Ricordo un uomo baffuto e rubicondo, dall’incipiente calvizie nascosta sotto un buffo cappello, gli occhi vispi, l’alito profumato di vino ed una costante presenza d’idee. Ad un tratto, arrossendo quest’uomo si alza dal suo tavolo, e ci chiede dove si trova le pissoir o gabinetto; qualcuno glielo indica e lo vede allontanarsi con passo divertito e soddisfatto… quell’uomo è Tom Paxton! Mi piace lasciare andare i ricordi alle due diverse occasioni in cui ho potuto ascoltarlo e conoscerlo: nel 1975 a Montreux, sereno cantastorie capace di trascinare il pubblico del Festival, a cantare insieme a lui in modo dolce la sua splendida Ramblim’ Boy e quest’anno, a Nyon, un po’ maturo negli anni, il fisico appesantito ma la voce sempre ferma e decisa. Incazzato, dinanzi alla disattenzione dei giovani presenti al Folk Festival, è riuscito, comunque, a dare (almeno ai più ricettivi e sensibili) un’immagine di sé stesso e delle sue opinioni, non variate, nel corso di questi ultimi anni.
Chi l’ha seguito, nelle sue ultime avventure discografiche, avrà riscontrato uno strano alternarsi di bontà sonora (mentre il precedente, New Songs From The Briarpatch, era un chiaro e netto ritorno alle origini, sia strumentalmente che artisticamente, Saturday Nigth, che lo aveva preceduto, pur essendo un disco di levatura eccellente, aveva degli arrangiamenti d’archi a dir poco strazianti, e che poco si addicevano alla musica di Tom. Ma il business si sa a volte è strano…) Heroes è comunque, quanto meglio potevamo aspettarci da Paxton: introspettivo e pensato assai profondamente, è in linea con il passato, e non lo fa rimpiangere.
La linea folkie (un genere di ballate dal tessuto sociale, ereditate dai grandi trovatori, quali Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Phil Ochs, etc) di Paxton, offre qui i suoi frutti, in una cornice strumentale non ricca, ma sempre intensa ed attenta ad assecondare gli umori del cantante. Presbyterian Boy apre il disco, e si rivela una gustosa e pungente satira ritmica, mentre la seguente, A Day In The Country, intimamente acustica, è una piccola gemma: la voce è sussurrata dolcemente, su un intreccio di chitarre acustiche, purtroppo ho tentato invano di afferrare il senso del testo ma mi è stato impossibile perché non sono riuscito a tradurre parte della canzone.
Anita O.J. è tutt’altra cosa: un pezzo scanzonato, giocato a tempo di calypso, musica sudamericana che dimostra quanto il cantautore sappia divertirsi, ed in modo sano, senza scendere a compromessi con musiche epidermiche. Winter Song è quasi una ninna-nanna crepuscolare dipinta con colori superbi e caldi; quando la senti, un senso di tristezza-nostalgia non possono fare a meno di invaderti e ti senti trascinare lontano… L’onore di chiudere la prima facciata, spetta a The Death Of Stephen Bike una ballata drammatica, che nulla concede alla faciloneria e narra la triste storia e fine, in una prigione, di questo personaggio. La passione, con cui Paxton canta le vicende sfortunate e tragiche di Stephen Bike (creatura della sua fantasia, o personaggio realmente esistito?) è grande e sincera.
Bella, anche la seconda side del disco, con un inizio ritmico piacevole (Hand Me Down My Jogging Shoes) e soprattutto Phil, un pezzo dedicato ad un caro amico scomparso: Phil Ochs. La bellezza di questo pezzo mi aveva già colpito al festival di Nyon, dove l’avevo ascoltato per la prima volta. Nei quattro minuti del brano ci sono i ricordi che hanno legato Tom a Phil e c’è lo stupore-incredulità provato dal cantante dinanzi alla lettura della triste notizia, su un giornale: “Gone, Gone, Gone By Your Own Hand” (Partito di sua stessa volontà). Qualcuno finalmente lo ha ricordato anche se la sua voce, ormai, tace per sempre; una canzone a lui dedicata può essere il mezzo più semplice, ma più efficace, per farlo rivivere nella mente di coloro che lo hanno conosciuto ed amato.
Dopo Phil, oserei dire che la successiva Lucy, The Junk Dealer’s Daughter può sparire, infatti non c’è paragone fra i due pezzi, che sono due cose ben diverse, ma va comunque attestato che la varietà delle ballate paxtoniane è molteplice. Dinanzi a questa considerazione, Lucy. è un brano eccellente che si avvale di un tempo curioso, sottolineato da un basso invadente e cadenzato. Curiosa invece, Not Tonight, Marie registrato dal vivo, e cantato a romanza simpaticamente, accompagnandosi con la chitarra acustica, davanti ad un pubblico divertito.
There Goes The Mountain chiude il microsolco, ed è un pezzo cui probabilmente Paxton è molto affezionato, visto che l’ha fatto diverse volte nei suoi ultimi dischi: è il classico Paxton, che canta con virile efficacia e maturata consapevolezza i suoi soggetti, rimanendo sempre fedele alla realtà e senza mai lasciarsi prendere la mano dalla fantasia. Grande il lavoro dei session-men in questo disco, e cito almeno i migliori o coloro che meglio hanno prestato la loro energia ed esperienza: Kenneth Kosek, al violino; Eric Weissberg, alla chitarra, dobro, banjo e mandolino; Herb Bushler, al basso. Tom Paxton è un grande cantautore, tornato a dare il meglio di se stesso.
Vanguard 79411 (Folk, 1978)
Mauro Quai, fonte Mucchio Selvaggio n. 15, 1979