La morte di Pino Daniele ci ha trovati impreparati, come solo la morte sa fare. Ci ha scombussolato, come solo la morte sa fare. Quello che è accaduto dopo ci ha deluso, come solo l’uomo sa fare.
Rimane il vuoto per la perdita di una persona votata alla musica e ad un bellissimo rapporto col proprio pubblico. Eppure Pino Daniele non è mai stato tra le nostre pagine, difficilmente ci capitava di ascoltare la sua musica e lo abbiamo, anche (e forse a torto) criticato. Ma il dato di fatto – e qui non vogliamo fare una gratuita celebrazione post-mortem e nemmeno ripulirci la coscienza – è che Pino Daniele ha rappresentato per l’Italia un gran pezzo di storia della musica contemporanea. Un atteggiamento, forse un po’ snob, di noi estimatori della musica afro-americana lo ha relegato, anche con fastidio, nella sezione degli “indesiderati” solo per aver apertamente e ripetutamente dichiarato di amare il blues. Se ancora oggi ci chiedono se Pino avesse suonato blues ci sentiremmo di rispondere “No” ma, allora, proprio adesso – e in grave ritardo – dovremmo iniziare a fare una disanima approfondita del personaggio Pino Daniele, più che della sua musica e, soprattutto, dei nostri (di noi appassionati di musica) atteggiamenti di chiusura e settorializzazione.
Nato e cresciuto nella città considerata, a ragione o a torto, più musicale dell’intera Nazione, una sorta di New Orleans mediterranea (non ce ne vogliano i nostri lettori) dove un melting pot di suoni e influenze musicali ha determinato il nuovo suono di Napoli, Pino ha avuto un exploit enorme in uno dei periodi storici più bui per la musica moderna, quello a cavallo tra la fine dei ’70 e tutti gli anni ’80, quando anche il movimento punk aveva esploso le migliori cartucce e lo star business creava e disfaceva a piacimento le icone musicali maggiormente in voga. A testa bassa e con le idee ben chiare in testa Pino Daniele ha fatto la sua musica e l’ha fatta conoscere in giro per il mondo ma, soprattutto (specialmente nel nostro caso), ha parlato di blues in un’Italia dove, all’epoca – salvo sporadiche occasioni come il concittadino Bennato – difficilmente gli artisti considerati famosi citavano questo genere musicale come tra le loro influenze. Il talentuoso musicista (non sottovalutiamo le sue doti canore e chitarristiche) si è sempre avvalso di strumentisti di altissimo valore, nazionali ed esteri e, nonostante il suo suono avesse – forse – una caratteristica più jazzata, di blues ne ha parlato tanto, e in italiano.
Questa cosa ha ulteriormente infastidito gli estimatori delle 12 battute, ma riecheggiano ancora bene nelle nostre orecchie le parole di Jay Sieleman (big boss della Blues Foundation di Memphis) che ripetutamente ci disse, anzi ci esortò, di convincere i nostri musicisti a cantare nella nostra lingua, poiché è la nostra identità che dobbiamo cantare e dobbiamo farlo come realmente siamo. Anche Alan Lomax era convinto di ciò e su questo punto si potrebbe aprire un lunghissimo e fuorviante dibattito ad iniziare dalla musicalità della lingua italiana, ma quello che vogliamo celebrare in queste poche righe dedicate a Pino Daniele è il comportamento umano avuto dall’artista in tutti i suoi anni di carriera dove, e qui ci sentiamo di difenderlo e lodarlo, ha avuto un comportamento blues molto più di tanti altri suoi colleghi che si definivano tali. Ed è principalmente per questo che ci sentiamo di volerlo omaggiare e ringraziare e ci piace pensare che esistano veramente le praterie celesti dove la musica è finalmente libera e tutti possano continuamente suonare la propria musica in un turbinio di contaminazioni positive, anche Pino. E chissà che un giorno non inizieremo pure noi ad ascoltarlo e ad apprezzarlo, privati dalle nostre barriere.
Antonio Boschi, fonte Il Blues n. 130, 2015