Capita a volte di mettersi a recensire un disco condizionati da profondi pregiudizi. È quanto è successo a me iniziando ad ascoltare questo The Long Run, sesto ed ultimo album nella discografia degli Eagles. Questo perché tutti i mezzi fiaschi delle eminenze musicali californiane non concedevano un gran credito al country rock di Los Angeles e dintorni. Gli Eagles poi dopo quasi tre anni di silenzio discografico non sembravano avere molte cose da dire, così almeno credevo io. La band infatti proveniva da un periodo davvero poco esaltante, occupato da avvenimenti talmente marginali che vale la pena di ricordare per puro dovere cronachistico ed informativo.
Mi riferisco alla sostituzione di Randy Meisner con l’ex bassista dei Poco Timothy B. Schmit ed alla uscita di un 45 giri inedito che possiede però esclusivo valore collezionistico per la povertà espressiva dei brani contenuti. A questo si aggiunga l’insistente vociferare creatosi attorno al progetto di dare veste cinematografica alle vicende del famoso Desperado e l’accavallarsi di notizie sulla registrazione del sospirato The Long Run (si pensava ad un certo punto che il disco avesse per titolo What Would Robert Mitchum Do?). È tutto. Davvero poco per la band titolare di un’opera da leggenda come è Desperado, raffinata mediazione tra la tradizione espressiva americana del country e del bluegrass e forme musicali più recenti codificate nel tagliente linguaggio del rock.
Dal ’77 ad oggi gli Eagles hanno praticamente vissuto sulle rendite astronomiche di Hotel California, distaccandosi progressivamente dalla semplice immagine di musicisti ispirati, col risultato di somigliare ad oziose e compiaciute superstars come ce ne sono tante in giro (si confronti la copertina del singolo ricordato più sopra). Con questo si spiegano le incertezze che ho espresso prima. Appurato infatti che la difficoltà maggiore del successo, quando lo si è conquistato, è quella di saperlo mantenere, anzi di accrescerlo, se è possibile, mi immaginavo di dover ascoltare chissà che in questo album delle Aquile. Melensaggini, sviolinate, easy-rock dei più futili, perfino l’aborrito disco-sound che non mi è mai entrato in simpatia, fatte le dovute e limitatissime eccezioni. Niente di tutto questo compare per fortuna all’interno di The Long Run che rilancia decisamente gli Eagles ai vertici della musica californiana.
L’opera, concepita con gusto incredibile, unisce un raffinato equilibrio espressivo ed un’estrema cura formale e strumentale. La musica scorre omogenea, priva di particolari variazioni tonali, seguendo principalmente il filone della ballata, uno stile tipico della West Coast. Quasi del tutto scomparsi i riferimenti alla tradizione rurale (soltanto nella title track e nella canzone finale troviamo timidi accenni al country), gli Eagles scelgono modelli musicali urbani adottando ritmi funky e rock. I due generi trovano sintesi esemplare nell’ossessiva The Disco Strangler, certamente più interessante dell’augurio natalizio di Funky New Year.
Molto vicina al rhythm’n’blues è anche Heartache Tonight, scritta da Don Henley e Glenn Frey con la complicità di John David Souther e di Bob Seeger, quest’ultimo concittadino e grande amico di Glenn Frey. Interpretata con uno stile degno del rock’n’roller di Detroit la canzone, sicuramente tra le migliori dell’LP, è stata scelta come singolo con la speranza che “Qualche volta prima che sorga il sole / La radio suonerà questa canzone”. Il contributo personale di Joe Walsh, slide guitarist di gran classe, è rappresentato da un motivo, al solito, molto spigoloso che raccoglie diverse immagini di vita cittadina: In The City.
Più rilassata è invece la composizione dell’ultimo arrivato Tim Schmit che firma assieme a Henley & Frey I Can’t Tell You Why, una sofisticata love song direttamente riconducibile al suono dei Poco. In chiusura delle rispettive facciate troviamo i temi forse più artisticamente validi dell’intero album (Those Shoes comunque mi sembra altrettanto bella). Si tratta di The Sad Café, una ballata condotta col gusto tipico della California meridionale, e di King Of Hollywood che possiede nella sua misteriosa, avvolgente atmosfera un’indescrivibile potenza suggestiva.
Al termine di questa recensione si rendono necessarie due considerazioni. La prima è che la confezione del disco vanta la stessa sobria eleganza dell’organizzazione musicale, anche se la mancata inclusione delle liriche (che sembrano prediligere il tema sentimentale) rende forzatamente parziale la comprensione dell’opera. In secondo luogo bisogna rilevare che la ricca complessità vocale e strumentale degli Eagles è rimasta immutata. Anzi i suoni e le armonie che hanno fatto la fortuna del gruppo acquistano qui rilievo particolare, in forza di un senso della professionalità altissimo. La Lunga Corsa degli Eagles conferisce pertanto al gruppo di Los Angeles l’enorme dignità che tre anni di stasi avevano messo in discussione.
Asylum 5E-508 (Country Rock, 1979)
Cesare Barani, fonte Mucchio Selvaggio n. 24, 1979
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