Leon Redbone

Personaggio scomodo, quasi incompatibile con il music business nelle sue ideologie rasenti la fissazione, Leon Redbone cala a Milano per presentare le sue ultime ricerche ed elucubrazioni canore. Coadiuvato unicamente da un cornettista ed una suonatrice di dobro, l’eccentrico musicista sfodera un concerto di tale raffinatezza, equilibrio, pathos e perizia da lasciare il folto pubblico dello Schocking Club milanese completamente soddisfatto e convinto di aver presenziato una serata ‘diversa’ ma, allo stesso tempo, divertentissima.
Non è facile coinvolgere con tre strumentini acustici (Leon è un ottimo quanto atipico chitarrista) ed una voce cavernosa al punto di sfiorare l’incomprensibilità, eppure il trucco non c’è, o almeno non si vede. Verrebbe da ricordare il vecchio adagio secondo cui la classe non è acqua. Fatto sta che per una buona ora e passa ci si dimentica di vivere nel nostro stressato 1991 e si torna a quelli che, secondo il protagonista, costituiscono i tempi in cui la ‘vera’ musica americana prosperava: praticamente non oltre il 1930… chiudete gli occhi, riportate alla mente qualche buon, vecchio film ed ascoltate direttamente le sue parole.

LR: Tutto ciò che canto e suono è musica americana, vera musica americana. Il mio repertorio è come una fetta di storia a stelle e strisce. Sono interessato solo a forme musicali del diciannovesimo secolo fino a circa gli anni ’30. E’ lì che sono le mie radici. Credo di riuscire bene a proporre gli stili nati nei ’20, anno più, anno meno….che sono una combinazione di suoni diversi ed includono anche l’aspetto ‘hillbillie’, proveniente dalla popolazione bianca. Ma forse il grosso viene dai neri, dalle incisioni fatte, come detto, negli anni ’20.
Per capire di cosa sto parlando è importante sapere cosa era la musica americana prima di quel tempo, perché i neri cominciarono a registrare proprio in quel momento. La ragione principale è stata l’inizio dell’industria discografica. Questo è un punto molto importante. Prima non esistevano i dischi. L’idea di partenza era registrare musica nera, ovviamente selezionata, e vendere questo nuovo prodotto.
Era Blues, principalmente. Pensa, qualcosa che nasceva nei campi, spontaneamente, veniva portato nelle stanze d’albergo e poi negli studi per venire registrato e successivamente venduto. Una rivoluzione che oggi viene data per scontata. Non è una evoluzione storica, è qualcosa di artificiale creato con uno scopo preciso.

HF: Ma cosa significa questa rivoluzione, come si inserisce nelle pieghe delle mille sfaccettature del patrimonio tradizionale statunitense?
LR: Prima degli anni venti l’America era una terra libera di spirito. Una volta che gli USA iniziarono ad interessarsi della politica mondiale ha avuto inizio un processo di contaminazione con il resto del mondo. Anche questa è stata una rivoluzione. Quello che mi preme dire è che praticamente dalla prima guerra mondiale in poi, molte cose sono cambiate nel mio paese, ovviamente anche l’arte si è modificata. L’America è diventata un enorme pentolone dove si sono mescolate culture diversissime. E’ una cosa buona? Personalmente credo di no perché può eliminare quegli elementi di unicità che la nazione possiede. Non c’è più indipendenza, non c’è più libertà nel mondo d’oggi. L’ultimo posto dove si potevano trovare queste due cose erano gli Stati Uniti fino al 1920.

HF: Ma scusa, gli Stati Uniti sono per definizione una Nazione nata dall’unione di culture estranee le une alle altre. Per non parlare del discorso ‘schiavitù’ che ha estirpato gente proveniente da continenti diversi con la forza. I neri hanno introdotto il Gospel, il Blues, gli Irlandesi musica per danza, i tedeschi le loro canzoni. Come puoi affermare che la comunicazione tra i popoli è negativa?
LR: Ma fino al momento di cui parlavo c’era un melting pot in una nazione che promuoveva la libertà dell’individuo. Oggi non è più così. La cultura globale schiaccia la libertà individuale. Lo stato delle cose ai tempi permetteva il perseguimento di questo scopo di fondo.

HF: E gli schiavi allora? Anche loro erano arrivati laggiù per ottenere la libertà individuale?
LR: Questa è un’altra storia. Possiamo parlare di schiavi siriani, italiani. Ma è tutta un’altra discussione.

HF: Okay, non mi convinci ma vai avanti.
LR: Quello che voglio dire è che il fatto di mescolare continuamente i valori culturali di un paese porta inevitabilmente alla perdita dell’individualità ed in ultima analisi della libertà. E’ accaduto con l’industria discografica, quella cinematografica, con tutti i mezzi che hanno messo in comunicazioni razze e culture che niente avevano a che fare. C’è una logica di profitto dietro a tutto questo, comunque. La musica diventa entertainment che può essere venduto. Il concetto della musica per le masse è nuovo e ha cominciato a prendere forma appunto con l’avvento delle registrazioni. Questo ha dato vita alle case discografiche che hanno guadagnato montagne di soldi.
Oggi viviamo tutti nello stesso modo: abbiamo soldi, lavoriamo per averne di più e poterli spendere. Poi il ciclo ricomincia. Sempre in misura maggiore, schizofrenica. Una volta questo non succedeva a meno che non foste dei signorotti o parte della Chiesa…. E’ una questione di potere. Una volta chi comandava era la Chiesa, il Re o chi altro. Oggi sono le multinazionali, le case discografiche, le imprese di software, questa gente qui. La religione di oggi è il consumo. Quello che voi chiamate comunicazione globale non è reale, è solo un sistema di controllo, di alimentazione una logica del consumo che consegna denaro ad un preciso gruppo di persone. Noi americani non esportiamo cultura ma solo un amalgama di prodotti che si assomigliano.

HF: Ma tu sei qui proprio ora. Quindi non ti consideri cultura?
LR: (ride)…Ma cosa faccio io non c’entra niente con quello che viene esportato. Non faccio parte del meccanismo. Anzi, io vado contro il sistema vigente che non è interessato al passato ma solo al prodotto di oggi.

HF: Sei anche contro l’esportazione dei valori artistici ed umani?
LR: Io sono contro tutto!!

Ed a questo punto non credo esistano più dubbi sulla ‘difficoltà’ del personaggio Redbone. Che qualcuno gliela mandi buona, ne avrà bisogno.

Enrico Nuti, fonte Hi, Folks! n. 50, 1991

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