Un’intervista esclusiva con uno dei più grandi cantautori del secolo, James Taylor. ‘Sweet Baby James’ confida speranze, timori, sogni e fantasie in concomitanza con l’uscita del suo nuovo, eccellente album New Moonshine.
“Hello, this is James Taylor”. Ricevere una telefonata del genere non capita tutti i giorni specie quando all’altro capo dell’apparecchio c’è un personaggio che ha avuto un ruolo così importante nello sviluppo dei tuoi gusti musicali e che in un certo senso è stato la colonna sonora degli anni più formativi della tua vita. Ritrovare James, a diversi anni di distanza dall’ultimo incontro, in grande forma fisica e artistica è sicuramente un grande piacere.
Il suo ultimo lavoro New Moonshine è davvero affascinante e ripropone il James Taylor che tutti gli appassionati desiderano, dolce e amaro, sofisticato e popolare, melodico e trascinante: tutte quelle combinazioni ai quali ‘Sweet Baby James’ ci ha da sempre abituato rendendo qualsiasi brano estremamente personale e immediatamente riconoscibile.
Dotato di uno stile unico e inimitabile, James Taylor da più di vent’anni è considerato un ‘classico’ della musica contemporanea, un personaggio di culto con un’immagine pulita e senza scalfitture. La sua umiltà, il suo ‘gentleman style’, la sua tenera insicurezza traspaiono da questa conversazione che tocca argomenti intimi così come problematiche universali.
La classe non è acqua e James Taylor lo dimostra anche senza il bisogno di imbracciare una chitarra.
HF: Hai esercitato una enorme influenza su milioni di giovani. Cosa provi quando pensi all’importanza che hai avuto nell’indirizzare scelte e gusti di tanta gente?
JT: Cerco di non pensarci troppo, potrebbe essere imbarazzante. La mia musica è iniziata ad esistere soprattutto per un mio personale bisogno di espressione, un qualcosa che è servito soprattutto ad aiutare me stesso. E’ evidente che mi fa piacere sapere che altre persone apprezzino le mie canzoni e mi sento ovviamente gratificato e onorato di avere avuto una così grande presa sul pubblico.
HF: Molti giovani cantautori ti citano come uno dei loro principali riferimenti. Vedi tra di loro un nuovo James Taylor o riesci a scorgere il ‘figlio’ che tu e Joni Mitchell non avete mai avuto?
JT: Dovrei pensarci. E’ una domanda intrigante, ma davvero non riesco a vedere qualcuno con queste caratteristiche.
HF: Posso suggerire un nome? Cosa ne pensi di Marc Cohn?
JT: Oh, certo. Marc è grande. E’ molto espressivo, intenso e sicuramente c’è qualche cosa in comune con lui, nella ricerca delle linee melodiche, per esempio.
HF: Nonostante l’avanzata di alcuni giovani talenti, sembra che le cose migliori continuino a venire da gente come te, Joni Mitchell, Paul Simon, Bob Dylan, Lou Reed, Neil Young e tanti altri miti degli anni ’60 e ’70. Si tratta di coincidenze fortunate o quell’era aveva davvero un’energia e una ricchezza di atmosfere non più riscontrabili ai giorni nostri?
JT: Non c’è dubbio. Gli anni ’60, in modo particolare, contenevano una magia. lo ho praticamente iniziato in quegli anni e, non ti saprei spiegare come, ma risultava davvero facile comporre, scambiare ispirazioni: è stato un periodo di straordinaria creatività.
HF: Cosa mi dici della JT Acoustic Band?
JT: Tutto è iniziato con la collaborazione con Marc O’ Connor. Ha suonato nel mio disco precedente (Never Die Young), poi mi ha chiesto di partecipare ad un brano nel suo album. Sono stato a Nashville a registrare e lì ho incontrato dei musicisti straordinari: Jerry Douglas, Edgar Meyer, il percussionista Tom Roady, il tastierista John Jarvis. Sono strumentisti fantastici e con loro è scaturita una naturale complicità. Così ho deciso di creare questa band tutta acustica con la quale ho partecipato al Festival di Telluride, nel Colorado, e ad alcuni concerti di beneficienza. Non so cosa potrà succedere in futuro. La mia speranza è di poter fare un vero e proprio tour con questa band e di poter suonare ancora con questi talenti.
HF: Nel tuo ultimo album c’è un brano curioso che si chiama Frozen Man. E’ forse un brano autobiografico?
JT: Un poco. E’ una canzone che parla del risveglio di una persona che è stata ibernata per anni, che viene ‘scongelata’ e ritorna a nuova vita. Questo è il contenuto letterale; il messaggio del pezzo può anche essere letto metaforicamente come lo svegliarsi dopo un lungo periodo di torpore o di sonno e quindi di estraniazione dalla realtà. E’ vero, Frozen Man è un pochino autobiografico, ogni tanto mi sento davvero come qualcuno che si è addormentato per anni e che è ritornato ad una vita reale.
HF: Il titolo dell’ultimo album New Moonshine ha qualche riferimento all’alcol? (il whiskey distillato clandestinamente di notte durante il proibizionismo veniva chiamato ‘moonshine’ – chiaro di luna – n.d.a.)
JT: Anche, ma è soprattutto una contraddizione. La nuova luna è scura e di fatto non può illuminare.
HF: Te lo chiedevo perché la tua passione per la birra è nota ….
JT: Sì, al punto che io e mio fratello da anni stiamo pensando di installare una fabbrica di birra a Martha’s Vineyard (isola poco lontano dalla costa di Boston dove la famiglia Taylor ha una bellissima casa, n.d.a.).
HF: In passato hai dovuto combattere contro l’abuso di alcol e droghe. Ma il tuo pensiero su questi problemi è abbastanza singolare perlomeno secondo quanto dichiarasti a Bill Flanagan in un’intervista in cui testualmente dicevi: “Non credo che la droga o l’alcol siano qualcosa di negativo. Per me sono stati una perdita di tempo e hanno creato molta confusione”. Sei sempre della medesima opinione, oggi?
JT: E’ da molto che non faccio più uso di droghe e spero di non doverlo mai più fare. L’assuefazione alla droga è tremenda. Quello che volevo dire in quell’intervista si riferisce al fatto che, di per sé, la droga o l’alcol non sono ‘il male’. Se, infatti, le persone fossero in grado di poterli controllare sarebbe fantastico. lo non ci riesco.
HF: Nell’album ci sono diversi riferimenti alla guerra e ad altri argomenti di carattere sociale. Come persona sensibile che ha partecipato a tante iniziative di raccolta di fondi per cause umanitarie quali sentimenti provi per un mondo che sta cambiando a velocità supersonica?
JT: Ci sono molte cose che stanno cambiando. Il mondo sta veramente diventando una comunità globale. Non penso che questa tendenza debba essere necessariamente associata con il concetto di pace, anzi probabilmente potrebbe essere un mutamento doloroso e violento. La popolazione mondiale sta sotterrando l’intero pianeta e il problema ambientale sarà nei prossimi cinquant’anni il più importante e controverso argomento di discussione, nessuno potrà più ignorarlo. I nuovi sistemi di comunicazione hanno già cambiato e continueranno sempre più drasticamente a modificare il modo di relazionare. Nonostante ci siano già segnali precisi di questi radicali cambi di stile di vita, la gente, specie qui in America, continua a negare la realtà delle cose. Troppe persone in questo paese continuano a pensare che gli Stati Uniti siano una specie di Hollywood o di perenne Disneyland. Non può andare avanti così. La gente non vuole assumersi le proprie responsabilità.
HF: Come musicista pensi che la musica possa avere un ruolo-guida nell’influenzare le decisioni politiche, culturali o sociali? Negli anni ’60 e ’70 Crosby, Stills & Nash cantavano “we can change the world”. Credi che sia ancora possibile?
JT: Secondo me la musica non ha mai realmente cambiato le cose ma ha, semmai, espresso o sottolineato dei cambiamenti che erano già in atto. La musica serve a volte a chiarire, a mettere a fuoco i cambiamenti in atto ma non li può provocare: accadono spontaneamente. Devo dire che anch’io, a volte, ho scritto canzoni ‘politiche’ ma è capitato raramente perché mi risulta difficile scrivere dei brani che esprimano il mio pensiero politico. E’ assai più facile per me raccontare in musica delle cose personali.
HF: Hai suonato con grandi musicisti. C’è qualcuno in particolare con cui vorresti fare qualcosa?
JT: Oh, certo. Mi piacerebbe registrare qualcosa con Aretha Franklin, con Ry Cooder e con Randy Newman.
HF: Hai mai pensato all’idea di riunire i tuoi fratelli e tua sorella e di dare vita alla Taylor Family?
JT: Sì, ne abbiamo parlato diverse volte. Ci aiutiamo spesso nei nostri lavori solisti ma non è ancora pronto il progetto di un album insieme.
HF: Il tuo stile di chitarra, così sofisticato e personale, ha certamente preso forma dall’ascolto di grandi strumentisti del presente e del passato. Chi sono i tuoi chitarristi acustici preferiti?
JT: Direi senz’altro Leo Kottke e soprattutto Ry Cooder.
HF: Una volta la tua ex-moglie Carly Simon disse di te: “James è un sognatore, gli piace sognare di cose che non riesce a fare, di posti in cui non è mai stato, di situazioni che non ha mai vissuto”. Ti ritrovi in questa descrizione e quali sono i tuoi sogni, oggi?
JT: Non so. Non so se sono un sognatore più di quello che può esserlo chiunque altro. Sogno la pace, la serenità ….
HF: Stavo pensando anche a sogni ‘musicali’. Dopo 11 album d’oro, 4 di platino, una carriera ventennale sei ormai un classico, puoi fare praticamente ciò che vuoi.
JT: Nonostante tutto, ancora oggi, sono costretto a tener conto delle regole di mercato. E’ difficile resistere al successo. Ma la cosa principale è che io voglio continuare a scrivere, a suonare, a cantare. Non ho programmi di cambi radicali ma al tempo stesso sono curioso di scoprire come tutto ciò si svilupperà.
HF: So che i tuoi figli sono appassionati di musica. Mi chiedo come hai potuto spiegare a loro che ruolo determinante la musica ha avuto nella tua vita e qual è il miglior modo di comunicare a un bambino questi valori artistici.
JT: Credo che la cosa migliore sia di metterli in condizione di ascoltare la buona musica. Di fargli ascoltare, che so, Ray Charles, Aretha Franklin, Hank Williams, Ry Cooder. Io, di solito, lo faccio con i miei figli e loro sono in grado di recepire ed apprezzare la buona musica per quello che è.
HF: Quando rivedremo James Taylor in Italia?
JT: Probabilmente il prossimo Aprile.
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 50, 1991