Ritengo che brani insulsi tipo San Antonio Rose o gruppi come gli Asleep At The Wheel abbiano contribuito (e continuino ancor oggi) a confondere le idee sul western-swing.
La causa di ogni possibile equivoco credo risalga ad una diecina d’anni fa, quando ciò che passava il convento si riduceva ad uno striminzito numero di ristampe distribuite in LPs, talvolta neanche tanto significativi, dedicati al ‘padre’ (Bob Wills) o a qualche altro parente stretto del western-swing, e in dispersivi, se pur ottimi, album antologici di cui la critica ha ignorato volutamente l’esistenza, preferendo ed incensando i pochi gruppi dell’impropriamente detto revival ed il loro surrogato di western-swing misto a rock, country e jazz d’autore.
E’ dall’ inizio degli anni ’80, dopo un’ulteriore sfornata di altre antologie di notevole valore storico-musicale (su label Rambler, String, Old Timey) culminata col magnifico Okeh Western-Swing (Epic 37324), che la proverbiale anima pia, camuffata dietro l’etichetta Texas Rose, ha pubblicato a raffica una seria di LPs dedicati a singoli gruppi e a brani rari e particolari del western-swing.
Dividono così alla pari la stessa ‘scuderia’ discografica, le mitiche incisioni del ’34 di Milton Brown con quelle degli Hi-Flyers o dei Tune Wranglers, dopo le loro frammentarie e sporadiche apparizioni sulle suddette antologie.
Da qui ci si accorge facilmente che i gruppi moderni, siano essi Alvin Crow o la all-stars band di Hillbilly Jazz, difettano nello ‘spirito’ e nell’impeto (da non confondersi col virtuosismo strumentale) che animarono il western-swing degli anni ’30.
E non capisco perché si voglia considerare a tutti i costi il western-swing come una branca della country-music quando potrebbe essere definito l’‘altro‘ jazz dell’Ovest, la risposta bianca delle ancora oggi ingiustamente snobbate bande territoriali, che da Kansas City (nel Missouri) in giù, macinando riff su riff, facevano il jazz più rude ed aggressivo del periodo.
La causa del disinteresse verso il jazz del Sud Ovest va ricercata nell’irreperibilità del già scarso materiale inciso a quel tempo dalle ‘territory bands’, così chiamate per l’attaccamento quasi fisico al territorio di cui erano la principale attrazione, e che difendevano dalle vicine, agguerritissime orchestre rivali con vere e proprie battaglie musicali all’ultima nota, allorquando i grossi centri discografici si trovavano a New York e a Chicago.
Può darsi che tali ‘monopoli’ musicali, e quindi la superiorità tecnica delle orchestre di colore, ma anche un massiccio fenomeno di emigrazione verso il più redditizio Nord-Est, abbiano contribuito a far sì che il jazz suonato dalle compagini bianche non si sviluppasse affatto nel Sud-Ovest, e forse non è un caso che il western-swing sia nato proprio quando le bande territoriali cominciavano a disperdersi o a demordere.
Né si può escludere che la presenza di alcune di queste infuocate orchestre territoriali, attivissime persino nel Texas (Alphonse Trent si esibiva in una radio locale ed in uno degli alberghi più famosi di Dallas, mentre San Antonio era la ‘zona’ di Troy Floyd), abbia non poco influenzato il ritmo robusto e grintoso, caratteristico del western-swing.
Un ruolo preponderante nello sviluppo di tutto il jazz sud-occidentale (western-swing compreso) l’ebbero il ragtime, vero e proprio folklore locale: dalla fanfare di colore specializzate nel genere, alle string-band rurali bianche come gli East Texas Serenaders; la nuova musica proveniente da New Orleans e suoi successivi rimaneggiamenti da parte delle grandi e piccole orchestre di New York e Chicago; la tradizione blues, vero marchio di fabbrica di questo tipo di jazz, fortemente radicata nell’area Texas/Arkansas/Oklahoma.
I benefici effetti di tali forme musicali cominciavano già ad intravedersi nell’uso di alcuni strumenti: la chitarra e la chitarra steel hawaiana avevano abbandonato il ruolo di gregarie della melodia grazie a stilisti come Lonnie Johnson o Sol Hopii; si evolveva il fraseggio del violino con Joe Venuti e Stuff Smith (della band di Alphonse Trent), e persino della fisarmonica con Buster Moten, fratello del più noto Benny, leader della banda territoriale più fortunata e famosa del Sud Ovest (era riuscita ad incidere per la Victor), ma non per questo la più brava (almeno prima del ’30).
E i componenti le varie formazioni di western-swing, manipoli di old-timer ‘pentiti’, abbacinati dalla musica di colore e da certo ‘sperimentalismo’ (leggi pure chitarra hawaiana ed amplificazione più o meno diffusa), erano attentissimi a carpire quanto di nuovo stava succedendo intorno a loro.
La voglia spasmodica di questa gente di suonare del jazz, o almeno di cambiare musica, fuoriesce proprio dalla scelta dei brani, classici del jazz e del blues o originali ad essi ispirati, e dal loro modo di proporli o di ‘jazzare’ pezzi di stampo popolare (come la The Eye Of Texas di Bill Boyd, stravolta, dopo un inizio ‘normale’, da un piano e una steel-guitar alquanto indiavolati).
Ma buona parte della responsabilità di questo ‘new deal’ musicale è da imputare ai veri e propri jazzisti che andavano ad ingrossare le file delle compagini western-swign, e tra questi i primi nomi che mi vengono in mente sono: i clarinettisti Holly Horton e Ray DeGeer (che militò con Red Nichols prima e Charlie Barnet e Gene Krupa poi) rispettivamente nelle bands di Roy Newman e Bob Wills; i pianisti Eddie Whitley, Knocky Parker e Fred Calhoun; i chitarristi Dick Reinhart, Zeke Campbell e Curly Williams, già banjoista col grandissimo trombonista texano Jack Teagarden.
La conferma ci è fornita in questo stralcio di intervista a Elton Shamblin, chitarrista di alcune tra le più fortunate formazioni di Bob Wills: “Non ho mai sentito country-music da giovane. Da ragazzo, prima che cominciassi a suonare, preferivo ascoltare le orchestre negli hotel. Ciò che potevi sentire erano le grandi orchestre di Benny Goodman o Tommy Dorsey. Probabilmente lo chiamerai swing, per questo ho sempre amato il western-swing. Credo sia una forma di jazz, come il jazz di New Orleans o altro”.
Ma il western-swing non può essere considerato una sorta di autocompiacimento musicale per soli esecutori; esso appartiene come il jazz di quel periodo, alla musica da ballo o, per generalizzare, di intrattenimento, e come tale si rivolgeva, dato i tempi ed il luogo, ad un pubblico non di colore intenzionato a dimenticare gli anni più tetri della Depressione.
Tale ‘razza’ di uditorio per certi versi era simile a quella di New York, capitale della musica commerciale con Tin Pan Alley, aveva in qualche modo condizionato il jazz accorrendo al Cotton Club per sentire l’effetto jungla o decretando il successo del jazz mendace e annacquato di Gershwin o di Paul Whiteman, nella cui orchestra militavano, per la propria sussistenza, alcuni tra i migliori solisti (jazz) bianchi del momento.
Di lì a poco lo swing di Benny Goodman avrebbe scosso col suo ritmo le sale da ballo americane, anticipato però di qualche anno dal western-swing di Milton Brown, la cui musica sarebbe rimasta, al contrario, un tipico prodotto regionale.
Tralasciando volutamente le prime scialbe incisioni dei Light Crust Doughboys con (alias Aladdin Laddies) e senza Bob Wills e Milton Brown, quelli governati dal pernicioso W. Lee O’Daniel, tanto avido ed opportunista quando privo di conoscenze musicali (non sapeva cantare e suonare), possiamo stabilire che il Western-swing sia nato ufficialmente il 4 Aprile 1934, quasi un anno prima che lo swing iniziasse il suo apprendistato.
La data coincide con la prima seduta d’incisione dei Musical Brownies di Milton Brown, durante la quale furono registrati otto brani originali che possono essere considerati un compendio di un po’ tutta la musica che si poteva ascoltare in quel periodo.
Naturalmente il western-swing esisteva già prima di quella data ed era diffuso attraverso le radio locali e, secondo accreditate testimonianze (purtroppo dobbiamo accontentarci solo di queste), si ha ragione di credere che nei primissimi anni ’30 esso si rifacesse ai balli della tradizione sud-orientale e alle canzoni popolari dell’epoca.
Gruppi come gli Hi-Flyers esistevano già ai tempi dei primi Doughboys e, a quanto pare, non si sottraevano al suddetto repertorio, così come altri (Roy Newman) provavano a diluirlo con un pò di jazz.
D’altra parte le prime incisioni in proprio di Milton Brown e Bob Wills si portano dietro gli strascichi di ciò che furono gli Aladdin Laddies, alla cui musica si può ricondurre, mio malgrado, il western-swing nella sua forma embrionale.
Da qui la presenza di alcune forme commerciali e/o ‘countryeggianti’ nel western-swing di qualche anno più tardi, ma anche dalle richieste di un pubblico paragonabile, come dicevo, a quello del jazz consumistico newyorkese.
In altre parole, le formazioni di western-swing, oltre che con strings-band di stampo tradizionale (bianche o di colore) e con un mercato discografico ridotto dalla Depressione ai minimi termini, dovevano fare i conti con una platea alquanto variegata, costituita da cowboy, cittadini nuovi di zecca, comunità messicane o mittel-europee, i cui gusti più erano ancorati al tradizionale (valzer, breakdown, marce, canzoni sentimentali e di cowboy), più rischiavano di ridurre le possibilità evolutive dei musicisti.
E’ così, per esempio, che in gruppi come i Sons Of The West, accanto ad un brano ‘mediterraneo’ tipo Sally’s Got A Wooden Leg, se ne trovino altri, purtroppo, di bassa lega; o che i fratelli Farr, a dispetto delle loro prestazioni nei Sons Of Pioneers, fossero dei personalissimi solisti di chitarra e violino; o, peggio ancora, che Cliff Bruner, nonostante i valenti musicisti di cui si attorniava, non sempre ci fa ricordare di aver fatto parte dell’‘università’ Milton Brown.
E non fa eccezione neanche il ‘papá’ Bob Wills nelle sue prime, balbettanti incisioni.
A proposito delle ‘paternità’ o delle ‘monarchie’ che a volte si incontrano nei generi musicali, devo ammettere la mia antipatia ed il mio scetticismo nei loro confronti.
Ma se il western-swing reclama proprio un ‘padre’, credo che sia giusto accreditare a Milton Brown, o al limite a Bill Boyd, tale responsabilità ‘genetica’.
Tutt’al più Bob Wills potrebbe essere considerato il padre putativo della seconda ondata di western-swing sviluppatasi durante e dopo l’ultima guerra, quello californiano di adozione, di più largo consumo e meglio rifinito, coi suoi languidi cantanti e le steel-guitars dai pigolanti glissati al posto dei vibrati rabbiosi del decennio precedente.
E’ proprio in questo periodo, per ironia della sorte, che si sarebbe coniata l’etichetta western-swing (swing di nome, ma non di fatto), appiccicandola persino a quella che qualche anno prima era conosciuta come ‘hot string-band music’.
Sin dall’inizio, Bob Wills, con la sua atipica, mastodontica orchestra accessoriata di ottoni e batteria, era intenzionato ad offrire una musica ben levigata e, nel contempo, ricca di swing. Ci riuscì completamente nel ’36.
Credo che lo spettatore oltre a voler sentire, volesse anche vedere una di quelle spettacolari formazioni con gli strumenti suonati a sezione, che su al Nord andavano per la maggiore.
E Bob Wills diede al pubblico tutto questo e anche di più, adattando troppo spesso, a mio avviso, la sua musica al dilagare della moda e degli altrui gusti.
A torto o a ragione ciò gli valse l’onoreficenza di ‘padre’, e senza dubbio, da quel che possiamo ascoltare, nel ’36 era sua la formazione più elegante e suoi i solisti tra i più qualificati.
Ma c’è anche da chiedersi cosa avrebbe tirato fuori Milton Brown se non fosse morto nel ’36.
Già con le prime incisioni del ’34, tra jazz, blues, valzeroni deprimenti e qualche pop-standard, Milton Brown sembrava aver intuito ciò che la gente voleva ascoltare e nel frattempo aveva indicato ad altre formazioni la nuova via da percorrere.
Sull’esempio di Milton Brown, Bill Boyd e Roy Newman, i primi tre bandleader ad incidere in quell’anno (Bob Wills avrebbe aspettato il settembre del ’35, e vedremo con quali risultati), si formavano nuovi gruppi dai cinque agli otto elementi, mentre quelli vecchi cambiavano (o allargavano) molto più semplicemente il loro repertorio o provavano ad introdurre nuovi strumenti.
Infatti la strumentazione tipica delle vecchie strings band, col banjo tenore al posto del cinque-corde, veniva attrezzata di pianoforte e talvolta anche di clarinetto (o sassofono) e fisarmonica.
Con la steel-guitar elettrificata di Bob Dunn, ancora dalle file dei Brownies sarebbe uscita nel gennaio del ’35 la novità che avrebbe rivoluzionato il suono di molte bands (e non solo di western-swing) presenti e future; uno strumento dall’avvenire equivoco, croce e delizia, a secondo dei punti di vista, di tanti ascoltatori.
Lungi dall’ottenere risultati simili a quelli del binomio steel-guitar/Nashville-sound (o Santo e Johnny …), l’intenzione di Milton Brown era quella di sfruttare il timbro secco ed aggressivo di questo strumento (allora senza pedali) per aggiungere alla formazione una ‘voce’ nuova che ricordasse il suono della cornetta.
A dire il vero non erano queste le vere e proprie novità. La steel-guitar hawaiana era popolarissima negli USA già da qualche decennio (Cfr. HF n. 4) così come l’esordio della chitarra elettrica nel 1931 aveva portato alla logica ed inevitabile amplificazione di questo strumento se non altro per eliminare la sua naturale ‘afonia’ e farlo competere, ad esempio, col più ‘rumoroso’ pianoforte.
Da qui l’autentica novità, che consiste nell’aver aggregato la chitarra steel ad un’orchestrina meglio assortita (di strumenti e musicisti) rispetto ai vari trii importati dalle Hawaii anni prima.
Se si è poi in preda ad un attacco di eccessiva pignoleria si potrebbe anche affermare che il jazz su strumenti a corde, in cui i Brownies (e non solo loro) eccellono, esisteva già per merito degli stessi maestri hawaiani di chitarra o di gruppi come la Six, Seven And Eights String Band di New Orleans.
Come si vede, Milton Brown, più che ‘inventore’, fu ‘codificatore’ di musica (ma la definizione é estensibile a tutti i protagonisti del western-swing); di certo egli fu l’uomo giusto al momento giusto e soprattutto ‘sentì’ il jazz come pochi.
Ascoltando le prime incisioni dei Brownies, e in particolare Garbage Man Blues, ci si accorge che il suo naturale ‘senso’ del jazz era già maturo e definitivo, capace di contagiare e coinvolgere i componenti della band, come dimostra lo strumentale Brownie Stomp, i cui breaks vengono incitati e contrappuntati dagli yeah! del leader.
Ma é la voce di Milton Brown, vera e propria incarnazione delle sue qualità carismatiche e del suo modo di intendere e fare musica, ad uscire trionfante da queste registrazioni del ’34, dimostrando una grande duttilità nell’interpretare brani tanto diversi da loro, salvando persino la situazione in alcune scelte discutibili (Sonny Boy) e in momenti imbarazzanti (l’attacco fuori tonalità di Garbage Man Blues).
Irrobustite dalla steel guitar e successivamente da un secondo violino, con la ripresa di classici come St. Louis Blues o Black And White Rag in un repertorio di jazz più ampliato, le registrazioni che vanno dal ’35 in poi mettono ancor meglio in evidenza lo stile energico della band, che avrebbe toccato il suo culmine in brani tipo Yes, Sir (’36) o Down By Ohio, con Milton Brown trascinante come non mai nel chiamare a turno gli strumenti prima di ogni rispettivo assolo. Purtroppo il tempo e i dischi avrebbero dimostrato che i Brownies, conosciuti come tali o in altre formazioni, dopo la morte del leader, non sarebbero arrivati mai a simili livelli, eccezion fatta per Ocie Stockard.
Al pari di Milton Brown, Bob Wills fu un serissimo leader ed un impareggiabile ‘stimolatore’ musicale, ma fu, soprattutto, un coraggioso ed esigente professionista per volersi permettere e stipendiare un organico con un minimo di dodici elementi, un’orchestra (o è il caso di definirla una string band dilatata da ottoni e batteria?) che, nel western-wing dei primi anni, fu praticamente la sua ‘invenzione’ e la sua personale prerogativa.
In verità non so dire se questo suo partire già alla grande sia stato dettato da esigenze artistiche o commerciali; se fu lungimiranza musicale o voglia di impiantare un’‘azienda’ con tanto di lustrini per schiacciare la pressante concorrenza. Sta di fatto che le prime incisioni del ’35 tradiscono la scarsa dimestichezza di Bob Wills con un apparato orchestrale spesso zavorrato da sorpassati clichè dixieland e dalla sua dipendenza, a volte ostinata, da certa musica tradizionale. Mi riferisco, ovviamente, a brani difficili da mandar giù come Spanish Two Steps o Mexicali Rose, che, serviti col medesimo arrangiamento a base di duo di violini all’unisono e scampanio di piano sembrano voler compiacere un pubblico più vasto.
Purtroppo neanche Milton Brown era stato immune nelle sue prime registrazioni da simili brani noiosi e ripetitivi: Trinity Waltz o Love, Land And You, nonostante l’efficace sostegno ritmico di chitarra e banjo tenore, credo siano episodi di certo non rivoluzionari e da dimenticare in fretta.
E l’ammiccante duetto di violini colpisce ancora nell’ultimo break strumentale di Sittin On Top Of The World, dopo altri due assoli, strascinati, affidati prima al trombone che ripete, scolasticamente e a scatti brevi, la linea melodica del brano, e poi alla steel guitar di un indeciso Leon McAuliffe, che, nell’intero corso di queste session, dá l’impressione di essere continuamente alla ricerca della nota perduta.
Tra lo scimmiottare le orchestrine New Orleans e la voce dolciastra e squillante del leader, a farne le spese é proprio Sittin On Top Of The World, che viene privato della sua originaria vena bluesistica. Nelle mani di Wills il brano diventa praticamente un niente, specie se confrontato alla versione quasi da race record (se non fosse per un blando sottofondo dei soliti violini) incisa l’anno prima da Milton Brown.
Anche St. Louis Blues diventa, in bocca a Wills e a Tommy Duncan (con le sue invadenti interiezioni) una marcetta ridanciana e zuzzurellona, nonostante l’esecuzione strumentale presentabile. E pensare che qualche mese prima, Milton Brown, nei pochi minuti concessi dalla matrice di registrazione, aveva iniziato lo stesso brano con un breve preludio strumentale col tipico andamento del tango, trasformandolo successivamente, prima in un blues carico di tensione, poi, con un brusco raddoppio del tempo dettato dal piano, in un rock’n’roll ante litteram.
Si salvano invece brani come Oklahoma Rag o Osage Stomp, che, con l’accoppiata trombone/fiddle inserita in un contesto tradizionale, anticipano alcune soluzioni strumentali usate da David Bromberg quarantanni dopo. E si salva pure Get With It che lascia intuire lo stile futuro della band.
Nonostante alcune idee di Wills non siano state particolarmente brillanti o originali, in queste prime incisioni si distingue il solido, grezzo accompagnamento dei Texas Playboys e fra i solisti si lasciano apprezzare Al Stricklin e Jesse Ashlock, rispettivamente pianista e violinista della band.
Pierpaolo De Luca, fonte Hi, Folks! n. 21, 1987