Alessandro Russo

Quando in redazione mi hanno suggerito di intervistare Alessandro Russo spiegandomi che è uno dei pochissimi chitarristi italiani che suonano lo swing rifacendosi in parte all’insegnamento insostituibile di Django Reinhardt, devo ammettere che sono stato proprio contento perché lo swing, lo swing europeo di Reinhardt, è sempre stata una delle mie passioni.
E’ una musica diretta, immediata eppure complessa, soprattutto ritmicamente… ma di queste cose e di altre ed anche di Django Reinhardt ne parla abbondantemente Alessandro in questa intervista in cui volutamente ho cercato di focalizzare l’attenzione sullo swing e sul rapporto del musicista romano con questa musica. Ho evitato di tracciare le linee della formazione musicale di Alessandro preferendo appunto concentrarmi sullo swing, sia perché lui è un vero conoscitore della metrica, sia perché è una musica che dovrebbe essere riscoperta ed il gruppo di Russo, Les Hot Swing, con il loro album d’esordio e la loro carica trascinante possono senz’altro essere utili per avvicinarsi allo swing.

Tu sei uno dei pochi chitarristi italiani che si dedicano ad una musica swing di evidente matrice europea, quindi la domanda viene quasi spontanea: perché lo swing?
Mi sono avvicinato a questa musica circa otto anni fa. Avevo cominciato ad ascoltarla quasi per caso a casa di amici, spesso anche per radio, poi è scoppiato l’amore, causato dalla scoperta di Django Reinhardt, il grande chitarrista francese. Scusa se apro una parentesi: normalmente Reinhardt è considerato francese, in realtà era belga anche se il grande successo l’ha poi avuto in Francia. Ascoltando lui mi sono accorto che il suo modo di interpretare anche brani famosi d’oltreoceano era personalissimo: certo lui manteneva il ritmo swing di gente come Benny Goodman, però il suo fraseggio era sempre strettamente legato alla cultura zingara — non dimentichiamo infatti che era profondamente legato alle sue origini gitane. Quindi abbiamo un chitarrista ‘ignorante’ sotto ogni aspetto — non sapeva addirittura né leggere né scrivere, almeno quasi fino alla morte, e chiaramente non aveva nessuna conoscenza neanche musicale di scrittura o lettura — un chitarrista istintivo che però è riuscito a fondere l’esperienza della sua cultura gitana con una musica americana che era arrivata a lui attraverso alcuni amici, una musica che l’aveva letteralmente scioccato e di cui aveva subito intuito le potenzialità ritmiche e le maniere possibili d’intervento che lasciava. La cosa importante e da sottolineare è che Reinhardt rimase affascinato dal ritmo ma non si fece assolutamente influenzare dal modo di suonare lo swing: unendo quindi quel ritmo alla sua maniera di suonare è uscito fuori questo stile strano, incredibile, supportato da una tecnica incredibile, una tecnica che poi dopo il famoso incidente in cui perse alcune dita, riuscì a mantenere suonando con due sole dita. E’ noto che l’incidente avvenne poco prima del successo e quindi molte cose classiche di Reinhardt sono state incise con due sole dita.

Tutto questo è affascinante e parlare con un chitarrista che conosce cosi bene Reinhardt quasi obbliga ad approfondire il discorso: cosa suonava prima dello swing?
Django Reinhardt quando arrivò a Parigi attorno agli anni venti suonava il banjo e suonava con gli accordionisti, suonava il ‘bal musette’ che è difficile da definire,., era comunque una sorta di liscio… Musicalmente le due forme sono lontane, ma questo è per farti capire il tipo di pubblico che aveva il bal musette. Era in sintesi la musica che ballavano negli anni venti nel periodo della belle epoque, ma anche fino agli anni trenta. Lui suonava quindi nei bistrot o nei cafè chantant e in quegli anni già si era messo in luce passando alla chitarra ed al violino, anche se della sua tecnica su questo strumento non si sa nulla. In quel periodo Django incontra un pittore, Emile Sevitry, che affascinato dal personaggio decide di promuoverlo facendo arrivare i suoi cugini ed il fratello di Reinhardt che per molti anni sarà la chitarra d’accompagnamento di Django; li ospitò a casa sua e li introdusse nel mondo dei musicisti di jazz evoluti come il contrabbassista Louis Volà, che una volta incontrato Django lasciò il suo lavoro di panettiere: così nel giro di poco tempo nacque il quintetto a corde grazie anche all’incontro con Stephane Grappelli. Django e Stephane si erano conosciuti suonando in uno dei locali più noti di quegli anni — Grappelli faceva una musica ‘tipica’ e Django il bal musette. Durante le pause i due nel retro palco suonavano assieme swing finché uno dei critici jazz più in voga in quegli anni li scoprì ed anche grazie ad una serie di circostanze uscì fuori questo quintetto a corde attorno al ‘35. La formazione prevedeva due chitarre d’accompagnamento, il contrabbasso, il violino e naturalmente Django.

Adesso torniamo a te, altrimenti rischiamo di parlare soltanto di Reinhardt. Otto anni fa sei rimasto folgorato dallo swing, ed allora che cosa è successo?
Io già suonavo, avevo suonato il violino in gruppi folkloristici, avevo fatto musica sperimentale, suonavo la chitarra elettrica facendo rock e blues; ma lentamente, una volta scoperto lo swing, ho subìto una specie di mutazione, perché in realtà malgrado suonassi già da due anni mi sentivo sempre insoddisfatto, insomma non avevo ancora trovato uno stile che mi prendesse totalmente, uno stile che mi coinvolgesse totalmente.

Qual è il legame tra lo swing americano. e quello proposto da Django Reinhardt?
In America c’era uno swing con caratteristiche precise, una musica che in Europa arrivò con un bel po’ di ritardo ed arrivò, è necessario chiarirlo, a Parigi. Quindi a Parigi c’era un grande fermento e ottimi musicisti che riproponevano uno swing di matrice americana; quello che fece Reinhardt fu proprio di offrire una dimensione europea a questa forma proprio perché cominciò a fonderla con quella sua cultura rurale, rurale tra virgolette — voglio dire che sarebbe potuto succedere ad altri, ma il caso volle che Django fondesse quel ritmo ad una sua musica trovando quelle direzioni che poi oggi conosciamo. La differenza la puoi trovare nell’ensamble in cui si muove Reinhardt, vale a dire un quintetto a corde, mentre in America lo swing era fatto dalle orchestre e soprattutto erano i fiati gli strumenti principali.
Si, Charlie Christian è stato spesso legato a situazioni swing, è sicuramente un personaggio importante perché tra i primi ha sfruttato la chitarra elettrica, però lui non aveva un fraseggio swing, il suo era già un fraseggio moderno quasi be-bop e comunque legato al trump style, e lo stile dei chitarristi americani al novanta per cento si è rifatto al fraseggio dei fiati.
Per tornare a Django si può dire che lui non si è mai rifatto al fraseggio del sax, ma ha lavorato su un chitarrismo personale.

Stilisticamente quanto ti senti legato a Reinhardt?
È come quando vai da uno psicanalista: uno crede di andarci per risolvere i propri problemi, in realtà lui può darti la chiave per cambiare e stare meglio… ecco, per me Reinhardt ha rappresentato quella `chiave’ che mi ha permesso di capire quello che volevo suonare.

Tu chitarristicamente venivi da situazioni musicali diverse, che difficoltà hai trovato tecnicamente quando ti sei avvicinato allo swing?
Ho dovuto modificare parecchio della vecchia tecnica. Anzitutto c’è stato il passaggio da una chitarra elettrica ad una acustica, e questo è già un bel passaggio. Calcola che io avevo una chitarra acustica, ma la suonavo poco, sempre come autodidatta — avevo studiato chitarra classica, sai, c’erano cose particolari che mi piacevano ed allora per un periodo mi sono dedicato a certi autori…

Chi in particolare?
Anzitutto Barrios, ma anche Villa Lobos e Lauro. Comunque una adorazione particolare per Barrios. Tornando al discorso dell’acustica… beh!, quando ho scoperto lo swing e Reinhardt, a lui e solo a lui mi potevo rifare e praticamente ho dovuto reinventarmi una nuova impostazione sullo strumento, una nuova maniera di dare le pennate, di dosare la forza sul modo di fare i vibrati e di prendere gli accordi. Non dico che ho ricominciato da capo perché c’erano già delle solide basi, comunque sicuramente ho ripreso a studiare. Essendo un autodidatta ho poi fatto quello che in molti avevano fatto prima di me per qualsiasi altra forma musicale: vale a dire ascoltare e rifare nota per nota. Da tre o quattro anni non faccio più così perché, e ne sono convinto, ad un certo punto devi andare avanti da solo. A me l’ascolto della musica di Reinhardt è servito per avere quella `chiave’ indispensabile, ma poi devi andare avanti da solo; se devi esprimerti devi esprimere te stesso e non devi assolutamente scopiazzare da altri. Con questo non voglio dirti che oggi il mio stile sia completamente lontano dalle cose di Reinhardt, certi manierismi e virtuosismi rimangono, però ti assicuro che io sto continuando a modificarmi, ad allontanarmi da lui e non vorrei che fosse presa per presunzione, ma oggi sta avendo la meglio il mio modesto stile di suonare, anche se non potrò mai dimenticare Django.

Anche perché comunque la musica è quella…
Certo, quella è la metrica, ma se hai ascoltato il disco ti sarai accorto che oggi io non suono più come Django.

Tecnicamente cosa significa suonare lo swing?
Significa innanzi tutto avere un senso del ritmo molto preciso. Voglio dire che quando hai sotto una chitarra d’accompagnamento ed un contrabbasso che ti tengono il ritmo, ma senza batteria, le cose non sono così semplici, lo swing ti ripeto necessita del ritmo preciso. Io all’interno del gruppo Les Hot Swing sono il solista, ma spesso ci sono passaggi in cui improvviso con gli accordi ed allora se si perde il ritmo si sente subito perché l’unico punto di riferimento è il contrabbasso e l’altra chitarra, quella d’accompagnamento. Lo swing in fondo ha delle regole ben precise che vanno rispettate. Poi c’è un’altra cosa importante, che è quella di ‘entrare’ ed ‘uscire’ quando la parte solista è fatta dal violino; io ad esempio, quando suona il violino, mi sovrappongo all’altra chitarra con accordi diversi, spesso vado anche in controtempo rispetto a quello che fa l’altro chitarrista o abbellisco con note ovattate o con accordi… con i rivolti degli accordi. Poi c’è una maniera particolare di tirare le corde: ad esempio Reinhardt tirava la corda, almeno nel suo primo periodo, senza dare un vibrato, oppure dava il vibrato mentre ‘scendeva’. Io credo di aver introdotto nei momenti in cui accompagno, una tecnica un po’ banjoistica, io li chiamo frulli, ma per essere più chiari sono delle pennate veloci che impropriamente possono avvicinarsi al rasguedo; prendile però come indicazione perché le due cose sono dissimili.

E’ facile suonare lo swing?
Come tutte le cose farlo bene è difficile, se invece mi chiedi che difficoltà tecniche devi superare, allora credo di poter dire che è una musica accessibile, non c’è bisogno di grandi virtuosismi. Tornando al ritmo e ad un certo spirito che lo swing indubbiamente possiede, avvicinarsi a questa musica necessita di un qualcosa che o hai o non hai, ed in questo secondo caso lo swing ti è precluso.

Come è nata l’idea di fare un gruppo swing?
Un anno fa dopo un lungo soggiorno in Francia sono tornato in Italia ed ho messo su un gruppo con Iacopo Benci alla chitarra d’accompagnamento: devo dirti che trovare oggi un chitarrista che si limiti ad accompagnare è veramente difficile perché molti si sentono sminuiti da questa pratica che invece nello swing, ma non solo, è fondamentale. In poco tempo è nato un quintetto formato da sassofono, batteria, due chitarre e contrabbasso, ma io non sono mai stato contento di quello che usciva fuori e forse per rispettare degli impegni che avevo sono stato superficiale… voglio dirti che i musicisti di quel gruppo erano molto bravi, però suonavano moderno, batteria e contrabbasso ed anche il sassofono suonavano moderno mentre io e Benci facevamo swing: capisci che la cosa non poteva funzionare. Io ho cercato di far capire come bisognava suonare, ma non c’è stato niente da fare ed il gruppo si è sciolto. Ma questo non mi ha fermato e quando ho incontrato Stefano Tavemese, che già conoscevo da anni e con cui avevo suonato saltuariamente cose bluegrass, sono nati Les Hot Swing. Stefano canta e suona il violino, Iacopo alla chitarra, Piero Piciucco al contrabbasso ed io naturalmente; ora sono contento e soprattutto sono contento del risultato ottenuto col disco.

Cosa ti aspetti da un disco di swing con alcuni brani cantati in italiano?
Potrà sembrare un rischio eppure sono convinto che un musicista debba fare quello che sa fare meglio… certo io non potrei fare della fusion e sentirla come la mia musica, potrei farla e basta, ma questo non basta perché devi essere sicuro di dare il meglio ed io con lo swing mi sento come a mio agio. E’ un rischio perché sappiamo che questi progetti incontrano difficoltà dì ogni tipo già per essere soltanto conosciuti, ma credo che ci sia comunque un pubblico sensibile ad uno swing chiaramente ringiovanito e vestito a nuovo.
E poi… guarda, lo swing è una musica che qui da noi magari non ha una grande fortuna, ma nel nord Europa ci sono parecchi gruppi che suonano questa musica e come io conosco loro mi piacerebbe che loro, anche attraverso questo disco, conoscessero me e Les Hot Swing e quello che viene dall’Italia.

Prima dell’intervista parlando mi hai accennato che parallelamente allo swing, alla tua musica, stai vivendo un recupero della chitarra elettrica, quindi è consecutivo chiederti verso che forme vuoi muoverti visto che lo swing è per definizione una musica acustica.
Io lo swing non lo accantonerò mai, ma non posso certo nascondere che le mie prime esperienze chitarristiche avevano una chiara impronta elettrica, amavo Hendrix ed il chitarrismo americano. Siccome sto vivendo un ritorno di fiamma con la chitarra elettrica, sto formando un gruppo che sarà sperimentale anche se agirà all’interno di una direzione rock… ecco, dire rock non mi piace… comunque verso un rock melodico anche cantato… Il progetto in ogni caso non ha ancora una sua definizione e credo sia meglio riparlarne. Posso dirti che mi sono accorto che essendo nato con il rock ed avendo una buona conoscenza dello swing a volte mi sorprendo nel vedere come quasi al di fuori del mio controllo, le due cose si fondano.

Che rapporto hai con la chitarra d’ accompagnamento?
Lo swing ha una struttura obbligata, una chitarra deve accompagnare e l’altra fare i soli o gli abbellimenti, gli accordi glissati ed altre cose che comunque non sono ‘obbligate’. Voglio dirti che le due chitarre vivono di un rapporto strettissimo che deve essere rispettato; una chitarra deve fare un lavoro che sia preciso, stabile, fermo, mentre l’altra gli gira attorno e se Iacopo non stesse fermo io non potrei fare quello che faccio, quindi se vuoi, il rapporto è di massimo rispetto.

Nell’album ci sono due tue composizioni che, se non sbaglio, si staccano un po’ dallo swing…
Certo, vedi, io non posso dimenticare di avere delle basi musicali etniche ed una smisurata, passione per il folk, per quel folk con la F maiuscola, molto arcaico. Io da bambino ho vissuto in Grecia e quindi ho una sensibilità in parte balcanica. Ricordo quando sentivo i suonatori di bouzouki, di xantur o di cymbalum: oggi questo retroterra culturale appare evidente, come su Mr. Oso, dove volutamente ho cercato di fondere lo swing a qualcosa di balcanico. Su St. Cyr invece ho cercato di inserire nello swing il mio grande amore per la musica da camera; è un brano per sola chitarra e contrabbasso suonato con l’archetto.

Che chitarre hai?
Ho fatto il disco e normalmente suono con una chitarra semiacustica tedesca degli anni sessanta che si chiama Olimpia; uso delle corde molto dure, parto dalle 0.12, ed una penna durissima. Suono comunque anche un’altra chitarra, non sul disco, con corde di nylon; è una Francesco Olivieri che ha usato Iacopo nelle registrazioni — sai, tutti e due siamo mancini e quindi ci scambiamo facilmente le chitarre.

Giuseppe Barbieri, fonte Chitarre n. 42, 1989

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