Stefano Tavernese - Harvest Moon cover album

Recensire il disco di una vecchia conoscenza come Stefano Tavernese può destare un certo imbarazzo: si vorrebbe trovare almeno una critica di rilievo da poter fare, per stornare così ogni accusa di parzialità o addirittura, nel mio caso, di campanilismo (daje Roma!). Invece niente. Stefano può continuare a sorridere, un po’ sornione, dalla copertina del suo primo disco firmato in prima persona, certo di aver fatto centro.
La luce di un lume che dovrebbe essere a petrolio si riflette negli occhi, un po’ languidi e un po’ spiritati, ed insieme ad un’orchidea infilata nella T di un dobro ci suggerisce l’atmosfera dominante dell’album: il Mississippi, gli anni Venti e Trenta, le jug-bands, l’eco ancor vivo degli ultimi minstrel-show, swing d’annata… e su tutto il grande John Hartford al cui indiscutibile fascino Tavernese soggiace, sempre però con misurato equilibrio e musicale saggezza.
E’ del resto l’unico qui da noi ad aver accettato la sfida della forma ‘hartfordiana’ di one-man-show in cui ballare, cantare, passare con disinvoltura da uno strumento all’altro; ed è logico che la formula trovi puntuale riscontro nell’album, dove Stefano sorregge senza sforzo gran parte del lavoro strumentale.

Chi lo conosca solo come impeccabile ed ispirato violinista e mandolinista potrà osservare come si trovi a suo agio come banjoista old time in Dark Soldier, medley di Dark Hollow e Soldier’s Joy, a cui ha voluto dare delle parole, o con quale malinconica grazia interpreti alla chitarra la sua bella The Last Time.
Estremamente misurati e discreti sono gli interventi dei musicisti che lo hanno assistito: Alberto Botta e Massimo Morriconi, rispettivamente alla batteria ed al contrabbasso, precisi e sensibili; Massimo Morroni (ricordate il banjoista dei Wreckin’ Crew?), ormai irrimediabilmente passato al banjo a plettro ed alla chitarra swing con cui imbastisce un bell’assolo su Four O’Clock Swing; il polistrumentista-filosofo Marcello Bono che arricchisce di una giusta carica di poesia Irish Spring e Over The Waterfall con le fiabesche sonorità del suo hammered-dulcimer autocostruito; ed infine Giancarlo Grevi al piano elettrico in Any Old Song. A proposito di questo brano, scritto dallo stesso Tavernese e che ritengo la punta più alta dell’album, se da una parte va apprezzata l’estrema eleganza dell’arrangiamento – sarebbe stato facile perdere il controllo, trascinati dalle potenzialità del pezzo – dall’altra verrebbe voglia di poterlo in futuro ascoltare in un altro contesto musicale in modo che una certa anima rock, che mi sembra pervada il brano, possa decollare liberamente. Questo senza nulla togliere alla dimensione attuale in cui, se Any Old Song può risaltare sugli altri brani dell’album, lo fa per sue doti intrinseche e non certo per sonorità atipiche rispetto al resto del disco.

Ed infine, un complimento per la qualità della registrazione a cura di Giancarlo Grevi. Spesso qui da noi prestigiosi studi e prestigiose etichette falliscono clamorosamente nella registrazione degli strumenti acustici, ed è estremamente qualificante per la nascente Hi, Folks! Records uscire con un secondo disco come questo, impeccabile sotto il profilo tecnico non meno che quello artistico.

Hi, Folks! HF-002 (Country Acustico, Old Time Music, Swing Acustico, 1985)

Luigi Grechi, fonte Hi, Folks! n. 15, 1986

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