A volte, i proprî ricordi rischiano di generare ripetizioni. E’ quello che ci sta accadendo con Jimmy Dawkins, del cui primo impatto già vi accennammo nel n. 92. Eppure la statura del personaggio è stata tale per cui oggi, per ricordarlo, non possiamo fare altro che partire proprio da quel pomeriggio del 5 giugno 1987 quando, dopo l’esibizione di Cicero Blake, apparve sul palco del Petrillo Music Shell del Chicago Blues Festival. Ma la sua sola presenza non bastò a cambiare il sapore dell’aria circostante. Furono necessarie le note singole rabbiose scaturite dalla sua chitarra a lasciarci intuire che un rito basato su qualcosa di diverso, di personale, di anticonformista, stava per avere luogo. E così fu. Jimmy Dawkins ci (ri)battezzò tutti.
E’ scontato a questo punto farvi capire perché un conto è ascoltare i suoi dischi (operazione che avevamo già fatto più volte), ed un altro e trovarcelo davanti in anima, corpo, chitarra, ed avvertire i prodromi di una mutazione sonora in corso che si concretizzerà quattro anni dopo con la pubblicazione di Kant Sheck Dees Bluze (Il Blues n.37). Ma ci fu un altro particolare che ci colpì: il suo saper, attimo dopo attimo, riempire la scena fisicamente quasi senza muoversi, affidando questo compito unicamente alla sua musica ed alla concretezza dei suoi tre partner, Rich Kirch (chitarra), Sylvester Boines (basso), Tyrone Centuray (batteria).
Ma l’occasione di avvicinarlo e poter parlare con lui, quindi al di fuori del rapporto emozionale che si instaura tra appassionato ed artista, lo avremmo realizzato tre anni dopo al festival di Nave. E qui l’uomo venne fuori, rivelando la propria serietà ed umanità allorché gli domandammo come fu la sua partecipazione alle registrazioni di Sleepy John Estes: «…mi sono messo dietro John e l’ho lasciato fare come voleva, senza che guastassi il suo modo di fare». Questo si chiama rispetto, sostantivo in via di sparizione non solo dai dizionari, che incredibilmente si abbina senza contrasto alcuno alla sua considerazione di se stesso quando afferma, spiegandoci con grande semplicità il ‘segreto’ del suo stile chitarristico particolare: «Non mi sono mai messo per forza alla ricerca di un mio stile personale, ma sono sempre stato sicuro di non voler essere preso per qualcun altro. Non ho mai voluto essere il doppio di un altro musicista. Ho sempre voluto essere me stesso».
Infatti, se Kant Sheck Dees Bluze segnò uno spartiacque, magari non voluto ma necessario aggiungiamo noi, tra lui e gli altri interpreti del Chicago Blues («Sì, incominciano a sembrare troppo simili uno all’altro» disse a proposito dei prodotti Alligator), avemmo la possibilità di incontrarlo ancora e stabilire con lui, questa volta nel 2004 al festival di Lucerna, un nuovo incontro. Dapprima restio, caratteristica che gli apparteneva per intero, a negare del tempo alla sua funzione di nonno, poi via via sempre più partecipato, vivemmo con Jimmy una squarcio della mattinata acquisendo conoscenza ad esempio dell’opera di ricupero dei diritti d’autore mai pagati intrapresa con la sua Leric Music Corporation: «Il punto è che molti artisti non hanno alcuna esperienza di che cosa significhino gli affari e non si curano di queste cose»
Come avete visto, in questo ricordo abbiamo cercato di condensare alcuni tratti, forse più dell’uomo Dawkins, a volte scomodo, che dell’artista. Inconsciamente, volevamo testimoniare come l’essere credente convinto («Dio è Dio, non importa come lo chiami») possa tranquillamente coesistere con l’impegno sociale (nel brano Welfare Blues, anno 1971, contenuto nell’album All For Business, Delmark 634, recita queste strofe attualissime «Il governo ha tolto l’assegno per l’assistenza / Dicendo non possiamo dare da mangiare a tutti»).
Jimmy Dawkins si è spento lo scorso 10 aprile 2013 a Chicago, Illinois.
Marino Grandi, fonte Il Blues n. 123, 2013