Devo ammettere la mia colpa: sono uno di quelli che, nell’autunno del 1995, erano rimasti freddi di fronte all’uscita di Wrecking Ball di Emmylou Harris. Da incallito e appassionato ammiratore avevo, infatti, mal digerito l’intrusiva produzione artistica di Daniel Lanois, cui (come se non bastasse…) le cronache rosa dell’epoca avevano pure attribuito un flirt con la dolce signora di Birmingham. Pensavo, come d’altronde molti fan della stessa Emmylou, che quello suonava come un album di Lanois cui la Harris aveva prestato la voce.
La cosa mi infastidiva per due motivi: uno concettuale e uno estetico. Il primo, mi faceva ritenere troppo pesante (se non addirittura irriverente…) la mano del produttore canadese, il cui inconfondibile suono a volte è come l’aglio: finisce per annullare tutti gli altri sapori. Il secondo, mi portava a ritenere che la suadente ugola di Emmylou (per molti, la quintessenza della vocalità country & folk al femminile) mal ci azzeccasse con quelle particolari sonorità.
Dopo il live Spyboy (simile approccio musicale di Wrecking Ball anche se leggermente ammorbidito dall’assenza ‘fisica’ di Lanois) avevo fatto la prima retromarcia. Che era diventata una vera e propria inversione a U dopo la pubblicazione di Red Dirt Girl (vedi JAM 64), disco tra l’altro premiato da un meritatissimo Grammy. Infatti, in quel lavoro Emmylou non solo per la prima volta dai tempi di The Ballad Of Sally Rose pubblicava un album di sue composizioni ma in qualche modo proseguiva quella strada intrapresa proprio al fianco del produttore canadese. Quella, cioè che l’ha condotta oggi (alle soglie dei 57 anni, seppur portati da dio) a rinfrescare una carriera che, iniziata all’ombra di Gram Parsons nei primi ‘70, l’ha già vista protagonista di almeno un paio di svolte clamorose.
Da ninfetta del country rock californiano (blasfemo, almeno agli occhi dei puristi nashvilliani dei Seventies) Emmylou (anche dagli stessi puristi) viene infatti incoronata regina della nuova country music negli anni ‘90. Per andare ancora più in là nel Terzo Millennio: oggi la Harris è una delle più ambite (e imitate) leggende della american music, corteggiata dalle grandi star di rock, jazz e blues di tutto il mondo.
Stumble Into Grace, il nuovo album
Con questo nuovo lavoro, l’incantevole Stumble Into Grace, la Harris entra definitivamente nell’Olimpo delle più importanti artiste femminili dell’epoca moderna. Quelle cui gli abbinamenti con un unico genere musicale vanno stretti. Emmylou, infatti, prosegue con convinzione e tanta grazia (la stessa cui fa riferimento nel titolo dell’album) il percorso artistico iniziato (bisogna darne atto) con Wrecking Ball e Daniel Lanois a metà anni ‘90. Che, a ben guardare, è di fatto la summa di una carriera inimitabile.
Già, perché se è pur vero che negli ultimi lavori la musica di Emmylou non presenta brani country (in senso stretto) essa ha la stessa attitudine sincera, la medesima raffinatezza stilistica, l’uguale spirito evocativo delle grandi produzioni nashvilliane. Così come incorpora la consapevolezza socio-politica del folk e la carica emozionale e introspettiva del miglior rock d’autore.
Per cogliere l’essenza di quanto sopra detto, provate ad ascoltare Here I Am ma anche l’efficacissima Time In Babylon (in cui si sente l’influenza anche compositiva del fido chitarrista Buddy Miller), la briosa Jupiter Rising o l’intensa, magnifica Cup Of Kindness in chiusura dell’album.
Ma invito a sentire con quale eleganza Emmylou (insieme alle sorelle McGarrigle) affronti la melodia di stampo tradizionale Little Bird o com’è brava a rivitalizzare il maquillage della classica Plaisir D’amour, pezzo che Joan Baez (che piaceva così tanto a Emmylou da farle decidere di prendere in mano una chitarra e iniziare a cantare) rese popolare nei primi anni ‘60. Ma è con Can You Hear Me Now (davvero ispiratissima) o con la successiva Strong Hand che Emmylou commuove l’appassionato e convince lo scettico toccando vertici artistici assoluti.
Quest’ultimo brano, dedicato alla lunga storia d’amore tra Johnny Cash e June Carter Cash, suona come il miglior tributo alla memoria delle due grandi icone della musica americana, scomparse recentemente a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. Il pezzo è impreziosito dalla voce della vecchia amica Linda Ronstadt che insieme a Jill Cuniff (Luscious Jackson), Jane Siberry e Julie Miller (oltre alle citate McGarrigle) è una delle deliziose ugole femminili che accompagnano la ‘regina’.
Assolutamente imperdibile.
Nonesuch Warner 7559-79805-2 (Country Pop, 2003)
Ezio Guaitamacchi, fonte JAM n. 97, 2003
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