Alison Krauss

Cronaca troppo tardiva di un concerto pregevole, queste mie poche righe vogliono essere l’ennesimo invito a muoversi per andare a sentire la musica dove si può, invece di aspettare che qualcuno la porti fin qui. Non intendo rompere le balle o tentare di instillare sensi di colpa a nessuno, non temete, ma un po’ di “vedete cosa avete perso!” non guasta mai.
Gli Svizzeri saranno anche Svizzeri, ma in fatto di country & bluegrass siamo molto più svizzeri (minuscolo) noi, quindi è stato quasi con piacere che ci siamo sobbarcati il viaggio di 5 ore (più o meno) fino a Basilea (ossia Basel) per goderci il concerto del più attivo e pubblicizzato gruppo bluegrass contemporaneo. Vado a parlarne.
Eravamo in sette, io e Martino Coppo e Nirvano Barbon in auto, Dino Di Giacomo e fidanzata Valeria in camper (camper!!!), e Massimo Gatti più consorte Britta che giocavano in casa…. Non male il viaggio, rapido e indolore, e gradita sorpresa trovare un posteggio proprio davanti al teatro.
Teatro bello, finto vecchio direi, con ottima acustica ambientale ma ahimè, scopriremo in breve, tragico service che non sa trattare la musica acustica.

Aprono i tre dell’Appalachian Barn Orchestra, vale a dire la famiglia Kruger, piacevoli, rilassati, molto vari nella loro proposta mista bluegrass/country/old-time/folk, sempre apparentemente a proprio agio e sicuri di ogni nota, come fa chi non deve provare niente a nessuno, attenti a mantenere costante il buon gusto anche nei momenti più a rischio di banale (Duellin’ Banjo, Orange Blossom Special, la solita routine) o di troppo sfacciatamente spettacolare quando Jens si lascia andare a farci vedere qualcosa di più sul banjo (madonna che bravo!).
Dice il saggio Barbon: “Consuma dei tasti che io nemmeno sapevo esistessero sul banjo…”. Inevitabile il bis, ma senza dubbi nazionalistici: ovazioni più che meritate.
Preparo la macchina fotografica, con superflash, zoom e 400 mm, e mi si dice che è vietato fotografare. Sulla mia decima bestemmia entrano Alison Krauss e band: Ron Block a banjo e chitarra, Adam Steffey al mandolino, Barry Bales al contrabbasso, e il recente acquisto Dan Tyminski alla chitarra.
L’inizio e’ un po’ stentato a causa di un sedicente fonico, probabilmente assopito per l’elevata temperatura ambientale, il quale si dimentica di aprire il microfono della Krauss, facendoci perdere non poche note di Two Highways (e si ripeterà ancora nel corso del concerto con lo stesso scherzettino, il demente). I signori Union Station, però, non sono dei pirla, e impostano il tono del concerto senza fatica con i soli primi tre pezzi, Two Highways appunto seguita da una potente Highway Paved With Pain sparata fuori dall’incredibile voce di Tyminski, e a ruota una Pike Country Breakdown breve, mozzafiato ed essenziale.

Dopo questo esordio tipo “Ora sapete chi siamo” il concerto prosegue su toni più pacati, con pezzi presi un pó da tutti gli album della band, e con gli ormai prevedibili problemi di suono causati dal suddetto mentecatto più complici. Ron Block ha poi il suo serio daffare con l’accordatura del banjo, che si ‘alza’ per problemi di temperatura quando lo strumento viene lasciato a terra nei pezzi in cui Ron suona la chitarra (e signori miei, che chitarrista è il nostro !). Il tutto, insieme con lodevoli ma poco efficaci tentativi di dialogo inglese/tedesco con un pubblico sicuramente esperto ma non dei più caldi, e forse anche a causa d’uno scazzo generale da smarrimento valigie a cura delle ferrovie svizzere (ahi ahi ahi…), fa sì che la disinvoltura non sia di casa nella Musiksaal dello Stadtcasino, anche se Adam Steffey si prodiga in simpatia nella sua funzione di MC.
Per fortuna compensano il mio iniziate malumore i primi flash svizzeri, ancorché discreti, quindi torna fuori la Minolta e compaiono i primi flash italiani…
Steel Rails, Winter Of A Broken Heart (con inspiegabile e mal gestita interruzione da parole dimenticate…), Foolish Heart, Wish I Still Had You, That Makes One Of Us, Cluck Old Hen (e ci guardiamo, io e Nirvano, con lo stesso sguardo tipo: non ci riusciremo mai, ma come fa quel maledetto Ron Block?), I Don’t Know Why, un paio di ‘fiddle showpieces’, pochi inediti a mettere a rischio (scarso peraltro) un set collaudato che fila liscio come l’olio.
Già, perché nel frattempo l’atmosfera si è un pó aggiustata, gli applausi si sprecano, e non badiamo quasi più alle inevitabili cazzate commesse al mixer, quindi ci stiamo veramente godendo un ottimo concerto di un grande gruppo. L’acustica ambientale viene sfruttata in pieno (e senza i disturbi da fonici) su Heaven’s Bright Shore, eseguita lontano dai microfoni, con la gente attenta a non farsi scappare nemmeno un colpo di tosse, ed è troppo presto per tutti quando arriva la classica frase “You’ve been a wonderful audience..” etc etc.

Ovviamente seguono i bis, richiesti con calore da un pubblico quasi in estasi: Big Mon fragorosa e Lookin’ In The Eyes Of Love pacata, e infine quasi a furor di popolo (be’…) Dark Skies a chiudere la serata.
Poi e’ il momento del tipico bluegrass fan, quando il gruppo firma autografi e scambia chiacchiere tipo “Ci siamo già incontrati in Kentucky tre anni fa, ricordi?”, “Ah-ha, hmmm, certo…”: in poche parole, come direbbe Alex Drastico, i fans si affollano attorno al gruppo per rompergli il c…
E lo facciamo anche noi, e come no, e chiediamo tutto sul mandolino e sul set-up del banjo e sui nonni siciliani di Alison (guardatela bene, non l’avreste indovinato?) e su come fa Barry ad avere quel suono su un contrabbasso elettrico e su come stanno quelli della Lonesome River Band da quando se n’e’ andato Tyminski ecc ecc ecc. ETC. Loro sono pazienti, e solo il pensiero delle cinque ore del viaggio di ritorno ci fa dire ciao a tutti e partire, con la cassetta pirata registrata su walkman già a tutto volume sul ‘car stereo’ (scusate, l’abitudine…).
Non siamo soddisfatti come altre volte siamo stati, l’ho già detto fin troppo, ma siamo comunque schiacciati dall’incredibile suono e dall’ineguagliabile musicalità di questo gruppo, che riesce a conquistarti a discapito di qualsiasi inconveniente, ambientale o da stanchezza, possa capitare loro.
Valeva la pena di andare fino a Basilea, sappiatelo, e regolatevi per la prossima volta…

Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 27, 1995

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