Rory Gallagher - L’intervista completa del 1991

Dai primi anni Settanta, la musica di Rory Gallagher, ruvida, soulful e intrisa di blues ha fatto parte della colonna sonora della mia vita. E’ stata fonte di forza, saggezza, ispirazione e comprensione. Non viaggio mai senza di essa e a volte la ascolto per settimane di fila. Solo altri due musicisti esercitano su di me un effetto altrettanto profondo: Bob Marley, il più grande guaritore e John Lee Hooker, per il quale ho sentimenti troppo forti per esprimerli a parole.
Nei decenni da editor di Guitar Player, Rory era in cima alla lista di interviste. Il problema era che dagli anni Settanta, aveva suonato nella San Francisco Bay Area solo tre volte. Ero via durante i suoi passaggi nel 1982 e ’85. Poi dopo sei anni di assenza, venne annunciato che Rory sarebbe tornato negli Stati Uniti per promuovere il suo ultimo album, Fresh Evidence. Donal Gallagher, suo fratello e manager, mi scrisse che Rory sarebbe stato molto contento di parlare con me.
Ci siamo incontrati nel backstage del Catalyst Club di Santa Cruz, California, il pomeriggio del 15 marzo 1991. Ho scoperto ben presto che Rory era affascinante ed entusiasta di persona proprio come lo era nei suoi dischi. Questa è, per la prima volta, la trascrizione completa dell’intervista.

Sei rimasto fedele alla musica che ti ha ispirato all’inizio.
Si, penso che si debba riconoscere in qualche modo da che tipo di sorgente vieni. Anche se nel corso degli anni, ti sviluppi come musicista e resti influenzato da diverse cose, alla fine devi tenere ben presente quello da cui sei partito, la visione iniziale che ha guidato il tuo approccio con la musica. Ovviamente mi ci è voluto molto tempo per imparare molti aspetti diversi della musica e dell’essere un musicista, ma seppur lentamente ci sto arrivando (ride).

Sembri gravitare attorno all’american roots music.
Si. Anche se sono cresciuto in Irlanda, dove c’è molta musica folk e tradizionale a portata di mano, che inizialmente non mi attraeva molto; mi accorgo tuttavia che nella mia scrittura ne affiorano a volte delle tracce, in alcune figure di accordi o in alcuni passaggi di assolo. La musica mi ha catturato davvero quando ho ascoltato Lonnie Donegan suonare canzoni americane, faceva pezzi di Woody Guthrie o Leadbelly. Sono passato ad ascoltare Elvis Presley e Eddie Cochran, i primi rock’n’roll, Chuck Berry. Un misto di folk, blues e rock americano. Avevo tra i sei e i nove anni, da lì in poi ho seguito quella traccia e cercato di sapere tutto su quegli artisti, la cosa va avanti tuttora, imparo sempre e a volte scopro gente misconosciuta. Ci sono voluti dieci o quindici anni per avere una migliore comprensione dell’intero spettro delle cose, voglio dire chi erano i ‘caposcuola’ e chi invece i seguaci o ‘imitatori’.

Ci sono dischi di Son House o altri bluesmen coevi che consiglieresti a giovani chitarristi che ancora non li conoscono?
Beh, tutti mettono in luce l’ovvia connessione con Robert Johnson. Era probabilmente il virtuoso dell’epoca, ma Son House è stato quasi altrettanto importante, Robert Johnson ha imparato direttamente da lui e poi ha scritto lui Walkin’ Blues, per esempio. Lo disse anche Muddy Waters che Son House godeva di grande reputazione allora. Dipende. E’ difficile dire ad un giovane che magari ascolta Albert King e immediatamente vede sé stesso nel proseguimento di questa linea ideale. Credo che tutti i giovani musicisti di rock e blues dovrebbero scavare più a fondo, andare oltre le grandi star del blues come B.B. King e Buddy Guy, che peraltro sono ottimi. Mi interessa molto anche il country blues o il country blues elettrificato, come lo chiamo io, Big Joe Williams e cose così. Mi piacciono molto anche i chitarristi slide, da Earl Hooker, Muddy Waters ovviamente, tra i miei preferiti però c’è Robert Nighthawk. Ho scoperto relativamente tardi Tampa Red, che trovo veramente di grande fluidità. Quel fraseggio per il quale è noto Muddy – tutti abbiamo pensato che fosse di sua creazione – ma in realtà lo ha preso da Tampa Red. Perciò questo processo delle musiche folk di come un elemento passa da musicista a musicista, attingendo, prendendolo a prestito, va avanti continuamente. Nel mio stile, da europeo influenzato dalla musica americana, cerco di trovarmi nelle condizioni, se sto facendo un pezzo blues, di saperlo eseguire in modo molto tradizionale, se voglio. Ma anche di poterci aggiungere un elemento mio e farla diventare una canzone rock con una base blues. Con certo materiale cerco di essere avventuroso e progressivo, con altro invece il più ‘downhome e tradizionale possibile.

Ne abbiamo conferma nella tua performance di Empire State Express di Son House.
Si, quella è stata quanto di più tradizionale…l’ho incisa in una sola ‘take apposta. Stranamente l’ho registrata la notte di San Patrizio, lo scorso anno. Era l’ultima canzone dell’album (Fresh Evidence) ed è un pezzo che amo molto. Avevo perso il disco di Son House in cui era contenuta, perciò l’ho suonata così come me la ricordavo. Per fortuna a suo tempo mi ero trascritto il testo. L’ho suonata piuttosto simile allo stile di House, ho dovuto adattare un poco il ritmo per via del tempo del cantato, ma credo sia una grande canzone, e sottovalutata per giunta. Al Wilson dei Canned Heat suonava la chitarra National su alcuni pezzi di quel disco.

Era Death Letter il disco?
Esatto, contenava Pearline e John The Revelator, altra grande canzone. Ghost Blues (su Fresh Evidence) è a sua volta molto tradizionale per l’approccio alla National. L’atmosfera in Middle Name è particolare, mi ricorda un disco di Slim Harpo, perciò come vedi ci sono riferimenti disseminati qua e là. Ci sono alcuni pezzi rock, Kid Gloves, Slumming Angel e Walking Wounded, il resto però sono pezzi blues. The King Of Zydeco, sebbene sia su Clifton Chenier, ha un sapore quasi country più che zydeco, almeno fino a quando non entrano l’accordeon e le maracas…abbiamo provato ad inserire il washboard o come lo chiamano il ‘rub board’, ma non ha funzionato. Abbiamo registrato un altro pezzo, intitolato Never Asked You For Nothin’, che è quasi finita nell’album, ma è una di quelle quindici canzoni che può saltar fuori ancora (infatti finirà tra le bonus track dell’edizione CD di Fresh Evidence n.d.t.). Siamo anche stati fortunati a trovare questo tipo, Geraint Watkins, entusiasta di musica cajun e zydeco e suona un grande pianista boogie-woogie o rock and roll. Ha suonato molto con Dave Edmunds e anche con gli Stray Cats, in più ha un suo gruppo i Balham Alligators. Balham è una zona a South London, è un nome buffo, divertente, proprio come lui. Dal punto di vista della produzione, sono molto contento del disco precedente, Defender, che a sua volta conteneva molti elementi blues, ma con una produzione più rock. In questo invece abbiamo lavorato diversamente, stando attenti a non esagerare con la compressione del suono e a non ripulire troppo dei rumori naturali, cose così. Lo abbiamo lasciato abbastanza grezzo e naturale, credo nel modo adatto per queste canzoni. Spero che alla gente sia piaciuto Defender perché è ancora molto presente nella set list, sebbene cambiamo il repertorio ogni sera.

Quando è uscito Defender?
Due anni fa. E’ uscito in Inghilterra e in tutta Europa. Qui negli Stati Uniti sarà pubblicato tra due settimane, perciò quasi in contemporanea col nuovo album. Ovviamente si è posta maggior enfasi su Fresh Evidence. Defender contiene alcuni pezzi rock, altre piuttosto dure come Kickback City e Road To Hell, oltre ad alcuni blues. Una delle canzoni è intitolata Continental Op ed è un rimando a Dashiell Hammett, ad uno dei suoi personaggi; è di fatto un rock boogie, ma ha una sequenza di accordi alla John Lee Hooker, con accordi di quarta sospesa e cose del genere. Un’altra, Loanshark Blues, ha ancora un qualcosa della Shake Your Hips di Slim Harpo, ma ha un testo rapido con un sacco di allitterazioni che racconta di un tipo spiantato indebitato fino al collo con un usuraio. Poi c’è Ain’t No Saint, che richiama lo stile di Albert King e Albert Collins; mi piacerebbe arrivare ad un punto in cui si parli di pezzo ‘alla Rory Gallagher’…ma bisogna anche fare riferimento ai tuoi ispiratori.

Eppure c’è un ‘Rory Gallagher feel’. Penso a Slumming Angel, Living Like A Trucker, c’è una sorta di continuum tra questi pezzi.
Living Like A Trucker me la ricordo bene, perché su quella avevamo un clavinet col pedale wah-wah. All’epoca ero piuttosto integralista, non avrei mai suonato io il wah-wah. L’altra sera qualcuno era deluso per l’attrezzatura che utilizzo sul palco, non volevano nemmeno che suonassi in elettrico. Ogni tanto la gente ha questa immagine distorta di me, come di un purista che non usa nemmeno…(ride)

Forse non hanno mai sentito il live dei Taste all’Isola di Wight.
Già. Ma cosi vanno le cose. In ogni caso mi piace Living Like A Trucker. Tutti questi dischi verranno editati in CD da IRS nei prossimi due anni, con i testi inclusi. Alcuni saranno remixati e riequalizzati per il CD. In questo modo sarà bello avere il mio vecchio materiale di nuovo disponibile, la gente potrà sentire se vale ancora oppure no. Io penso che non sia invecchiato troppo male.

Quando registri un assolo, cosa ti aspetti da te stesso? Che cosa deve avere un assolo di Rory Gallagher?
Cerco di distinguere quando essere tecnicamente abile e invece essere primitivo. Se deve essere solo un esercizio tecnico, può andare, ma va bene anche essere più grezzo e primitivo. Dipende dalla canzone, conta anche se devi essere più preciso perché magari stai sovraincidendo. Di solito registravo gli assolo in presa diretta, se c’era un errore pazienza, mi interessa il feeling. Però se una canzone richiede un assolo molto melodico, sono pronto a lavorarci su e a rifarlo più volte; cerco di non ricadere troppo in questo processo, anche per non cedere alla tentazione di rifarlo fino ad ottenere ‘l’assolo perfetto’. Un paio di volte mi è successo, ma è stato proprio per la convinzione di essere nella direzione giusta. Di regola cerco di mettere un freno alla tecnologia, in modo da non essere troppo pigro e perdere di vista il fattore umano.

Che impatto avuto la tecnologia sui tuoi dischi? Quanto è stato diverso registrare il nuovo album rispetto a Blueprint o Tattoo?
Un po’ diverso. Certo oggi abbiamo 24 piste, per entrambi i dischi allora ne avevamo 8. Quando siamo passati a 16 mi sembrava di essere finito nell’anno duemila! Per quest’album abbiamo utilizzato alcuni effetti di reverbero e eco, cercando di recuperare attrezzatura vintage. Certo dal punto di vista dell’equalizzazione ci siamo serviti di cose moderne, ma in generale non vado matto per il digitale, ovvio che se devi ripulire qualche suono lo puoi fare in modo molto delicato. Dal punto di vista della performance non c’è molta differenza, forse allora eravamo un po’ più rigidi sul catturarla. Voglio dire, tuttora cerchiamo di fare in modo che la prima take sia quella buona, oggi cercherei di recuperarla, lavorandoci su un poco, se è stata una grande versione, mentre allora preferivamo tenere tutto com’era, anche se la Telecaster fischiava, per dire. Ripensandoci era un atteggiamento un po’ ridicolo, ma pensavo bisognasse fare così. Avevo lo stesso approccio con l’effetto eco, ero molto conservatore in quell’ambito e forse è stato un errore. Ma si impara sempre col tempo, dipende anche dall’ingegnere del suono con cui lavori e dalla fiducia che riponi in lui, dal suono e feeling complessivo. Penso ancora che l’approccio non sia cambiato poi molto dai primi dischi, ora siamo solo un po’ più consapevoli delle possibilità di lavorare sul suono. Inoltre quei primi dischi li incidevamo nel giro di tre / sei settimane, oggi invece ci abbiamo impiegato sei mesi per realizzare il nuovo album, tra remix e sovra incisioni.

Di solito cerchi di registrare tutto dal vivo evitando di procedere per strati, per quanto possibile?
In generale sì. Ho voluto solide parti di chitarra ritmica in pezzi come Middle Name, King Of Zydeco e Walking Wounded. Al posto della Strat ho usato questa piccola Gretsch modello Chet Atkins, ottima per le parti ritmiche perché ha corde spesse, non è il modello Eddie Cochran, ma quello a farma di una Les Paul, di color arancio. Ho invece usato la Les Paul Junior per la ritmica su Kid Gloves e Walking Wounded. Anche se mi si identifica con la Strat ed è una chitarra che amo, trovo che usandola sia per la ritmica che per la solista, eccetto in una situazione alla Hendrix, si corra il rischio di essere un po’ monodimensionali. Perciò trovo utile avere una chitarra alternativa per ampliare lo spettro dei suoni. Ho usato anche la Telecaster per altre parti, dipende proprio dai brani.

Hai ancora la vecchia Stratocaster che usavi sui primi dischi?
Si. E’ super incollata insieme.

Come la Flying V di Albert King, ho saputo che è finita in un fiume e l’hanno dovuta incollare di nuovo.
Ho sempre amato quel suono un po’ sfasato di Albert, ma lui non ti dà mai nessuna indicazione sulla sua accordatura. E’ stato uno dei pochi bluesman che ho conosciuto ad usare un amplificatore acustico a transistor (a stato solido), con un controllo del distorsore. Ne usava uno anche Steve Winwood all’epoca dei Blind Faith e credo anche su quel disco di Gary Moore dove ha suonato Albert, stesse suonando con un Roland JC-120, a transistor. Evidentemente si trova bene con quelli. Ma i pickup della Flying V hanno un suono pieno e caldo e perciò si combinano bene con un ampli a stato solido.

Quando Albert ha rimandato la chitarra al tizio che l’aveva costruita, Dan Erlwine, l’ha messa in un sacco di juta senza nemmeno una custodia, l’ha chiusa con una corda e spedita con un bus Greyhound.
Oh Signore!

Dan ha chiesto ad Albert come mai l’avesse fatto e lui gli ha risposto che la custodia era troppo bella per rischiare che gli succedesse qualcosa.
(ride) Questa è divertente, bizzarra davvero.

Albert è così.
 Come quella storia di Mike Bloomfield che si presenta per registrare con Bob Dylan con la Telecaster senza custodia, la teneva in un sacco di plastica. Ognuno ha la sua idea quanto alle custodie, oggi tutto finisce nei contenitori da aereo, ma bisogna fare attenzione, perché poi solo quando ti rubano uno strumento o ti arriva rotto che ti manca davvero in concerto.

Hai mai perso uno strumento?
Mi hanno rubato una Stratocaster a Dublino negli anni Sessanta, l’ho riavuta dopo due settimane perché allora c’era un programma della polizia in televisione e la chitarra era finita lì. Ho perso una Telecaster più o meno in quel periodo, qualcuno scassinò il furgone e rubò la Strat e la Telecaster, che non era nemmeno mia. Non l’ho più recuperata. Invece la Strat la ritrovarono qualche tempo dopo vicino ad un fosso, aveva qualche graffio, forse per via dei rovi, ed era stata esposta alla pioggia; comunque ho giurato che non l’avrei mai venduta o ridipinta. Per quel concerto dovetti farmi prestare una chitarra, non potevo permettermi di comprare un’altra Strat e così un ‘roadiemi trovò una Burns. Quella Strat suona ancora bene, certo negli anni ho dovuto rifare i tasti, le meccaniche… ma è ancora la stessa.

Sai l’anno di fabbricazione?
Novembre 1961. Io l’ho avuta nell’agosto 1963, era di seconda mano, pare sia stata la prima Strat in Irlanda, ma il tipo che l’ha ordinata ne voleva una rossa, come quella di Hank Marvin, invece gliene hanno mandato una ‘sunburst. Ha dovuto aspettare un anno e mezzo per averne una rossa, allora ha messo in vendita l’altra tramite un negozio. Ed io l’ho comprata. Prima di allora, affittavo una chitarra; ho avuto un Solid7, una chitarra italiana molto leggera, aveva un suono molto distorto combinata con un piccolo ampli Little Giant che avevo all’epoca. Vorrei averla ancora per testare gli amplificatori, perché aveva il suono di un Pignose; allora cercavamo un suono pulito alla Hank Marvin, o alla Ventures, Buddy Holly, cose così. Ma quando ho avuto la Strat ero a posto.

Dev’essere stato un bel giorno.
Oh si lo è stato. Per settimane ogni mattina appena sveglio andavo a vedere la chitarra all’interno della sua custodia, la trattavo come fosse un essere vivente o qualcosa di magico. Anche solo l’odore che emanava dalla custodia…all’epoca potevo vederla ad occhi chiusi.

Viaggi ancora con quella chitarra?
Si. Non la porto necessariamente con me sull’aereo, ma faccio in modo che qualcuno se ne prenda cura. Ne ho anche una del 1957 in ottime condizioni, avuta, figurati, da un chitarrista che si chiama Robert Johnson, che all’epoca viveva a Memphis ed era solito lavorare con John Entwistle. Una grande chitarra, la uso sui dischi quando non uso l’altra Strat. Ha un suono anni Cinquanta, più pulito, rockabilly, alla Buddy Holly. Il manico in acero le dà un suono particolarmente pungente. La mia vecchia invece, a causa dell’usura, del sudore e tutto il resto ha un tono molto più sporco e ruvido della tipica Strat standard, arriva quasi a somigliare al suono di una SG o di una vecchia Telecaster, il che mi va benissimo. L’unica cosa che ho cambiato sulla Strat del ’57 sono i tasti, mi piacciono di formato jumbo, inoltre disconnetto il controllo medio, quello del pickup per la ritmica. Così su entrambe le chitarre ho a disposizione il tono più basso come master. Della Telecaster mi piace la possibilità di regolare il tono sul pickup per la solista, ma credo che l’idea di Fender sia stata che si suonasse la ritmica usando il pickup apposito e poi spostandolo si ottiene un suono alla ‘Peggy Sue’. Anche perché in quei giorni molti gruppi non avevano un bassista. Sulla Tele è la stessa cosa, quando suoni la ritmica si creano delle linee di basso molto potenti. Difatti Muddy Waters fino a un paio d’anni prima di morire, credo abbia suonato proprio in questa modalità.

Muddy ha suonato la Telecaster fino alla fine, per quanto ne so.
Si quella rossa. Credo che il manico lo abbiano sostituito, la chitarra in origine era bionda e Fender a Chicago, gli ha poi dato un manico molto sottile. Muddy aveva un grande feeling anche quando non suonava slide, basta ascoltare i giri che suonava, specie con Jimmy Rogers e con Sam Lawhorn, che è morto di recente.

Sei stato fortunato a lavorare con Muddy per le London Sessions.
Vero. In origine Al Kooper doveva produrre l’album e mi contattò. Poi hanno cambiato produttore ma il mi hanno confermato. Ne ero contentissimo, ovviamente. Abbiamo registrato per tre sere, solo che tutte e tre le sere avevo dei concerti e perciò ritardarono le sessions fino a mezzanotte in modo che potessi arrivare in tempo. Muddy era là seduto che accordava la sua chitarra e beveva un bicchiere di champagne, lo porse a me, offrendolo a un ragazzo di 23 anni. Lavorammo seriamente, aveva metà della sua band e Mitch Mitchell alla batteria, Steve Winwood al piano. E’ stato divertente. Credo che poi abbiano rimixato il disco a Chicago, so che alcuni altri brani di quelle incisioni sono usciti in qualche compilation o ‘best of’.

Come è stato suonare con Albert King sul suo LP dal vivo?
La situazione era la seguente: Albert è arrivato a Montreux ed era tutto predisposto per registrare. Il suo secondo chitarrista quel giorno lo aveva mollato e così lui stesso mi chiese se potevo sostituirlo. Gli dissi di no, perché il suo materiale è piuttosto arrangiato, non è libero come quello di Muddy e lui è un tipo intenso, rude, non così amichevole come Muddy. Detesto ammetterlo ma alla fine sono stato quasi obbligato a suonare e ho cercato di farlo al meglio. Non c’è stata nessuna prova, niente, dovevo indovinare la tonalità e gli accordi…Ogni volta che gli chiedevo la tonalità del brano rispondeva «è in Si», poi suonava in minore. Inoltre per quanto ne sapevo la sua chitarra era accordata in Mi minore6 o Mi minore7, perciò dovevo tenermi pronto. Che esperienza è stata! Ma ce l’ho fatta.

Mike Bloomfield una volta raccontava di essere stato ad una jam con Hendrix, in cui Jimi aveva dato fondo a tutto il repertorio, Mike pensava «santo cielo quanto vorrei essere Albert King!»
Beh, se Albert vuole appenderti al muro, ha un attacco straordinario. Una specie di sindrome da nota singola. Ero un fan di Hendrix come di Bloomfield. Ho incontrato Mike una volta, eravamo ad uno show televisivo, Midnight Special, quando l’Electric Flag si riformò. Era un tipo molto gentile, modesto, un musicista incredibile, davvero ‘soulful. Riesco ad immaginarlo in una situazione con Hendrix in cui Mike di certo non lo avrebbe seguito sulla strada dei trucchi. Ma probabilmente era un complimento alla qualità di Mike come musicista se Hendrix ha suonato così, perché di norma nelle jam era uno piuttosto tranquillo e a volte si accontentava persino di suonare il basso.

Hai incontrato Jimi?
No, ma l’ho visto suonare due volte, tre concerti. Una volta allo Speakeasy Club di Londra era seduto un paio di tavoli più in là e stava parlando con qualcuno, io però non ebbi il coraggio di andare lì a disturbarlo. Mi è accaduto talvolta e poi l’ho rimpianto, voglio dire, tutto quel che devi fare è andare lì e stringergli la mano, stabilire un contatto. Perché questa gente passa e se ne va e alla fine non hai nemmeno avuto modo di salutarli.

Se potessi viaggiare nel tempo e andare a vedere qualche musicista del passato, chi sarebbe in cima alla tua lista?
Oh, ce ne sono molti. Mi sarebbe piaciuto vedere dal vivo Django Reinhardt, doveva essere impressionante. Ovviamente Robert Johnson, chi non vorrebbe vederlo? Sonny Boy Williamson I è un altro. Ma ce ne sarebbero moltissimi, Buddy Holly ad esempio. Non ho mai visto Son House, però negli anni Sessanta sono stato abbastanza fortunato da vedere Muddy, John Lee Hooker, Big Joe Williams, T-Bone Walker. E quando siamo andati in tour negli States abbiamo suonato con Freddie King, Juke Boy Bonner. Mi ritengo fortunato, ho visto Gary Davis, ma mi sarebbe piaciuto vedere Blind Boy Fuller, anche se è un po’ sulla linea di Blind Blake.

Blind Boy Fuller è una figura piuttosto in ombra, anche oggi. Come hai scoperto la sua musica?
Su un LP Blues Classics, c’erano anche Bull City Red e Sonny Terry.

C’era anche Step It Up And Go?
Sì e Three Ball Blues. Era grande. E Scrapper Blackwell mi piaceva moltissimo, in particolare le registrazioni che ha fatto quando aveva settantuno anni o qualcosa del genere. Ed era in gran forma. Tanto che quando sono andato a riascoltarmi la roba con Leroy Carr ne sono rimasto quasi deluso perché secondo me come chitarrista era molto migliorato. E’ vero che i primi dischi erano registrati in modo approssimativo e la chitarra non si sente in modo nitido. Un aspetto sorprendente del blues revival è stato proprio che Furry Lewis, John Hurt e altri, erano migliorati col tempo. E’ fantastico. Molti di loro sono ancora vivi, John Lee Hooker ha avuto un grosso hit ora, Albert Collins e Albert King se la cavano bene, B.B. King idem, spero che questo porti interesse anche per musicisti meno conosciuti come John Littlejohn, Johnny Shines o Johnny Young. Non saranno i musicisti classici, ma suonano in modo ruvidamente splendido.

Usi accordature aperte?
Si uso un’accordatura in ReLaReSolLaRe su Out On The Western Plain, la canzone di Leadbelly. E’ una delle mie accordature preferite. Credo che abbia avuto origine con Davy Graham, un chitarrista scozzese, poi l’hanno usata molto Bert Jansch e Martin Carthy, entrambi a loro modo grandi musicisti. Ultimamente ho sperimentato la ‘double drop D’, abbassando cioè di un tono il mi cantino e il mi basso. E’ molto valida. Altrimenti uso il La aperto, è correlata al Sol, solitamente con un capotasto.

Che accordatura usi per i pezzi con la slide?
Fammici pensare. Sol aperto. Anche se Ghost Blues è in La, ma con la chitarra accordata in Sol. Su Walking Wounded la chitarra invece ha una accordatura standard, riesco a farla anche così. Empire State Express è ancora in Sol, mentre tutte le altre parti di slide sono in standard, un po’ come Earl Hooker che suonava accordi e poi faceva un assolo.

Muddy una volta ha detto che Earl Hooker era il miglior chitarrista slide.
Suonava benissimo anche su note singole, specialmente sui primi dischi di Junior Wells. Sulla versione originale di Messin’ With The Kid tirava fuori dei suoni incredibili dalla Stratocaster, prima di passare alla Danelectro. Infine credo abbia usato Gibson.

La sua slide su pezzi come Anna Lee era pazzesca.
Come sai Anna Lee e Sweet Black Angel sono entrambe di Robert Nighthawk. Ma Hooker è stato il primo, a parte Hendrix, dal quale sono riuscito ad accettare l’uso del pedale wah-wah! (ride)

Aveva qualche problema con il wah-wah, a volte mi sembra che esagerasse.
Sì, sì. Beh è un po’ lo stesso su quel disco di Howlin’ Wolf dove hanno usato un sacco il pedale wah-wah, ti ricordi quello uscito più o meno al tempo di Electric Mud? (The Howlin Wolf Album).

Quello con Pete Cosey.
Esatto. Non mi ricordo chi altro c’era su quel disco, Le note di copertina erano buffe. Ci avevano scritto anche qualcosa del tipo “Howlin’ Wolf non ama questo disco, ma non amava nemmeno la sua chitarra elettrica…”

Il chitarrista principale di Wolf, Hubert Sumlin è troppo sottovalutato.
Assolutamente. Ed è una vergogna. Come sta a proposito?

Sembra che stia bene di recente.
Ha inciso alcuni dischi dai giorni con Wolf, ma o è stato prodotto in modo sbagliato, oppure il materiale non era all’altezza, gli mancava Wolf o l’alchimia che si creava.

Forse invece di incidere con band fornite dalle case discografiche, andrebbe meglio se potesse scegliere con chi suonare e il materiale da registrare.
Beh certo questo è importante. Molti pensano di saperla lunga, di avere la mentalità del produttore. So che è un lavoro importante, però certi sono del tutto indifferenti rispetto al fare la cosa giusta, capisci cosa intendo? So bene che col passare degli anni, tutto si restringe, in termini di budget, pubblicità e pubbliche relazioni, pressione…Hubert è uno che si merita davvero il suo posto al sole, perché suona in modo incredibile sia su una Les Paul che su una Strat. Non sai mai che chitarra stia suonando sui dischi, ha un suono talmente bello. Una volta è venuto in Inghilterra con una specie di Strat tigerskin. Ne avevo vista una fotografia su uno di quei dischi di Memphis Blues della Kent, con Joe Hill Louis e altre cose di quell’epoca. Insomma c’era una foto della chitarra e ho la vaga idea che sia una chitarra di origine africana. Qualcuno mi ha detto che viene dallo Zanzibar o da un posto del genere. Se mai lo vedi, chiediglielo. Con tutto l’interesse per la serie ‘pawn shop special (della Fender), quel modello non è mai saltato fuori, forse l’ha ridipinta lui, chi lo sa.

Quando suoni slide usi un plettro?
Si un plettro e le dita. Cambio slide inoltre, talvolta uso una bottiglia di Coricidina sull’anulare o sul mignolo. Se suono la National a volte uso uno slide d’ottone, sull’elettrica invece di solito uso slide d’acciaio.

Avverti una differenza di tono tra i diversi materiali?
Direi di sì. Il vetro è ovviamente più, non vorrei dire hawaiano, ma più dolce, morbido. Il rame o l’ottone è molto stridente, va bene se vuoi avere un attacco alla Son House, però alla lunga è quasi troppo stridulo. L’acciaio è un buon compromesso, ma dipende anche dalla chitarra che stai usando.

Lo ricavi da una bussola / chiave meccanica come Muddy o usi una slide acciaio?
Una in acciaio. Però ne ho avuta una ricavata da una bussola meccanica perché John Hammond mi disse che ne stava usando una e così pure Lowell George, con cui tra l’altro abbiamo suonato. Per mio conto sono ottime, ma servono delle corde davvero spesse. Non mi ricordo se ne ho una da 5/8 o da 7/8, comunque ripeto sono fantastiche ma se le suoni su più di due pezzi di fila ti consumano il mignolo. E’ l’unico difetto secondo me, non che preferisca slide leggere, però non voglio nemmeno che la mano si stanchi troppo.

Regoli l’action delle corde in modo diverso quando suoni slide oppure hai una chitarra apposta per quello?
Ho una Gretsch Corvette che è accordata in Sol o La aperto, a seconda del pezzo, con corde da .013 a .050 o qualcosa del genere. Di solito uso corde dello .010 / .044, con una action abbastanza alta, che va bene anche per la slide. Certo per suonare davvero bene con accordature aperte ci vogliono corde più spesse, ma posso cavarmela con entrambe. Almeno ci provo.

Quale è il tuo ampli preferito?
Bella domanda! E’ una battaglia tra il Vox AC30, il mio primo ampli, ed il Fender Bassman 4×10, amo anche il piccolo Fender Deluxe però. Ho suonato anche con gli Ampeg VT-44, che sono molto buoni. Negli anni ho usato anche Marshall da 50 watt combinati con un Fender o un Vox, sono ottimi per volume di suono. Il calore del Fender e la personalità del Vox non si battono però, quindi l’ideale è a metà strada tra i due.

Quali hai usato sul nuovo album?
Per le tracce ritmiche una combinazione di Vox e Marshall. Le parti soliste lo ho incise quasi tutte con un Fender Bassman del 1955. Abbiamo tolto il retro e messo dei microfoni anche da quel lato oltre che di fronte, così abbiamo catturato anche quelle variazioni. Abbiamo lavorato così non proprio per tutto ma direi almeno per l’80% dei pezzi, Vox e Marshall per le parti ritmiche e Fender Bassman per le soliste.

I tuoi fan americani hanno dovuto attendere parecchio per rivederti qui. A cosa è dovuto il ritardo?
Non saprei. Siamo tornati in Europa dopo l’ultimo tour americano, nel 1985, e siamo rimasti in Europa tra concerti e registrazioni. Abbiamo suonato in Jugoslavia, Ungheria…Abbiamo anche cercato di trovare un accordo per pubblicare il disco in America. Non so dove siano finiti quegli anni.

Abbiamo visto annunci sul New Musical Express che hai suonato anche laggiù.
E’ una cosa un po’ irritante. Eravamo in questi grossi tour con rock band da stadio. Lo abbiamo fatto anche per suonare in America, pagare i voli e poi la cosa ci dava modo di avere tempo libero e suonare nei club o nei college. Anche se poi a volte non torni a casa contento comunque, perché non vieni trattato benissimo, ci sono problemi coi monitor, le luci, la disposizione del palco e il tempo che ti è dato per suonare.

Il pubblico americano non è sempre ben disposto verso i gruppi d’aperture, specialmente se appartengono ad un genere differente.
Verissimo! Questo, in effetti, è un problema. Va tutto bene quando siamo stati accoppiati con gli ZZ Top o qualcuno del genere. Ma qualche volta è capitato che ci mettessero con gente totalmente aliena al nostro tipo di musica. Non che ci abbiano fischiato o altro, ma hai la sensazione di aver buttato due settimane delle tua vita, quando avresti potuto andare a suonare in club o piccoli teatri. Mi spiace non essere tornato negli ultimi anni, ma questo ci ha dato modo di riesaminare quel che facciamo e poi nel frattempo siamo rimasti molto attivi in Europa. Inoltre avevo anche sviluppato un problema col volare.

Hai paura di volare?
Sì. Dopo un paio di brutti voli ho sviluppato un complesso alla Buddy Holly. Mi ha preso talmente male che non riuscivo a volare nemmeno in Irlanda, che è ad un’ora di volo da Londra. Per suonare sul continente, dovevo partire la sera prima per arrivare in tempo. Non è tanto la paura di morire, ma un misto di claustrofobia e qualche altra cosa. Per miracolo stavolta ho volato da Londra a Tokyo, in Australia, da lì a Los Angeles e infine a San Francisco. Dobbiamo spostarci in lungo e in largo e poi tornare a Londra. E’ andato tutto bene per ora, le mie preghiere sono state esaudite. Sconfiggere la fobia del volo è stata una prova non da poco per me. E’ l’ultima cosa di cui hai bisogno dopo tutti questi anni di concerti e di voli due volte al giorno. Così anche questo ha peggiorato i miei problemi, voglio dire per non essere in grado di venire negli States.

Hai qualche consiglio per restare sani mentalmente e concentrati quando si è in tour? E’ un tipo di vita così insolita.
Lo è senz’altro. In più c’è anche il rischio, con poco tempo disponibile tra il viaggio, l’hotel, l’arrivo al luogo del concerto, di non riuscire quasi a suonare per conto tuo in albergo e puoi facilmente diventare pigro. Mi sono dato l’obiettivo di suonare ogni giorno nella mia stanza d’hotel e su un piccolo registratore a cassette, incidere quel che suono, cercando di scrivere canzoni come conseguenza di questo. Per conservare la sanità mentale, non so, ti ci vogliono vent’anni per scoprirlo. Conosci l’abc all’inizio ma ci sono così tanti momenti che possono consumare i nervi di un musicista. Dipende molto dal tuo atteggiamento riguardo il viaggiare, il volo, gli hotel, il ricordare dove sei, cercare di tener su il gruppo ogni sera e mettere insieme un bel concerto. Ogni musicista ci passa, devi sviluppare pazienza, ‘sense of humour, restare tranquillo. Conosci quel vecchio cliché: preoccupati del concerto di stasera, non di quello di martedì prossimo o alla fine del tour? Beh è un classico, ma è vero.

Se qualcuno che ti conosce per i dischi ti ascoltasse suonare nella tua stanza d’hotel resterebbe sorpreso?
(ride)

Sei uno che per conto suo suona country, bluegrass o flamenco?
Flamenco, di sicuro. Faccio qualche passaggio country talvolta. Sono un ammiratore dello stile di Roy Nichols, suonava sui dischi di Merle Haggard, o di alcuni dei musicisti che hanno lavorato con Waylon Jennings e Johnny Paycheck. Non mi piace il country commerciale. Non so davvero suonare flamenco così bene, posso fingere ma solo per me stesso. Suono qualcosa di jazz o ragtime, qualunque cosa mi rilassi. Fa bene alla tua sanità mentale suonare cose diverse da quelle che fai sul palco, anche se suoni una cassetta in camera. Suono parecchio folk, Martin Carthy, cose irlandesi, pezzi di Django. Soprattutto durante un lungo tour trovo davvero utile suonare per me cose differenti e country e folk lo sono. Con questo non voglio dire che non faccio blues, ma dipende da tante cose, l’umore, la fase che attraverso, l’anno.

Sono continuamente sorpreso da come il blues sia un linguaggio universale, che parla al di là dei confini a moltissima gente diversa.
In particolare il recente interesse che si è creato. Ero un po’ avvilito per le sue speranze tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottante, pensavo ormai si fosse nell’era della tecnologia, ‘drum machines’, ‘techno pop’. Perciò pensare a questo interesse per il blues all’inizio degli anni Novanta anche grazie a Stevie Ray e a tutti quelli che hanno continuato a suonarlo, come Albert Collins, Thorogood e altri, il picco con Robert Johnson e John Lee Hooker. E il ritorno di Bonnie Raitt se vuoi. Chi lo avrebbe detto? La cosa mi rende ottimista per gli anni Novanta, va di bene in meglio. Forse avrà una nuova flessione, ma non credo, penso ci possa essere un interesse sincero e serio nei prossimi anni, sarebbe proprio bello.

Molti sono anche interessati allo zydeco e alla musica africana. Tutta la scena della world music è abbastanza nuova, la gente sembra averne avuto abbastanza del pop mainstreamUn sacco di adolescenti ti sorprendono, dicendoti «oh amiamo il suono di vere batterie, vero basso». Sono stati nutriti per troppo da questa musica meccanica da space invaders, almeno era tale alle mie orecchie. Tutti questi battiti da metronomo elettronico, ho una teoria, penso facciano male; sono come una telescrivente, un tele text, il battito cardiaco e la mente non funzionano in digitale.

E un po’ lo stesso per il reggae.
(ride) Qualcosa del genere. E’ un bel modo di metterla. Qualcuno dovrebbe farci uno studio e vedere cosa ne vien fuori. Alcuni sostengono che gli echi digitali, anche se è a tempo, sono diversi, risultano in qualche modo sfasati, non saprei, è una teoria, ma tendo a crederci.

Credo arriverà il tempo in cui la musica verrà usata come terapia per guarire le persone.
La musica può guarire, ne sono convinto. Ha il potere di calmare i bollenti spiriti, come si suol dire, senza dubbio. Nel momento in cui togli di mezzo il music business e gli aspetti migliori e deteriori di esso, resti con un brano di musica e un musicista, ed è importante che questo sia il più possibile vero e naturale.

Cosa ti piace proporre alla fine di un concerto?
I nostri concerti tendono a diventare molto movimentati alcune sere, la gente si mette a saltare. Lo accetto, almeno fintanto che ascoltano anche i momenti acustici e gli slow blues, l’insieme. Chiudiamo con pezzi uptempo di solito. Posso scegliere, ma non vorrei che diventasse uno spettacolo dove la gente applaude gentilmente. Devi creare un’atmosfera, poi in ogni concerto se voglio ho la possibilità di cambiare, chiudere con due o tre pezzi differenti in termine di reazione e performance. Cerchiamo di creare dinamiche all’interno del set, in modo da non renderlo troppo prevedibile, che non si dica «ah questo è un altro pezzo come quell’altro».

Cambi la set list ogni sera?
Oh sì lo facciamo. Raramente abbiamo una set list definita, solo se siamo ad un programma radio o televisivo, se hanno telecamere da gestire, se no non abbiamo una set list. Di tanto in tanto, magari ad un grosso festival in cui il tempo per suonare è limitato, non guasta avere una set list, anche solo come traccia. Nove volte su dieci, passiamo da album ad album seguendo quello che ho in testa. Specialmente in questo tour, proprio perché è da tanto che non suoniamo qui, non facciamo solo le nuove canzoni, ma molte di quelle vecchie, per rinfrescare i ricordi del pubblico.

Hai gli stessi musicisti da molto tempo.
Si al basso dal 1971 c’è Garry McAvoy. Alla batteria dal 1980 Brendan O’Neil e all’armonica da sei o sette anni, Mark Feltham.

Non per farti fare auto-analisi, ma se qualcuno dovesse mettere insieme un CD ‘The Essential Rory Gallagher’, ci sono pezzi che dovrebbero essere inclusi per forza?
Penso di si. Dovessi fare un ‘Best Of’ dai vecchi tempi, direi Cradle Rock, Million Miles Away, Tattoo’d Lady. Ci sono parecchi brani che mi piacerebbe rifare e rimixare, cose come Race The Breeze, mi piaceva molto, vorrei darle un’atmosfera alla Staple Singers.

Pops Staples è un altro grande chitarrista sottovalutato.
Proprio vero! In particolare sui primi dischi, il suo uso del tremolo sulla Jazzmaster, sai registrare una chitarra così conferisce alla musica davvero lo spazio per respirare.

Torniamo al disco.
Loanshark Blues mi piace molto, è un pezzo dell’ultimo album. E’ dura scegliere. Se mai faremo un box o qualcos’altro più tardi quest’anno o forse il prossimo, sarà interessante andare indietro e vedere il materiale che abbiamo, anche quello che non è finito nei dischi.

Qual è il raggio d’azione di questo tour?
In America abbiamo cominciato dalla West Coast. Abbiamo suonato intorno a San Diego, due o tre date, al Roxy a Los Angeles. Poi siamo venuti in quest’area, Santa Cruz, Oakland ieri sera, San Francisco domani. Abbiamo ancora San José prima di spostarci a Minneapolis.

La città natale di Prince.
Si. Faremo Purple Rain in suo onore là. E’ anche un bravo chitarrista, secondo me un po’ sottovalutato. E’ stato anche intelligente a servirsi di un vecchia copia Hofner della Telecaster, erano valide e non ho più visto nessuno usarle eccetto un chitarrista a Nashville. Credo fosse il tizio che suona su Drift Away di Dobie Gray.

Era Reggie Young?
Potrebbe essere lui. So che ne hanno rimesse in circolazione delle copie, ma non sono altrettanto buone. Devo tenerle d’occhio e vedere se riesco a procurarmene una. Proseguiamo a New York; Boston, Detroit, Chicago. In Canada suoneremo a Toronto. Saltiamo purtroppo Washington, Dallas e tutta l’area del sud, ma speriamo di tornare tra due o tre mesi e coprire anche quella zona. Abbiamo impegni in Europa dopo Pasqua e perciò dobbiamo tornare lì. Sarebbe ideale fare due o tre mesi qui in America, ma questa volta visto che veniamo direttamente da Australia e Giappone, e poi facciamo un mese intero qui, alla fine siamo contenti di tornare a casa e staccare la spina per una settimana.

Dove abiti ora?
La mia base è Londra adesso.

Torni a Cork di tanto in tanto?
Certo. Anche se con questa storia del volo è un po’ che manco, ma se l’ho superata, come sembra, ci tornerò presto. D’abitudine torno ogni tre settimane o al massimo ogni due mesi. Ad un certo punto ero quasi un pendolare, la cosa non mi pesava perché mi piace mantenere le mie radici irlandesi. Londra è un buon posto come base per lavorare, ma non è davvero casa mia, se capisci quel che intendo. Ma ci vivono tutti i musicisti e ci sono molti studi di registrazione. Anche se ora col boom del rock irlandese, è del tutto fattibile incidere un disco a Dublino. E’ diventata una rock and roll city.

A causa degli U2?
Beh in parte, ma è qualcosa che risale già a prima, a Thin Lizzy e Boomtown Rats e ad altri. L’industria musicale sta cominciando a prendere sul serio i musicisti irlandesi, mentre ai tempi in cui venne fuori Van Morrisono e noi poco dopo, era piuttosto dura farsi accettare. Tutti pensavano fossimo come i Clancy Brothers oppure una band dance. Non c’erano molte band irlandesi di rhythm and blues o di rock allora. Perciò non era facile sconfiggere lo stereotipo, ora va molto meglio. Sono addirittura tentato di registrare il prossimo disco a Dublino per vedere cosa succede. Ho inciso tre pezzi per un disco di Davy Spillane, un suonatore di uillean pipe, e mi è piaciuto lavorare negli studi di Dublino. Del resto per essere un irlandese, a parte il live album dall’Irish Tour, non ho inciso nulla in Irlanda.

Epilogo
Quella sera il set di Rory al Catalyst fu lungo e stellare, suonò molti pezzi di artisti di cui avevamo discusso nell’intervista, le sue Continental Op, Tattoo’d Lady, Kid Gloves e Million Miles Away e cover da Robert Nighthawk, Going Down To Eli, Leadbelly Out On The Western Plain, la Walking Blues di Son House e Robert Johnson, Pistol Slapper Blues di Blind Boy Fuller e Messin With The Kid di Junior Wells.
Fresh Evidence rimase l’ultimo disco pubblicato da Rory e il 1991 l’ultimo tour americano. Morì il 14 giugno 1995 per le complicanze sopravvenute dopo un trapianto di fegato. E’ sepolto nel cimitero di Saint Oliver, in Model Farm Road a Cork, Irlanda. Diedi i nastri della nostra intervista a suo fratello Donal Gallagher, che ne ha utilizzato alcune parti per un radio documentario sulla vita di Rory realizzato dalla BBC nel 2005

Jas Obrecht. L’intervista ed il materiale fotografico sono stati usati con il permesso dell’autore. Tutti i diritti riservati.)

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 129, 2014

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