitale, lo copra inavvertitamente. I clienti non gli mancano mai e vederlo all’opera è uno spettacolo: non avrei mai pensato che ci si potesse mettere venti minuti a lucidare un paio di stivali. Dal suo cassetto di legno estrae una quantità di spazzole di varia dimensione, stracci, pennelli, straccetti, creme e lucidi e poi si mette al lavoro con movenze e tecniche che vengono dai tempi di Mark Twain. Lo guardo con imbarazzo pensando che non riuscirei mai a farmi pulire le scarpe da chiunque, ma affascinato dalla naturalità della scena, dalla noncuranza di lui e dell’occasionale cliente, e così mi riparo dietro un’americanissima riflessione “that’s the way it is” e dietro un piemontesissimo interrogativo “chissà quanto costa”.
La digressione dedicata a Charlie vorrebbe simulare il tempo trascorso a guardarmi attorno e ad ascoltare distrattamente il gruppo di apertura, banaluccio come il nome che porta, Whiskey Drinkin’ Music, ma che se non altro denuncia onestamente il pretesto di tirarla in lungo per far bere il pubblico più possibile.
Dale Watson mette piede sul palco tardi, dopo le 11, accolto da una bella ovazione. Più piccolo di quanto mi sembrava in fotografia, con bei tatuaggi redneck sugli avambracci, un ciuffo di capelli quasi rockabilly. La formazione dei Lone Stars è essenziale: basso, batteria, steel; lui ci aggiunge la sua chitarra elettrica. Mi allarmo un po’ ritenendo la line up sì tradizionale ma un po’ scarna. Ma già dai convenevoli di apertura mi accorgo che il fulcro di tutto è la sua voce: baritonale, calda, nasale al punto giusto, coinvolgente; un accento piuttosto marcato, spesso come il sausage gravy di queste parti, ma non fastidioso, anzi simpatico.
Poche parole ed il concerto decolla con Truckin’ Man e Sweet Jessie Brown da Blessed Or Damned, il secondo album Hightone. Poi ancora Texas Boogie, Fly Away e Lost My Heart In San Antone; canzoni brevi, semplici nella struttura strofa ritornello strofa ritornello ritornello, tragiche e romantiche, esattamente quello che vogliamo. Harmonies da manuale del bassista, sferzanti, limpide, fanno un giusto contrasto alla voce solista.
La prima impressione è piacevolmente sorprendente e non mi abbandonerà per tutto il concerto: SEMBRA DI SENTIRE IL PRIMO MERLE HAGGARD, quello di Swingin’ Doors, di Silver Wings, di Fightin’ Side Of Me. Dale Watson sta a Merle come Dwight Yoakam al suo Buck Owens.
E’ un’ulteriore conferma di quella curiosa tendenza al rigenerarsi della Country Music nella propria tradizione; quando sembra che stia sfuggendo di mano, che si stia esaurendo una vena, uno stile, arriva qualcuno che lo ripropone rinnovato nei dettagli essenziali, adeguato ai nuovi tempi. Anche il pickin’ di Watson è essenziale: brevi a solo, tanti fills, qualche lick stile rockabilly che nel country attuale è tornato di gran moda, vedi Derailers, vedi BR5-49. Ogni aspetto del concerto è una rivisitazione delle tante radici del country, un viaggio nel tempo. Gli scenari ed i temi delle canzoni sono gli stessi di sempre: cheatin’, drinkin’, heartaches ma la prevalenza questa sera va alle canzoni dedicate alla strada ed ai camion.
Non è un caso: l’estate 1996 di Dale Watson è stata dedicata ad un curioso tour nei truckstops d’America, culminata con un bel concerto, l’11 Luglio, al World’s Largest Truckstop di Walcott, Iowa, in un piazzale-parcheggio degno dell’appellativo. Quindicimila miglia percorse nel suo Chevrolet Suburban per cantare a piccole pittoresche folle di camionisti su un palco fatto di due assali di rimorchio uniti. Niente luci o scenografia, solo uno sfondo surreale di autostrada e di rombo di grandi camion.
Ora un fiddle sostituisce la steel e attacca It’s All Behind Us Now dai tempi di Ray Price. Poi ecco Poor Baby, dedicata all’autore, il padre Don, un recente ‘Uncle Pen’, responsabile della sua educazione alla strada ed alla musica in quel di Birmingham, Alabama. Le cronache raccontano che papá Watson guidasse i camion di giorno, suonasse la chitarra di sera nei clubs ed insegnasse a suonare a suo figlio nei weekends. Trasferitasi la famiglia a Pasadena,Texas, Dale va da teenager ad esibirsi con una sua band, Donny and Jim’s Little Brother, al mitico Gilley’s, il club di Urban Cowboy. Manco a dirlo, i suoi favoriti allora erano Conway Twitty, Buck Owens, Loretta Lynn, Ray Price, George Jones. In attesa di qualcosa, tanti lavori tra cui naturalmente anche la guida dei camion. Come in un film, l’immancabile trasferimento e breve soggiorno a Nashville, impiegato come staff writer per un editore musicale. La delusione di non riuscire ad emergere con le sue canzoni gli causa un forte risentimento nei confronti dell’establishment di Music City e lo spinge a tornarsene in Texas, questa volta a Austin a infoltire la comunità locale di musicisti disposti, pur di fare la loro musica ed una vita rilassata, a snobbare il successo commerciale.
E’ un risentimento che non lo abbandonerà più, lo si capta anche nelle poche battute tra una canzone e l’altra, e che gli fa scrivere canzoni sprezzanti come Nashville Rash (…I’m too country now for country just like Johnny Cash…) e dare pesanti giudizi sull’estetica e sulla sostanza delle produzioni provenienti da Nashville. Non è il solo a Austin a nutrire poca simpatia per la capitale del country e talvolta, vi sarà capitato, l’orecchio attento coglie le battute, come l’autopresentazione di Cornell Hurd in Live At The Broken Spoke: “I’m Garth Brooks’ worst nightmare!!”.
Per sottolineare il suo attaccamento alla tradizione ‘buona’, Watson non manca mai di inserire in repertorio classici da Hank Williams, Ernest Tubb, Ronnie Millsap e altri ‘intoccabili’. Ed infatti, ecco che sfodera Hello Walls e offre il suo nuovo CD al primo nel pubblico che sappia indovinare l’interprete originale. Almeno cinque persone ricordano Faron Young ed a tutti tocca una copia del disco. Seguono a ruota That’s What I Like About Texas scritta in collaborazione con Chris Wall, il suo swing South Of Round Rock, Texas dedicato a Austin, Honkiest Tonkiest Beer Joint, Truckstop In LaGrange.
E così va per quasi due ore. Sotto il palco la gente balla, qualcuno urla richieste, tutti stanno in piedi ed applaudono.
Esco dal Continental soddisfatto nel tepore dei primi di Gennaio, con almeno tre birre in corpo che mi fanno ruminare in mente un luogo comune obsoleto, per Austin: non c’è bisogno di grandi club per grandi concerti. Domani ci ritorno, ci sono gli Iguanas da New Orleans. Da non perdere. Così è quaggiù, a sud di Round Rock, Texas.
Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 37, 1997