Eagles – Live cover album

A dispetto della quasi totalità della critica, che ha sempre considerato Desperado il capolavoro degli Eagles, ho ritenuto, sin da quando usci oltre quattro anni fa, Hotel California la reale sublimazione artistica del gruppo, suprema sintesi della lirica poesia del binomio Henley & Frey, suffragato da un Joe Walsh allora emergente sia come chitarrista che come compositore, da un Randy Meisner ancora emotivamente ispirato e sanguigno e da un Don Felder preso per strada come chitarrista aggiunto ma conquistatosi a poco a poco uno spazio suo nell’equilibrio del suono della band.

Dopo di allora, invano si è atteso un follow-up di pari potenza espressiva. Che le aquile fossero in crisi di rigetto, ormai ricchissimi giovanotti con nulla più da chiedere allo stesso business musicale, lo si è letto da più parti. Il singolo di quel Natale, con un brano bruttino e l’altro peggio, suonò come campanello d’allarme. A quel punto, o forse anche prima, il quintetto avrebbe dovuto far uscire un live, anche se il termometro della sua popolarità segnava sempre bel tempo, e HC continuava imperterrito a vendere. Ci siamo sentiti invece a quell’epoca tutta una serie di bootlegs di qualità più o meno scadente di loro concerti, e alla fine ecco pubblicato The Long Run, parziale delusione (disco buono ma non eccelso) se paragonato al fulgido predecessore.

A un anno esatto di distanza, ecco invece il doppio dal vivo che in genere in una discografia segna il momento di riflessione e di stasi, di considerazione per il passato e di propositi per il futuro. Spesso il live maschera pure l’assenza di creatività del momento e serve a far guadagnare un po’ più di quattrini a tutti (è ben noto come costi assai meno di una lunga e stressante seduta di incisione, a volte di mesi, in studio), qui non è nemmeno il caso di fare un discorso del genere (valido, più che oggi, due o tre anni fa): godiamoci invece le riedizioni di quelle songs che ci hanno cullato nei primi seventies, senza porci altre domande su quello che gli Eagles saranno o faranno domani.

Chi ha amato, smisuratamente, come me, gli Eagles, testimoni e iniziatori di un suono mitico, inimitabile, cosi ricco, umano, denso di atmosfere di commozione e struggente bellezza, può soltanto essere lieto della loro parca produzione (sette album in dieci anni). Le registrazioni coprono due distinti periodi della vita del gruppo: cinque brani del 1976, il resto è targato 1980. Nonostante la naturale usura del tempo, i primi non appaiono per nulla datati: risalgono all’ottobre, le serate sono quelle del 20-21 e 22 al Forum di Los Angeles.

Dubbi sussistevano sulla presenza di Randy Meisner, per il quale sulle note di copertina non è stato trovato neppure un millimetro. C’è una intera colonna di special thanks, per chi ha portato la birra o le ragazze, ma per Randy, niente. Va bene che ebbe il torto di litigare con Glenn Frey, e per questo dovette andarsene, però… Fu membro ufficiale del gruppo per oltre cinque anni e non meritava un trattamento simile. Ricordo che il suo pezzo presente su RC, Try And Love Again, fu uno dei primi ad essere registrato, e l’ex-Poco se ne andò nel mezzo della realizzazione del disco (non appare quindi in tutte le selezioni); in una strana quanto suggestiva concomitanza, anch’egli esce in questi giorni con un album, più che buono e migliore di quello d’esordio.

Vediamo comunque in dettaglio i singoli brani. New Kid In Town la canzone dell’arrivo di Joe Walsh nel gruppo, e Wasted Time, sofferta e sensuale, entrambe da HC, non si discostano troppo dall’originale, due stupendi esempi di ballate fascinose e ipnotiche, lucide e tutt’altro che estemporanee, il marchio indelebile di questo suono che ti scolpisce dentro emozioni cosmiche, destinate all’eternità. Take It To The Limit la canta proprio Meisner, che la scrisse a suo tempo con Henley & Frey, e resta qui quell’affresco composto e sublime, dall’afflato corale così tenero, così illuminante e ispirato: il lamento vocale in chiusura è una cosa da antologia, si stempera fra gli applausi.

Da Desperado vengono estratti il brano omonimo e la seconda reprise (con orchestra) di Doolin’ Dalton, con un lento inizio pianistico la prima, in solo con la voce così piena di anima di Henley, mentre la seconda è un semplice proscenio strumentale al brano che segue. La line-up di queste songs è dunque Frey, Meisner, Walsh, Felder, Henley, cioè la migliore che le aquile non abbiano mai avuto. Tutti gli altri pezzi presentano invece Timothy B. Schmit al basso, John David Souther (musicista aggiunto del giro, uno dei figli della prateria, co-autore di numerose tracks in repertorio degli Eagles) harmony-vocals e acustica, il solito Joe Vitale, ex-Barnstorm con Walsh, che suona tastiere e percussioni, Phil Kenzie, Vince Melamed e Jage Jackson.

Interessante l’inedita Seven Bridges Road di Steve Young, contenuta nel suo album No Place To Fall: si tratta di una song resa in modo molto suggestivo, specie per la parte vocale. È completamente acustica (due chitarre), ricca di atmosfera e ricorda moltissimo CSN&Y di Find The Cost Of Freedom su Four Way Street per la grossa carica di commozione corale sprigionata.

Pure inediti sono altri due brani di Joe Walsh, almeno come gruppo: Life’s Been Good (dal solo But Seriously, Folks…) in cui l'(ex?) ragazzo dell’Ohio vi esegue una parte vocale con il solito roco sarcasmo e una strumentale sprizzando le magiche note alla solista che ben gli conosciamo, oltre otto minuti di incandescenti lapilli chitarristici; e All Night Long, a current hit, già in classifica come singolo, inciso da lui solo però, un eccellente rhythm & blues nel suo migliore stile: per Joe, l’avrete capito, ho sempre avuto un debole, mi piace la sua faccia, forse perché, contrariamente agli altri, è proprio brutto… Questi due, insieme con Life In The Fast Lane (penned in collaborazione con Henley e Frey), ci forniscono l’immagine più hard del suono della band, che però, non dimentichiamolo, aveva dalla sua episodi rockeggianti già nei primi album (Take the Devil, Out Of Control, Certain Kind Of Fool…).

Caught in the act fra il 27 e il 31 luglio di quest’anno al Civic Auditorium di Santa Monica e alla Long Beach Arena, sono dunque questi ultimi quattro e tutti gli altri. Dalla magia non dimenticata di Hotel California, con un bell’intervento al sax che la discosta un poco dall’originale, di Saturday Night, ultima, grande, reminiscenza di Bernie Leadon (a proposito, che fine avrà fatto?) con il gruppo a quattro in formazione di partenza di Take It Easy così casta e perfetta, dolce e lineare, piena di emotivo trasporto. Al passato più prossimo di The Long Run, Heartache Tonight, Can’t Tell You Why, che stagliano nell’aere il momento ora oscuro e preoccupato, ora delicato e romantico, ora sobrio e sensibile.

Si avverte forse la mancanza di canzoni come Already Gone, James Dean, One Of These Nights, Lyin’ Eyes, Midnight Flyer, presenti sugli illegali cui facevo cenno. È comunque un grosso disco questo, che riproietta il gruppo verso posizioni di prestigio e eccellenza. Solo una cosa: la partenza di Leadon non causò scompensi, anzi. Quella di Meisner, sì. Non è più la band di HC ed è un vero peccato. Ma staremo a vedere.

Asylum BB 705 (Country Rock, 1980)

Pietro Noè, fonte Mucchio Selvaggio n. 36, 1980

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