Whenever We Wanted è l’ultimo ruggito del ‘Cougar’ (John Mellencamp) che, abbandonato il suo feroce soprannome, ha rispolverato l’aggressività e la violenza dei vecchi tempi.
E’ bello, ha lo sguardo magnetico, ne ha vissute così tante da poter raccontare qualunque panzana alla avvenente di turno e convincerla di non starle guardando le gambe ma di essere interessato alla sua personalità, regge quantità di alcool da far invidia a Tom Waits, scrive canzoni da quasi vent’anni e le canta con una tale grinta da non poterlo ignorare, anche se non amate il rock o le chitarre infuocate.
E’ John Cougar Mellencamp (per un periodo solo Cougar, ora solo Mellencamp… ma quante personalità possiede?), proveniente da Bloomington, Indiana. Ricordate la storiella di Will T. Massey su Hi, Folks! 49? Bè, non esageravo quando affermavo che non si tratta di granchè di nuovo. Negli States cambiano i nomi dei paesi, dello Stato di appartenenza, magari qualche faccia ma i bar, le scuole, le donne, il bigottismo, gli idoli, la noia e la voglia sporadica di trasgredire rimangano identici. Will non ha forse conosciuto di persona John Mellencamp/Cougar ma forse avrebbe qualche consiglio da chiedergli se ne avesse occasione.
Perchè la freschezza dei vent’anni John se l’è bruciata un bel po’ di tempo fa. Niente rimpianti, beninteso. Se la deve essere spassata mica male se viene definito (al tempo) il terrore delle mamme di Bloomington (chissà che direbbero le nostrane, ingenue, ridicole Mamme Rock; l’Indiana non è poi così distante dall’Emilia, allora..) e continua a inseguire i fantasmi di James Dean con la perseveranza del classico sbandato. Questione di gusti, direte voi. Sicuro. Certi personaggi sono un po’ fuori moda nei nevrotici anni novanta ma qui bisogna fare un salto indietro fino agli inizi di due decadi fa, per capire qualcosa di un rocker che oggi si ripresenta con l’energia e la sicurezza di Whenever We Wanted.
Il primo capitolo della carriera artistica del giovanotto provinciale è, come suggerisce lo stesso titolo, una quasi-casualità. Chestnut Street Incident nasce per merito di un concorso promosso da una marca di pane per fast food: soldini investiti in un demotape consegnato ad un certo De Fries che diventerà, in seguito, acerrimo nemico di John Mellencamp, arrivando a pubblicare delle registrazioni scadentissime con il solo scopo (disatteso) di spremere la gallina fino in fondo. Ad ogni modo è un inizio, seppur di scarso valore artistico. Due anni più tardi, dopo le frustrazioni derivanti dal precedente, burrascoso contatto con il music business, non ha ovviamente ancora messo la testa a posto. Passa il tempo a sgolarsi nei bar e diners della zona d’origine ed inizia a crearsi un certo nome tra i ragazzotti dediti al consumo quotidiano di Rock’n Roll. Escono A Biography e John Cougar. Sarà anche un delinquentello come qualcuno lo definisce ma le possibilità di entrare in studio evidentemente non gli mancano. Sono queste le stranezze che alimentano il sogno americano.
Ed ancora: Nothin’ Matters And What If It Did (titolo pregno di speranza e desiderio di cambiare ) con i suoni levigati al punto giusto per addolcire un Rock altrimenti imbizzarrito e (forse) pericoloso.
Nel 1982, tuttavia, il sangue che ribolle non può più essere incanalato nei binari della regolarità ed omologazione. American Fool segna un passaggio importante nella maturazione del songwriter. Apre, in un certo senso, la strada che porta al presente di Whenever. Quasi dieci anni dopo, ancora le stesse chitarre strapazzate sullo sfondo ossessivo del drummer Kenny Aronoff, canzoni più urlate che cantate (ma non confondiamo con bieco heavy metal, per favore), sudore. Quello che è da verificare è se potrà ripetersi il successo inaspettato ed incredibile del ‘pazzo americano’, vero hit a 33 giri che regala fama e soldi ad uno squattrinato e (tuttosommato) rozzo provinciale.
Nonostante una critica schierata decisamente contro, l’album vende infatti la bellezza di cinque milioni di copie e porta Cougar ad aprire centoquattro concerti per gli Heart. Ancora niente Tour da protagonista ma una fama in costante ascesa se consideriamo le ventimila unità di Chestnut Street Incident con cui aveva cominciato.
E’ tempo di buttarsi completamente nel lavoro, sfruttare il credito ottenuto presso il grande pubblico e, se possibile, far cambiare opinione alla stampa specializzata. L’anno seguente arriva Uh-Uh che ricalca in parte lo stile inaugurato da poco. C’è più maturità nell’affrontare il repertorio, maggiore convinzione. Le scelte sono state, più o meno definitivamente, fatte.
Da molte parti si sente paragonare Cougar ad un novello Springsteen (ma quante volte ci hanno propinato presunti ‘nuovi Dylan’?) o decantare le influenze Stonesiane della sua musica tre-accordi-e-via. Quello che è certo è che la voce ha decisamente trovato una personalità precisa che sa adattarsi alle nuove tematiche che l’artista affronta. Iniziano a stemperarsi nella consapevolezza dell’adulto alcune esagerazioni degli anni passati. Non cambia il feeling di base ma è opportuno concedere qualche attimo di attenzione in più ai testi.
Uh-Uh si assesta su un onorevolissimo livello di quattro milioni di copie, abbastanza vicino al clamoroso record di American Fool che aveva incoronato con il disco d’oro la traccia Jack & Diane.
Se l’82 segna una svolta nell’approccio propriamente musicale del rocker, il 1985 è quello del maggior impegno organizzativo. Coordinare infatti Willie Nelson e Lou Reed, l’uscita di un nuovo disco a proprio nome e la produzione dell’album Hard Line dei Blasters non è impresa da poco per chiunque, figuriamoci per un ex ragazzotto ribelle dell’Indiana. L’impegno sociale di Cougar in favore degli agricoltori è il risultato di una presa di coscienza sul proprio paese che va al di là della constazione formale delle politiche economiche distorte volute da Reagan. C’è di più. Il rendersi conto di non costituire nucleo a se stante, un aprire gli occhi verso le problematiche di chi non vive la propria stessa esistenza. In definitiva si perfeziona quella maturazione iniziata con Uh-Uh, quel diventare uomo che non rinnega, ma comunque supera, il bighellonare in moto da un bar all’altro in cerca di donne.
Scarecrow diventa il diario musicale del momento. Ancora più attenzione viene data alle liriche; e questo si nota particolarmente in Small Town e Minutes To Memories. La forma che riveste le parole rimane scarna ed aggressiva.
Ormai, però, è tempo di trovare compositiva esuberante. Le radici del rock sono state rivisitate. I tributi sono stati tutti ampiamente pagati.
John Mellencamp impiega due anni a trovare quel qualcosa che sia degno di essere portato in studio assieme alle nuove songs. Il quid è la passione che sboccia per gli strumenti acustici. In The Lonesome Jubilee fisarmoniche, fiddles, washboard, banjo, dobro e hammered dulcimer fanno capolino dalle tracce. Il risultato è di una freschezza salutare. Sia il protagonista che i fans (anche stavolta si viaggia sul filo delle quattromilioni di copie) sentivano il bisogno di un cambiamento. E’ tempo di andare ancora più indietro nelle radici. Scoprire appieno Woody Guthrie, il bluegrass, il Cajun. Assaporare suoni nuovi. Inutile dire che la voce si piega benissimo anche alla nuova virata. Check It Out è il titolo della mia canzone preferita ed una esortazione personale a dare una controllatina all’album.
A settembre dello stesso anno di Lonesome il terzo Farm Aid a Lincoln, Nebraska. Dal Novembre al Luglio ’88 centotrenta concerti che portano John Mellencamp in dieci paesi diversi di fronte a complessivi un milione e mezzo di spettatori. Poi, una inevitabile pausa per ripresentarsi un anno dopo con Big Daddy. Ritratto in copertina con in braccio uno splendido bambino, ci racconta per l’ennesima volta di se e del suo cambiare.
Sono scomparse le asprezze di Uh-Uh ma un po’ anche la vivacità di Lonesome. Toni soffusi e raccontati con maggiore calma. Gli anni passano per tutti. E i nuovi youngsters non ci stanno. Dalle cifre iperboliche si passa a quelle di un artista di valore ma non più ‘di massa’. Big Daddy raggiunge solo un quarto degli ascoltatori delle ultime due produzioni. Il ‘little bastard’ (così era il soprannome di un tempo) non esiste più e siamo di fronte, probabilmente, ad un uomo completamente diverso da quello rabbioso del 1982.
Ma ls storia non è finita e potrebbe riservare sorprese, perché “whenever we wanted”…
Enrico Nuti, fonte Hi, Folks! n. 50, 1991