“Alan Munde mystifies me”: Alan Munde mi disorienta. Queste parole sono di Ben Eldridge, peraltro grande estimatore di Munde, e suonano molto opportune sin dal primo ascolto di The Banjo Kid Picks Again, ultima fatica di Alan per la Ridge Runner Records di Slim Richey.
Munde è in splendida forma, dal lato tecnico, e il titolo di banjoista dei banjoisti, attribuitogli tempo fa da Steve Block, critico della rivista Banjo News Letter, sembra calzargli alla perfezione: il timing, la precisione della sua mano destra è impeccabile, e conferisce alla sua musica una carica ritmica trascinante e vigorosa; la mano sinistra spazia per tutta la tastiera, fornendo una ricchissima base armonica con accordi su posizioni spesso complicatissime (come ben sa chi abbia provato a suonare qualche suo pezzo!). Il risultato, per dirla ancora con Block, è “pura poesia musicale, economia di fraseggio ed eleganza di contenuto”.
Dalla sua Munde ha anche una estrema versatilità, che gli permette di passare con apparente indifferenza dal bluegrass puro (ma ha ormai ancora un senso questo termine?) a swing, jazz, musica classica e forse al resto del suonabile. Qui, però, nasce in parte il disorientamento. La musica di Alan Munde è sempre più intrisa di banjoismo, in altre parole sembra essere sempre più fine a se stessa, tesa solo a dimostrare che il vecchio five-string nelle sue mani non è solo un giocattolo per fare musica allegra, bensì un vero e proprio strumento musicale completo.
Alan Munde celebra il banjo a cinque corde, è vero, ma questa celebrazione lascia a volte un dubbio di narcisismo. Altri prima di lui hanno onorato lo strumento, con un valido stile personale (Scruggs, Stanley, Dillard) o con esplorazioni in altri campi musicali (Reno, Keith) o con sperimentazioni su sonorità ispirate da altri strumenti (Osborne, Crowe), ma l’hanno fatto con maggiore rigore e coerenza stilistica, a mio parere, anche se forse con la limitazione di restare molto legati al bluegrass.
Ma è una mia opinione, da tradizionalista incancrenito e malato di bluegrass e old time music. In effetti il cambiamento di stile di Munde non è enorme, ed è causato più da una diversa cornice che non da una diversa impostazione tecnica, ma è proprio questa cornice che mi disturba: l’intrusione della chitarra jazz di Slim Richey, la ricerca di sonorità non-bluegrass, il dubbio costante che la ricerca di novità sia solo un brancolare nel vuoto. Ma è una mia opinione etc. etc.
Cominciamo a parlare dei pezzi che non mi piacciono: Sabrosa, incomprensibilmente spagnoleggiante, e vagamente inutile; How High Is The Moon, con un lungo solo jazzato che non tollero, per quanto perfetto esso sia tecnicamente. Si va già molto meglio, invece con Hard Times di Ralph Stanley (con non poche reminiscenze di Doug Dillard, il banjoista prediletto di Alan Munde), in cui il nostro gioca magistralmente sui diversi timbri del suo Stelling, in un ritmo davvero esaltante; I Don’t Love Nobody e Earlsboro Kwickstop, decisamente bluegrass, con preziosi giochi su tempo e spaziatura delle note.
Alan Munde è accompagnato dai soliti amici: Country Gazette al completo, e i già citati Sam Bush, a fiddle e mandolino, Jerry Douglas (ex New South) al dobro, e naturalmente il boss Slim Richey alla chitarra jazz. La qualità tecnica del disco è come sempre buona, e la copertina è simpatica. Tutto sommato l’album è interessante, pur con le limitazioni che ho detto, e può essere una buona aggiunta alla collezione dei sempre più numerosi appassionati del Munde-grass.
Ridge Runner RRR-022 (Bluegrass Progressivo, 1980)
Silvio Ferretti, fonte Mucchio Selvaggio n. 39, 1981