Per quasi cinquantanni, sui palcoscenici di tutto il mondo, si è presentato con questa frase. Oggi che la malattia lo ha costretto a cancellare ogni esibizione, continua a pubblicare grandi dischi come il recente The Man Comes Around. Johnny Cash è l’ultimo grande cantore dell’America perduta: ha creato il proprio genere musicale, mettendo insieme l’onestà e l’emotività del folk, la ribellione del rock’n’roll e la coscienza ‘operaia’ del country. Lo celebriamo sulle pagine di JAM, in contemporanea con l’uscita del suo nuovo disco e di un tributo ‘all stars’….
“Un uomo con una voce così non può essere cattivo.” Parola del tenente Colombo quando, alla fine di una puntata dell’omonimo programma, arresta Johnny Cash per l’omicidio della moglie, di cui aveva sospettato sin dall’inizio. Come sempre accade nei film o telefilm dove appare Cash, c’è un po’ di lui in quello che recita: ovviamente non l’omicidio (anche se in Folsom Prison Blues cantava: “Ho sparato a un uomo solo per vederlo morire”), ma la galera e la sofferenza ci sono state, eccome, nella vita vera di Johnny Cash. Per metà John Wayne in El Grinta e per metà Robert Mitchum in The Night Of The Hunter, Johnny Cash ne ha fatte di cose ‘brutte’, nella vita, ma non è ‘cattivo’. Lo si capisce quando canta.
Aveva ragione il tenente Colombo, quella di Johnny Cash è una voce che non lascerebbe indifferente il peggior bastardo sulla faccia della terra, tanto è carica di sentimento ed emozione. Anche se non ha problemi a dire che “il tipo di canzoni che mi piacciono sono quelle tristi e tragiche. Sono le canzoni della mia gente, sono canzoni che narrano di disastri e tragedie, di omicidi, morte e storie d’amore finite male”. Già, perché lui è l’uomo in nero, ‘the man in the long black coat’, come l’ha ritratto Bob Dylan in una delle sue canzoni più inquietanti. Johnny Cash è un viaggio andata e ritorno all’inferno. Lui è esattamente come il titolo dei tre CD retrospettivi usciti qualche anno fa: Murder (‘omicidio’), Love (‘amore’) e God (‘Dio’). Lui sa cantare i tormenti dell’anima come nessun altro ma sa offrire anche redenzione. Non è un caso che uno come Nick Cave straveda per lui e ne sia stato abbondantemente influenzato.
Settantanni compiuti lo scorso 26 febbraio, più di 1.500 canzoni incise e sparse su quasi 500 dischi, contando solo le edizioni americane ed europee. Una carriera cominciata quando cominciava anche quella di Elvis, quando Sam Phillips sballò all’idea di aver trovato qualcuno che sapeva fare del rockabilly con attitudine country. Già, perché all’inizio Cash era destinato allo stesso mercato di Elvis (si chiamava rockabilly, non ancora rock’n’roll), ma le sue radici erano troppo forti: non a caso ebbe uno dei primi e più grandi successi con la versione di Long Black Veil, lo standard della musica folk che parla di un omicidio per gelosia. Sarebbe stato quello, insieme alle struggenti ballate d’amore, l’argomento principe di Johnny Cash, un rimando all’essenza stessa della vita americana così come era stata coniata ai tempi del selvaggio West: pistole in pugno e pronti a far fuori il rivale. Con ciò che ne consegue, cioè la prigione. Perché la vita è dura, la vita è un casino, ma con una voce così non si può essere cattivi…
Ma Johnny Cash, almeno fino alla fine degli anni Sessanta era, cosa rara per chi aveva cominciato negli anni Cinquanta, un songwriter, a differenza dello stesso Elvis, ad esempio. Insomma, per chi se lo immagina ancora come un autore di ballatone country, Johnny Cash è quello che ha scritto un brano come Get Rhythm, portato al successo dallo stesso Presley, uno dei brani manifesto del rock’n’roll più autentico. Per non citare canzoni immortali di american music come I Still Miss Someone, Big River, Flesh And Blood, Ring Of Fire.
Cash, in prigione, ci sarebbe finito davvero, ma per storie di droga, nello stile moderno della sua versione dell’uomo di frontiera, cioè il fuorilegge del rock. Perché Cash, alla fine dei Sessanta, era una vera rock star: nel ’65, aveva cercato di portare negli Stati Uniti, dal Messico, un bel po’ di anfetamina nascosta all’interno della sua chitarra.
Johnny Cash è l’outlaw della musica country, perché ha rifiutato i cliché e ne ha inventati di nuovi, a cui migliaia di aspiranti cantanti country si sono adeguati, negli anni. Non ci sarebbe Steve Earle, per dirne uno, se non ci fosse stato Johnny Cash e la sua controcultura del country.
In quasi cinquantanni di carriera Cash ha venduto circa 50 milioni di album, pubblicando più singoli di successo di Barbra Streisand, David Bowie, Elton John e Michael Jackson; ha vinto undici Grammy; per 38 anni consecutivi ci sono stati almeno due suoi singoli contemporaneamente nelle classifiche country; e, per arrivare ai giorni nostri, tutti i suoi ultimi tre dischi hanno vinto un Grammy. E sono dischi che le radio di Nashville si rifiutano di mandare in onda.
Quando Unchained, nel ’96, ha vinto il Grammy, la sua casa discografica ha fatto pubblicare su Billboard una pagina fantastica: “L’American Recordings e Johnny Cash ringraziano gli operatori musicali di Nashville e le stazioni radio di musica country per il loro supporto”. Nella foto Cash mostra un bel dito medio ai signori di Nashville, altro che ringraziamento.
I tre album della serie American Recordings che Cash a partire del ’94 ha prodotto insieme al gran stregone dell’hip-hop e del metal Rick Rubin sono uno più bello dell’altro. All’inizio fu un disco per sola voce e chitarra acustica, come Cash non aveva mai fatto. Un disco strepitoso, da brividi sulla pelle dall’inizio alla fine, grazie a quella voce impossibile che canta dalle viscere dell’inferno: Delia’s Gone (un uomo che è in prigione per l’omicidio della moglie), Thirteen (dei Danzig, band di rock truce), The Beast In Me (la bestia dentro di me…). È un disco spettrale: non è più country, non è rockabilly, non è nulla. È la voce dell’America più reietta in cerca di redenzione. È folk della notte dei tempi.
Sembrava un gioco, invece Cash e Rubin ci riprovano con Unchained, due anni dopo: questa volta c’è una backing band che lo accompagna, gli Heartbreakers di Tom Petty, ma il risultato è ugualmente affascinante. E la sfida ancor più incredibile: canzoni di Beck (Rowboat), Soundgarden (Rusty Cage), che nella sua voce diventano pura e semplice american music.
Non basta: nel ’98 arriva American III: Solitary Man, terzo episodio della storia d’amore con Rubin. Questa volta ci sono brani degli U2 (One), Nick Cave (The Mercy Seat, un condannato sulla sedia elettrica), Will Oldham (I See A Darkness). Musicalmente è una via di mezzo fra i precedenti: parte elettrico (ancora Tom Petty) e parte da solo.
Nessuno si sarebbe aspettato un quarto volume, anche perché negli ultimi due anni Cash è entrato e uscito di continuo dagli ospedali. Oltre ai problemi che si porta dietro da anni (una grave malattia alla mascella che gli blocca la bocca per lunghi periodi) gli è stato diagnosticato il morbo di Parkinson, una polmonite se l’è quasi portato via poco tempo fa ma lui è ancora qui, forte come una quercia.
Indistruttibile: “Mi sono scoperto a non volerla dar vinta alla malattia”, dice oggi Cash. “Ho trovato la forza di lavorare a questo nuovo disco solo per sputare in faccia alla malattia. A volte arrivavo in studio che non avevo voce, mentre avrei potuto starmene a casa a riposare, ma non potevo lasciare che accadesse. Entravo in studio, aprivo la bocca e cercavo di lasciar uscire qualcosa. Sono riuscito a registrare quando sembrava fosse l’ultima cosa al mondo che avrei potuto fare. E quelle canzoni in particolare, registrate in quei momenti, sono quelle dove c’è più passione e fuoco che brucia”.
Hung My Head, di Sting, è il brano che Cash indica come il più significativo fra questi. Ma questa sofferenza indicibile si avverte per tutto il disco, ad esempio nella commovente e portentosa versione di Bridge Over Troubled Water. O nell’incredibile resa del classico dei Depeche Mode Personal Jesus, un autentico sballo sentire questo brano in versione country blues. E cantato da quella voce… Oppure Hurt dei Nine Inch Nails: “Credo che Hurt”, dice Cash, “sia la miglior canzone contro la droga che abbia mai sentito. È una canzone sul dolore dell’uomo e su cosa siamo capaci di fare a noi stessi e la possibilità di non fare più quelle cose. Mi sono trovato perfettamente a mio agio con quel brano sin dall’inizio”. Mentre a riguardo di Personal Jesus Cash dice che è “probabilmente la canzone gospel più evangelica che abbia mai registrato”.
Naturalmente brani dei Nine Inch Nails o dei Depeche Mode sono stati portati alla sua attenzione da Rick Rubin (non crediamo che Cash, a casa sua, ascolti dischi di questo tipo) ma ciò che è stupefacente è la capacità di questo artista a far diventare completamente sue certe canzoni, e soprattutto di far brillare, a noi ascoltatori distratti che Personal Jesus la ballavamo in discoteca, quanto di spirituale e di prezioso ci sia in brani pop che pensiamo fatti per essere ascoltati sotto alla doccia.
Ci sono momenti meno drammatici, in questo The Man Comes Around (che potrebbe essere il più bello dei quattro lavori della serie American Recordings), ad esempio la ripresa di In My Life dei Beatles, semplicemente deliziosa e senza particolari significati reconditi. Altri forse un po’ stucchevoli (Desperado degli Eagles), altri ancora che ci riconnettono direttamente con il Johnny Cash dei Cinquanta e Sessanta (il rockabilly acustico di Sam Hall, l’Hank Williams di l’m So Lonesome I Could Cry, il country sbilenco e alcolico di Streets Of Laredo). Quindi un classico del proprio repertorio, Give My Love To Rose, che incise già nei primi Sessanta, in scarna versione solo voce e chitarre acustiche. Una storia, ovviamente, di morte e prigione. Così come Sam Hall, antica canzone dei cow-boy già incisa decadi fa, in una pimpante versione in cui la voce di Cash è semplicemente strepitosa (“Il mio nome è Sam Hall e vi odio tutti quanti (…) / Dicono che ho ucciso un uomo, che ho spaccato la sua testa / Siano maledetti i suoi occhi”).
E naturalmente l’unico brano che Cash ha scritto appositamente per questo disco, la title-track: “Sette anni fa circa ero in Inghilterra. Una notte sognai che ero a Buckingham Palace e la regina mi diceva: ‘Johnny Cash, tu sei come un biancospino in una tempesta’. Non capivo che diavolo significasse. Sette anni dopo trovai la parola ‘tempesta’ leggendo la Bibbia. Cominciai a seguirne le concordanze attraverso vari libri e studiando attentamente il Giorno del Giudizio e il Libro della Rivelazione. Cominciai a scrivere una poesia. Scrissi dozzine di versi, pensavo di star componendo uno dei miei testi più bizzarri ma cominciavo anche a intravedere una canzone. Sentivo che dovevo andare a fondo e completare il brano”. Uno sforzo titanico per un uomo così malato, ma valeva la pena arrivare in fondo.
Ci sono ancora attimi preziosi, in questo disco, come l’incredibile bellezza e la tristezza indicibile che traspaiono da First Time I Saw Your Face: come un uomo che sul letto di morte sta dicendo addio a tutte le cose belle che la vita gli ha dato. Se Johnny Cash sta lasciando un testamento, è questo. Né ci poteva essere conclusione più appropriata di We’ll Meet Again, “ci riconteremo di nuovo”, lo standard degli anni Quaranta che è un arrivederci da parte dell’uomo in nero. Perché lui non ha nessuna intenzione di mollare la corsa.
Rick Rubin, come le altre volte ma ancor di più e ancor meglio questa volta, ha messo intorno a questa voce un tappeto sonoro perfetto: chitarre acustiche, un violino in poche occasioni, un coro di voci the sembrano i Jordanaires, tastiere che suonano come un organo di una chiesa sperduta nel profondo della provincia americana, una chiesa abbandonata da tutti ma che lancia ancora un messaggio inquietante per chi ha voglia di ascoltare (sentitelo come unico sottofondo a Danny Boy: Rick Rubin è un genio certificato), basso e batteria in un’unica occasione e la voce della moglie June Carter in un paio di brani (Bridge Over Troubled Water e Desperado). Un accompagnamento scarno ma assolutamente imprescindibile, che dà sfumature essenziali ma lascia risaltare l’unica cosa che davvero conta in un disco come questo: la voce. Quella di Johnny Cash dovrebbe essere registrata all’ufficio apposito come l’ultimo tesoro nazionale americano.
Paolo Vites, fonte JAM n. 87, 2002