Un disco di questo genere rappresenta la peggior disavventura che possa capitare all’old time music: perdere completamente la carica primitiva, spontanea, selvaggia e viscerale, per diventare musica mummificata da salotto. Ma mettiamo un freno al nostro istinto ribollente (che vorrebbe liquidare il tutto con una precisa volgare espressione) e procediamo secondo logica e con calma.
Angel Band è formata da quattro ragazzi ed una ragazza, tutti americani (se le note di copertina non mentono) e per varie ragioni tutti residenti in Italia. All The Good Times esce per un’etichetta gestita dalla Ricordi, la Cardinale Records, orientata in direzione del folk anglo-scoto-irlandese più o meno progressivo (c/o i puerili esperimenti dei Whisky Trail), che ora, con un’operazione di mercato che sfiora il suicidio, strizza l’occhio anche alla musica tradizionale e popolare statunitense.
Il gruppo in questione ricalca per filo e per segno il lavoro svolto da innumerevoli suoi colleghi conterranei in patria: è cioè una riproposta in chiave professionalmente semiseria e di tono molto rilassato di materiale tradizionale, eseguito con strumenti acustici tradizionali, con spirito, mentalità e suono contemporanei. Fin qui niente di male; i nostri cinque amici possono essere paragonati con buona approssimazione alla Hotmud Family (Ohio) o ai californiani Arkansas Sheiks e Gypsy Gyppo String Band, e forse farebbero anche una più dignitosa figura.
Purtroppo l’album è il classico scontato prodotto di una string band urbana: rifacimenti che hanno smesso ogni legame con la tradizione rurale ed arrangiamenti volutamente sofisticati ed asettici privi di una benché minima traccia emotiva. Brani da ascoltare alle cinque del pomeriggio centellinando una tazza di tè o dopo cena in compagnia di schizzinose dame in abito lungo (in entrambi i casi è severamente vietato battere a tempo il piedino!) risultano essere Ole Molly Hair con banjo lindo lindo e voce da collegiale, la dolcificata alla saccarina Ragtime Annie, l’apatica Give The Fiddler A Dram.
Sempre in stile salottiero, e quindi del tutto fuori posto, è rivisitata la celebre ballata britannica Who Will Shoe Your Pretty Little Feet (Child 76, The Lass of Roch Royal) affidata alle doti vocali (liriche!) di Karin Brusletten e lontana miglia e miglia dai capolavori interpretativi di Peggy Seeger o Jean Ritchie. Nel parapiglia generale salverei solamente due cose: la bontà delle composizioni originali scritte da membri del gruppo (Sam, Lizbie Brown), che comunque a fatica convivono con il resto, ed alcune melodie irlandesi per violino che mostrano la reale bravura e la preparazione classica (rieccoci!) del fiddler Peter Contuzzi (c/o Gilderoy’s Reel inframmezzata da Red Haired Boy).
Alla mediocrità dell’album fa riscontro la candida ignoranza di Cinzia Ciccarelli, autrice delle note di copertina che nulla giovano all’incisione aumentando vieppiù la confusione ed il disimpegno. In tali note si dice tra l’altro che Moving Day (oggetto di un’orribile versione con un’irriverente superflua intrusione di cucchiai) è stata composta dal banjoista Charlie Poole alla fine dell’800. A parte il fatto che il brano, scritto da Andrew Sterling e pubblicato da Harry Von Tilzer, risale al 1906, l’affermazione è tanto più ridicola se si pensa che Poole nacque nel 1892 e lo incise con i North Carolina Ramblers solo nel 1930! Disco perfettamente inutile, se non dannoso, per quanto riguarda la tradizione musicale nordamericana e recensito qui unicamente per mettere in guardia i lettori interessati.
Cardinale 1601 (Old Time Music, 1979)
Pierangelo Valenti, fonte Mucchio Selvaggio n. 28, 1980