“Per un cantante Blues è come essere nero due volte: per prima cosa devi cercare di far amare alla gente il Blues, e poi te stesso come persona.” Ecco una delle poche riflessioni amarognole di un uomo che difficilmente si lascia andare, anche se ha alle spalle una vita vissuta intensamente come poche altre.
Riley B. King, nato nel 1925 in un sobborgo di Indianola nel Mississippi, perde la madre all’età di nove anni e lavora come bracciante nei campi di cotone fino alla maggiore età quando viene arruolato nell’esercito durante la seconda guerra mondiale.
Il predicatore della sua chiesa suona la chitarra e il ragazzo, già coinvolto nella musica come cantante di spirituals, si innamora dello strumento. Il primo aiuto gli viene dal cugino Bukka White, grande bluesman lui stesso e specialista del bottleneck, che gli dà una mano a reperire un’acustica cui applica un pick-up.
Alla fine della guerra, mentre continua a lavorare in campagna guidando i trattori, comincia ad esibirsi agli angoli delle strade di Indianola, ottenendo in breve tempo le prime serate; le paghe non sono certo principesche, ma la svolta è a due passi.
Raggiunto Bukka White a Memphis, va a trovare il famoso armonicista Sonny Williamson che lo invita a cantare una canzone nel suo programma radiofonico: in breve tempo Riley King ottiene non solo un buon ingaggio in un locale, ma anche un nome d’arte. Trovato infatti lavoro giornaliero presso una radio locale per pubblicizzare un tonico, viene presentato come ‘The Beale Street Blues Boy’ e il pubblico comincia presto ad abbreviare il nome in ‘B.B.’
Nel 1950 Three O’Clock Blues, inciso un anno prima, lo porta al primo posto per diciotto settimane nelle classifiche rhythm’n’blues e gli apre virtualmente la strada ai grandi teatri come il famoso Apollo di New York, cambiando radicalmente i guadagni e le prospettive stesse della sua carriera, da allora in continua ascesa.
Gli anni sessanta portano a un ampliamento del mercato discografico fino all’apice di Live & Well, uno dei suoi migliori album di sempre, acclamato dai critici di Downbeat, e al grande successo di The Thrill ls Gone che, nel 1970, diventa un hit in tutta la nazione dandogli popolarità anche presso le platee bianche, preparate ormai alla sua musica dai tanti discepoli che avevano tratto ispirazione ed elementi concreti dal suo stile di chitarra; la lista di questi ultimi sarebbe troppo lunga da riportare, ma basti citare i vari Clapton, Page, Beck o anche lo stesso Hendrix per farsene un’idea.
Musicista che non ama l’immobilismo, continua a cercare nuove soluzioni artistiche senza troppo preoccuparsi delle critiche: passa dalle minuscole formazioni degli esordi al suono di vere e proprie big band con tanto di sezione di fiati, continuando a suonare il blues ma variando spesso il background ritmico secondo gli stimoli del momento. Piuttosto lontano dall’immagine classica del musicista campagnolo ed ignorante, suona piuttosto bene anche il clarinetto e conosce discretamente violino, piano e armonica; negli anni ha cercato anche di imparare quel minimo di lettura musicale che gli permette di interagire a volte negli stessi arrangiamenti della band.
Divenuto famoso prima come cantante che come chitarrista, il suo stile sullo strumento è ciò che però ha lasciato più il segno nella chitarra moderna con particolare riferimento all’imitatissimo vibrato ottenuto con un movimento perpendicolare al manico della mano sinistra e al ‘bending’, altra tecnica che è stato tra i primi a popolarizzare. Questo il suo racconto per quanto riguarda il vibrato: “Non voglio dire di averlo inventato, ma prima di me non lo faceva nessuno (ride)! Bukka White ed altri usavano il bottleneck, ma io ho delle dita piuttosto ottuse e non sarei mai riuscito a suonare tenendo in mano un oggetto del genere. Così ho provato ad ottenere un effetto simile con il semplice movimento della mano sinistra e dopo trenta o quarant’anni sembra quasi che ci sia riuscito!”
Tra i chitarristi che dice di aver ammirato da giovane compaiono Lonnie Johnson, Blind Lemon Jefferson, T Bone Walker, Charlie Christian, Django Reinhardt, Robert Johnson, lo stesso Bukka White, ma si sente in debito anche con alcuni dei suo stessi ‘allievi’ dichiarati, come Johnny Winter e Mike Bloomfield, da cui dice di aver imparato diverse cose a proposito di progressioni di accordi ed altro. Fanno parte del calore del suo personaggio il coinvolgimento in numerose attività sociali e di beneficenza come il FAIRR, fondazione da lui promossa con l’intento di dare una spinta alla riabilitazione dei detenuti, e il tangibile abbraccio che rivolge ogni volta al suo pubblico in ogni angolo del mondo. Ancora oggi ascoltarlo in concerto e un’esperienza toccante e la gente continua a farsi catturare dall’intensità della sua musica e dal canto della sua chitarra che riesce a dire tutto, a volte, in una sola nota potente e sanguigna.
Mentre ascoltavo il concerto mi è venuta in mente quella scena del film Rattle And Hum in cui dici a Bono degli U 2 che suonare gli accordi non è la tua specialità (“I’m horrible with chords”)… in effetti durante lo spettacolo non usi molto il tuo strumento per accompagnare…
No.
Forse perché prediligi chiaramente lo ‘horn sound’ e il tuo fraseggio è così fiatistico anche nella timbrica che scegli… sembra quasi tu stia suonando il sassofono per mezzo della chitarra. È così?
No (ride, ndr)… suono solo come mi viene. Non sono mai stato un grande accompagnatore; posso suonare dietro altri musicisti, ma non accompagnare me stesso.
Quindi è una tua scelta precisa…
Hmmm, è una mia scelta perché non mi sembra di suonare tanto bene mentre canto e quindi poi neanche ci provo. Preferisco farmi sostituire da una ritmica esterna.
Ho notato, comunque, che in quei rari momenti in cui accompagni con degli accordi usi un backup quasi jazzistico… E vero che nelle tue origini di chitarrista c’è anche l’influenza di musicisti come Charlie Christian e Django Reinhardt?
Suono solo quello che sento. Ho ascoltato effettivamente quei chitarristi da giovane, ma per me è lo stesso, sia che stia suonando Three O’Clock Blues sia The Thrill Is Gone, suono sempre quello che sento. Quindi se il risultato è un po’ jazzy o altro, dipende tutto dalle mie sensazioni in quel momento specifico. È come quando la gente discute su ‘tradizionale’ o ‘non tradizionale’ … è un atteggiamento che non accetto perché credo che quando prendi in mano uno strumento suoni quello che ti viene spontaneo. Come te! Quando scrivi, scrivi quello che senti di scrivere! Per me è lo stesso.
Il tono della tua chitarra è famoso almeno quanto te. È come la tua seconda voce: ne hai una quando canti e una quando suoni la chitarra. Come ottieni questa timbrica dalla tua Gibson?
Posso ottenere la stessa timbrica da qualsiasi altra chitarra.
Quindi dipende dalla tua mano…
Certo. Ma mi piace suonare la Gibson 355, mi si adatta molto bene (pausa, ndr). Immagina di avere un pianoforte in un angolo della casa… se viene Ray Charles avrà un certo suono, se arriva Elton John ne avrà un altro, con Oscar Peterson sarà ancora diverso. Ogni musicista avrà la propria timbrica. Lo stesso succede a me con la chitarra: se mi dai la tua sentirai sempre il mio suono. Se ti dico che mi piace quella che uso è perché sono un uomo di notevoli dimensioni e quello strumento mi si adatta bene, ha un bel manico… Tutto è venuto spontaneamente.
Negli anni hai usato anche semiacustiche dalla cassa più spessa, vero?
Sì, e anche delle solid-body. Ho avuto una delle prime Fender mai costruite. Di chitarre ne ho avute tante, ma il mio suono è rimasto praticamente lo stesso.
La gente viene da te per ascoltare il blues, per molti addirittura ‘sei’ il blues: come vedi la diffusione di questa musica in tutto il mondo?
È stupendo! Tutti questi musicisti fanno quello che io ho fatto da sempre: suonano quello che sentono! E questo è grande. Alcuni cercano di diventare musicisti country, altri vogliono essere jazzisti, altri ancora puntano al rock, al soul, al blues, ma alcuni suonano quello che sentono veramente dentro di sè e vengono etichettati in tanti modi. Io sono uno di questi. Alcuni mi chiamano ‘blues player’, altri `blues singer’, altri usano molti altri termini che ora non è il caso di citare … mi va abbastanza bene di essere considerato un musicista blues perché sento che con la mia musica suono qualcosa che viene da qui… e qui (indica il cuore e la pancia, ndr)! E non basta tirar fuori lo strumento durante le serate, ci vogliono molte ore di esercizi (canticchia una frase, ndr).. .
Continui ancora oggi a fare pratica?
Ogni giorno. In ogni momento utile. Non quanto dovrei, ma per quanto mi è possibile.
E come è stata l’esperienza del film con gli U2? Come ti sei trovato assieme a questi giovani irlandesi che solo fino a ieri non avevano neanche idea di cosa fosse il blues e all’improvviso ti chiedono di suonare un pezzo con loro?
Suonavano quello che gli piaceva, e a me è piaciuto suonare la loro musica. Non sono stato ad analizzare la loro razza o il colore della loro pelle (ride, ndr)! Mi piace Pavarotti e non sono italiano! Ne vado pazzo! Lo stesso vale per gli U2, mi piacciono e hanno raggiunto un obiettivo che piacerebbe a molti: sono il gruppo numero uno nel mondo! A queste cose non si arriva battendo la fiacca, ma lavorando duro e loro lavorano duro sul serio. E le persone in tutto il mondo che li seguono non lo fanno mica senza motivo, li apprezzano per quello che hanno realizzato…
Non basta la tecnica a portarti così in alto…
Ci vuole anche un cuore… Per rispondere alla tua domanda, mi è piaciuto molto lavorare con loro e non mi dispiacerebbe fare qualcos’altro assieme (n.d.r.: per la cronaca, appena dopo questa intervista, le riviste internazionali hanno pubblicato la notizia del tour mondiale che avrebbe portato di nuovo assieme B.B.King e la formazione irlandese).
Un altro dei punti forti del tuo show odierno è l’esecuzione di Into The Night dalla colonna sonora del film di Scorsese (Fuori Orario in Italia). È notevole come in questo caso il successo commerciale di una canzone non abbia comportato scadimenti in senso musicale: ci sei tu in quel pezzo!
E questo non va bene (ride di cuore, ndr)?
Benissimo. Pensavo al tipo di compromessi cui spesso ci si deve adattare per entrare in un certo mercato.
L’autore del pezzo, Ira Newborn, mi conosce molto bene ed è lui stesso un bravo chitarrista ed arrangiatore. È stata una belle esperienza interpretare quel brano perché era un po’ diverso dal mio solito repertorio ma mi piace sempre tentare nuove strade. Alcuni pensano che essendo un musicista blues non dovresti mai uscire dai confini di questo genere ma questo è assurdo: per quanto mi riguarda sono aperto a tutto. Se fai qualcosa di buono piacerà anche al pubblicò, altrimenti… Io, comunque, continuo a tentare, perché credo tutto serva per formare un’esperienza. In quarantun’anni di attività ho cercato di provare di tutto.
Quale sarà il prossimo passo, allora?
Non lo so!
Niente di preciso…
No, ma mi metterò a lavorare sui brani per un nuovo album, mi piacerebbe continuare a fare del cinema…ho interpretato piccole parti in una decina di film. Mi puoi vedere in Spie Come Noi, in Donne Amazzoni Sulla Luna, nella colonna sonora di Stormy Monday con Sting… Mi piacerebbe anche fare altra televisione.
Prevedi qualche nuova collaborazione nel prossimo periodo?
Fino a questo momento non ho nessun programma definito, ma tutto può succedere… a parte gli U2 ho lavorato con tanti musicisti, Grover Washington Jr., Bobby Bland, due o tre album con i Crusaders, uno con Larry Carlton, un altro con Stevie Wonder, Carly Simon e tanti altri che ora non mi vengono in mente. Ho inciso con molta gente, ma mi piacerebbe allargare il numero ulteriormente, anche se in questo momento non mi viene in mente un nome preciso.
Tra i tanti chitarristi che negli ultimi venti o trent’anni hanno ammesso spontaneamente di aver preso molto dal tuo stile ce n’è qualcuno che senti particolarmente vicino?
Particolarmente vicino… proprio non so. È come avere cinque figli e chiedersi quale ti somiglia di più nei lineamenti, quale nel modo di fare, quale ami di più. Non saprei proprio cosa rispondere, ma ti posso dire che tra le nuove generazioni di musicisti ce ne sono tanti che suonano molto meglio di me.
E’ un bel complimento da parte tua ma, come dicevamo prima, non si vive solo di tecnica e quindi…
Beh, a mio vantaggio c’è essenzialmente l’esperienza, suonavo già prima che tanti venissero al mondo, ma tecnicamente molti di loro sono superiori. Personalmente non mi sento autorizzato a parlare di pulizia o completezza, ma posso dire che quando suono ‘so’ quello che sto suonando. Non ho dubbi. Vedo chiaramente ogni nota prima ancora di suonarla. È difficile che commetta grossi errori perché so in anticipo ciò che sto per fare. Questo accade a molti musicisti ma, per quanto mi riguarda, la cosa importante è che quando suono non mi perdo facilmente, sul palco non mi limito ad esercitarmi sullo strumento: questo lo faccio nel camerino.
E’ interessante sottolineare questi concetti con tutta la mania per la velocità che circola soprattutto tra i giovani chitarristi. Penso che tu ti riferisca alla necessità di essere presente con tutto il proprio corpo e la propria mente per suonare ciò che si sente dentro…
Questo vale per me, certo, ma penso che sia come parlare, esprimersi. Parlo inglese in continuazione ma non sono un grande oratore, anche se faccio del mio meglio, comunque riesco sempre ad esprimere compiutamente i miei pensieri, i miei sentimenti. Ecco perché a volte scriviamo le nostre sensazioni…quando suono a casa o nel camerino mi può capitare di annotare qualcosa, giri di accordi o altro che mi possono venire utili in seguito. Non mi fraintendere, non salgo poi sul palco per eseguire una serie di cose preordinate freddamente, ma mi muovo all’interno di una struttura, ciò che chiamo una ‘mappa’, su una serie di accordi, suonando elementi, frasi che conosco bene ma non sempre nello stesso ordine. A volte sarà uno, due, tre, quattro, cinque, altre invece uno, cinque, tre, due… e così via. Continui a mescolare gli ingredienti anche per evitare che le cose ti vengano a noia perché se il musicista perde l’entusiasmo per ciò che fa, il pubblico lo capisce immediatamente e si perde ogni contatto.
Questo ha a che vedere con la dinamica che scegli ogni sera…
Certo. E le persone che ti trovi davanti non sono mai le stesse… con il pubblico di stasera, per esempio, se avessi fatto un altro set non avrei mai potuto suonare le stesse cose del primo.
Quindi reagisci ai diversi tipi di pubblico…
Certo… bisogna farlo ogni sera. Il pubblico è composto da tante persone ma è come se fossero una, e ogni volta devi tentare di soddisfare quella singola persona. E ai giovani musicisti vorrei dire che è questo l’obiettivo più importante, cercare di soddisfare gli spettatori, ma prima bisogna sempre soddisfare se stessi altrimenti non si può fare nulla. Un altro consiglio che vorrei dare è questo: quando si viaggia come facciamo noi non sempre tutto funziona al meglio perché l’amplificazione cambia ogni volta e può capitare, come stasera, di trovare un amplificatore con cui non ti trovi bene affatto…
Non era il tuo, quindi…
No, uso il mio solo negli Stati Uniti, non lo porto mai in viaggio. Quasi sempre me ne procurano uno di buona qualità e anche questo non sarebbe stato male se non per il ronzio causato dall’impianto luci. Comunque non era colpa degli uomini del service, sono cose che capitano… ma voglio dire ai giovani che è importante non lamentarsi continuamente delle difficoltà perché altrimenti l’uomo dietro il mixer alzerà gli occhi al cielo e dirà: “Oh, mio Dio!”, la gente dirà: “Oh, mio Dio!”, e così la band e chiunque altro. Bisogna arrangiarsi al meglio delle proprie possibilità. Spesso capiterà di trovarsi in condizioni diverse da quelle cui siamo abituati, ma ogni sera cerchi di fare del tuo meglio, e se fai questo quasi sempre la gente ti darà una mano.
Stefano Tavernese, fonte Chitarre n. 44, 1989