Country Dance

Quando si inizia a parlare di country music solitamente si evoca un ricco repertorio di immagini stereotipate: i bozzetti di costume che hanno fatto di Nashville un cult movie, gli sgargianti abiti di scena dei divi del genere che fanno tanto ballo in maschera, gli esuberanti attributi fisici di Dolly Parton, e chi più ne ha più ne metta. Alla lettera però ‘country music’ significa né più né meno che ‘musica rurale’, e dunque ogni paese anglofono avrebbe il pieno diritto di rivendicare una propria autoctona country music.
In Inghilterra di country music – o per essere più puntuali di country dance music, perché ad ignorare il sottinteso si rischia di fare una gran confusione – nella accezione corrente del termine si inizia a parlare nella seconda metà degli anni sessanta. Di country dances, ponendo l’accento sul fatto coreutico e non su quello musicale (anche se è bene sottolineare che questa distinzione ha senso oggi e per noi), si parlava almeno dalla seconda metà del cinquecento, quando la nobiltà della corte di Elisabetta I, tediata dalle complesse danze d’importazione continentale, rivolse la sua attenzione al più genuino divertimento popolare.

Si narra che la stessa regina sia rimasta in più occasioni ammirata a contemplare la vitalità dei balli dei suoi sudditi meno abbienti, ma anche se mancano testimonianze attendibili al proposito resta vero il fatto che non negò il suo favore all’occasionale inserimento di alcune country dances nei balli a corte, e già verso la metà del secolo successivo l’occasionale era divenuto la regola, tanto che nel 1651 l’intraprendente editore londinese John Playford poteva dare con successo alle stampe la prima edizione del suo The English Dancing Master, la prima e più celebrata raccolta di country dances (e relative musiche), che giunse alla sua diciottesima edizione nel 1728 quando già la bottega era passata nelle mani del figlio Henry.
Il settecento fu l’epoca d’oro delle country dances inglesi, che grazie ad un certo Fuillet furono introdotte alla corte di Luigi XIV, e dalla Francia si diffusero poi a macchia d’olio nell’Europa intera.

A decretarne il declino in patria furono per contrappeso le novità importate dal continente nel secolo successivo – il valzer, i cotillons, la quadriglia – che verso la metà di esso spopolavano nelle sale da ballo urbane. Paradossalmente l’eclissi della loro popolarità in Inghilterra coincise con il nascere dell’interesse dei loro riguardi in Scozia, tanto che oltre cento anni dopo i revivalisti sassoni furono in grado di dedicarsi nuovamente ai balli che i loro bisnonni avevano snobbato grazie alla vitalità che esse avevano dimostrato presso i vicini caledoni. Ma questa è un’altra storia, e non del tutto pertinente.
Torniamo a noi: va da sé che, una volta acclimatatesi nelle dimore nobiliari e borghesi e codificate in raccolte e manuali, le country dances avevano perso qualsiasi legame con la realtà popolare e rurale che in origine le aveva espresse. Forgiate dai loro fruitori colti, clonate da essi a proprio uso e consumo, come le ritroviamo nelle raccolte a stampa che ancora sono disponibili allo studioso, potrebbero per noi essere tutt’al più oggetto di superficiale curiosità. Anzi, a dirla tutta a noi del lavoro di Plyford e dei numerosi editori musicali che fecero successivamente fortuna con le country dances importerebbe ben poco se non fosse per l’inspiegabile interesse che esse rivestirono agli occhi dei folkloristi vittoriani, ed in particolare di Sharp.

La figura di Cecil Sharp
Fu infatti proprio il mitico Cecil Sharp (1859-1924), che pur non essendo tra i fondatori della English Folk Song Society ne divenne il più influente ispiratore, ad indirizzare la pratica revivalistica inglese nella direzione di un recupero che non si potrebbe definire altrimenti che archeologico delle country dances rinascimentali. Il suo interesse per la danza nacque, assai più tardi di quello per il canto, grazie a Mary Neal, animatrice dell’Esperance Club, un circolo nel quartiere londinese di St. Pancras dedito all’organizzazione di acconci (per l’epoca) intrattenimenti per fanciulle di umile estrazione. Mentre però la Neal, in questo precorrendo i tempi, concepiva la danza come pratica vitale ed un momento di socializzazione, Sharp volle imporla per il suo valore educativo, riuscendo ad introdurne l’insegnamento nelle scuola a partire dal 1909. In quello stesso anno dette vita ad una propria scuola di morris al Chelsea Physical Training College di Londra, dalla quale nel 1911 vi sorse la English Folk Dance Society. Come divulgatore ne fece poi di cotte e di crude, dedicando una serie di pubblicazioni di impronta più o meno didattica alle rituali dances – morris e sword dances -, attingendo effettivamente a materiale in buona parte raccolto sul campo (assemblato però in maniera a dir poco arbitraria), ed una seconda alle country dances, in cui reinterpretò oltre centocinquanta danze del corpus del Playford.

Come Sharp, che pure non era un novellino, ed i suoi contemporanei tutti abbiano potuto ignorare il fatto che, mentre essi si affannavano a resuscitare complicatissimi balli ormai dimenticati, la danza rimaneva uno dei momenti centrali della vita sociale delle comunità rurali inglesi, è un bel mistero. Resta però il fatto che l’impronta del maestro condizionò per lungo tempo la pratica della English Folk Dance Society, e poi della English Folk Dance & Song Society, nata dalla fusione di quella con la English Folk Song Society nel 1932, ed in una certa qual misura la condiziona ancor oggi. Se infatti nel primo dopoguerra, dopo la scomparsa di Sharp nel 1932, l’interesse verso la danza popolare si andò spegnendo fu anche e proprio per l’atteggiamento cupo e pedante dell’organizzazione, che si arroccò sul fronte della didattica con corsi dalla rigida disciplina e con tanto di esami finali e diplomini. Sebbene già durante gli anni venti e gli anni trenta iniziasse una presa di coscienza riguardo all’artificiosità di tale prassi, grazie alla raggiunta consapevolezza che esisteva una realtà viva e meritevole di esplorazione, la rivalutazione delle country dances e della loro funzione ricreativa dovette attendere il secondo dopoguerra.

English Folk Dance & Song Society
La EFDSS, che già aveva avuto modo di familiarizzarsi con le danze americane organizzando serate per i numerosi militari statunitensi di stanza nella capitale durante ed immediatamente dopo il conflitto, fu lesta a cogliere sotto la guida lungimirante di Douglas Kennedy l’occasione offerta dalla passione per le square dances che dilagò nel paese dopo la visita di Elisabetta e Filippo in Canada nel 1949, e si spense solo nel 1952 con il periodo di lutto nazionale che seguì la morte di Giorgio VI. La moda delle square dances fu in effetti importante non solo perché lasciò un bacino di potenziali nuovi adepti alle danze indigene (o quantomeno a quelle proposte come tali), ma anche perché si estese dalle sale da ballo urbane sino alla provincia profonda rivitalizzando le genuine barn dances che ancora rappresentavano un momento privilegiato della vita sociale in molti villaggi. Essa inoltre lasciò definitivamente in eredità ai revivalisti inglesi il cosidetto ‘prompt callin’‘, che sarebbe poi la consuetudine americana di chiamare le singole figure che si succedono nel ballo, che se da un lato standardizza inevitabilmente i passi dall’altro facilita l’inserimento dei danzatori meno esperti.

A questo punto, avendo finalmente rivalutato il ruolo delle cosiddette social dances – in quanto, all’opposto delle danze rituali eseguite da un gruppo chiuso di danzatori di fronte alla comunità, presuppongono una partecipazione collettiva -, e forte di un repertorio coreutico piuttosto vario che attingeva con spensieratezza a materiale americano, inglese, irlandese, la EFDSS riprese a far proseliti consolidando un proprio robusto circuito. A questo punto la cenerentola della situazione rimaneva la tradizione musicale perché ad onor del vero i gruppi di scuderia della EFDSS erano (e rimangono) legati ad un’impostazione ibrida, aridamente metronomica, e ad un repertorio cosmopolita e raffazzonato che certo non potevano essere definiti in nessun modo entusiamanti.

La New Wave della Country Dance
Fu per reazione a questa situazione che negli anni sessanta maturarono le premesse indispensabili alla nascita del movimento, eminentemente ‘sudista’, poi impostosi nel decennio successivo grazie a quelle che furono definite ‘new wave country dance bands’. Tutto iniziò intorno ad un club nel quartiere londinese di Islington, il Fox, destinato a diventare un mito. Dietro al Fox, a tirare le fila di tutto pur senza esporsi in prima persona, era un musicista e cultore delle tradizioni britanniche già allora considerato una sorta di leggenda vivente: Reg Hall. Fu grazie al vasto numero di contatti intessuti da Hall con cantanti e suonatori tradizionali che il Fox fu in grado di presentare pressoché in esclusiva in quel periodo autentica musica tradizionale in generale britannica, ed in particolare inglese, e sebbene il clima in esso mi sia stato descritto come freddo e scostante ciò gettò un seme destinato a sbocciare in una pianta rigogliosa. Hall in ogni caso si impegnò in prima persona con il trio dei Rakes, ed a lui ed a Mervyn Punkett si deve la prima incisione commercialmente disponibile di country dance music inglese, intitolata semplicemente English Country Music, frutto di una session organizzata dai due e da alcuni suonatori del Sud Inghilterra.

In realtà la disponibilità fu relativa, in quanto Hall e Bob Davenport per evitare problemi con il fisco si limitarono a tirare novantanove copie dell’album, che fu stampato nel settembre del 1965, ma esso rapidamente divenne un vero e proprio oggetto di culto, circolando abbondantemente grazie al già allora diffuso espediente della copiatura su nastro. Il disco, in effetti, si rivelò il media ideale per diffondere il verbo propagandato dal ristretto numero di musicisti che si identificarono nella passione di Hall e Plunkett. Volendo citare un primo significativo titolo anche nell’ambito della produzione di revival, la scelta più ovvia appare Welcome To Our Fair (Topic 12TS212; 1971), la prima ed unica produzione degli Oak. In realtà l’allora giovane quartetto quando entrò in sala di registrazione non si era ancora cimentato seriamente con la dance music – lo avrebbe fatto più tardi esibendosi come dance band -, ed il materiale strumentale ha un peso relativo nell’incisione: un set di gighe ed un valzer sul primo lato, un set di polche ed un’altra giga spaiata sul secondo. Il suo valore è, se mi si passa il termine, simbolico, perché pochi anni dopo i suoi ex componenti avrebbero assunto un ruolo di primo piano nel nascente movimento musicale.

Lasciando infatti Londra nel 1973 per trasferirsi nel Wiltshire, Rod Stradling e sua moglie Danny avrebbero poi dato vita alla più influente dance band degli anni settanta, la Old Swan Band.
Dal canto loro gli altri due membri del gruppo, Pete Webb e Tony Engle, continuarono con un nuovo gruppo, i Webb’s Wonders (poi Peta Webb’s Webb Wonders), attivo sia per concerti che per concerti a ballo sino ai primi anni ottanta. Ciò però che più importa è che Engle iniziò in quel periodo a lavorare alla Topic, la principale etichetta della scena folk inglese – magari non la più brillante ai tempi, come lui stesso ebbe ad ammettere poi ricordando la sua ammirazione per le produzioni Leader-Trailer -, ed assumendo la guida nel 1973 dette una netta sterzata alle sue produzioni.

Si devono tra gli altri ad Engle dischi oggi considerati storici, come la compilation strumentale English Country Music From East Anglia (12TS229; 1973), da lui stesso registrata sul campo, su cui appaiono il melodionist Oscar Wood ed il suonatore di hammer dulcimer Billy Bennington, Boscastle Brakdown (12T240; 1974), più genericamente dedicato al Sud del paese, in cui appaiono Scan Tester, Billy Cooper, Walter e Daisy Bullwer – nonché le loro controparti dedicate al Nord (il Northumberland), Bonny North Tyne ed Holey Ha’penny -, ed ancora l’antologia di vecchi settantotto giri The Art Of William Kimber (12T249; 1974) dedicata all’omonimo suonatore di concertina che collaborò con Sharp nei primi anni del secolo, che rimane uno dei rari documenti sulle morris dances oggi disponibili, e West Country Melodeon (12TS275; 1975) per la registrazione del quale convinse l’organettista del Devonshire Bob Cann a dimenticare il repertorio ‘moderno’ acquisito nel secondo dopoguerra ed a concentrarsi su quello assai più genuino ed affascinante acquisito in gioventù nell’ambito familiare.

Il colpo gobbo Engle lo fece però nel 1976, assicurandosi i diritti per il già citato English Country Music di Reg Hall e Mervin Plunkett (12T296) che finalmente godette di universale riconoscimento. Va detto, ad onor di cronaca, che nella seconda metà degli anni settanta la Topic si è progressivamente disimpegnata dal fronte della riproposta di materiale tradizionale inglese (e non solo inglese) e che per quanto riguarda la country music (tradizionale) il massimo che ha prodotto sono un paio di compilazioni (la seconda non strettamente strumentale) di materiale registrato nel Suffolk da Keith Summers, The Earl Soham Slog (12TS374) e Sing, Say And Play (12TS375), entrambe pubblicate nel 1978, e sebbene da anni corra la voca di un album interamente dedicato al suonatore di anglo concertina Scan Tester ancora non se ne è vista l’ombra. Se però si tiene conto che l’unico contributo per ciò che riguarda la tradizione campagnola inglese su vinile dato dalla Leader fu English Village Fiddler (LED 2068; 1976), che assemblava registrazioni del violinista dello Herefordshire Stephen Baldwin risalenti al 1954, l’impegno della Topic nel periodo in cui andava maturando l’interesse verso di essa appare in tutto il suo peso.

Ulteriore disponibilità di materiale, vuoi d’archivio che fresco di registrazione, si ebbe grazie a produzioni semiartigianali su cassetta. E’ il caso di vari titoli prodotti da Peter Kennedy (figlio del citato Douglas) con il suo marchio Folktracks, che offre parecchio sulle morris e le danze rituali e di cerimonia in generale, ed anche alcuni interessanti documenti monografici od antologici sulla country music, quali The Man In The Moon (FSA-45-085; 1975) e Devon Fiddler (FSA-45-087; 1975), dedicati rispettivamente a Scan Tester ed a Fred Pidegeon, Butter’d Peas; Country Dances From Yorkshire (FSC-60-211; 1975) e Rig-A-Jig-Jig; Norfolk Village Dance Music (FSd-30-328; 1980). Va comunque sottolineato il fatto che le cassette della Folktracks, tra cui pur si celano numerosi tesori, sono mediamente carenti dal punto di vista della confezione e della presentazione tutt’altro che selettive per ciò che riguarda i contenuti.

Meno ma assai meglio hanno fatto più di recente alcuni entusiasti ricercatori che hanno preferito muoversi su scala regionale, come Sam Richards e Tish Stubb che hanno setacciato il Devonshire rendendo poi disponibile il frutto delle loro campagne con i loro People’s Stage Tapes, basti citare tra gli altri Stepping Out (PST 07; 1982) -, o come l’instancabile John Howson, il cui territorio di caccia è il Suffolk, che anni fa utilizzava il marchio VintageTapes ed oggi ha varato quello Veteran Tapes. Howson è tra l’altro riuscito proprio di recente a farsi sponsorizzare la realizzazione di un doveroso tributo su vinile (purtroppo postumo) al suonatore di hammer dulcimer Billy Bennington, The Barford Angel (East Anglian Life EAL-1 ; 1987), che rimane forse la più significativa tra le recenti produzioni proponibili in vinile sul mercato ufficiale.

In attesa del boom
Riprendendo il filo del nostro discorso, interrotto da questa breve e puramente indicativa rassegna che non pretende in alcun modo di essere esaustiva, va sottolineato il ruolo chiave che ebbe la relativa disponibilità di materiale documentario nei primi anni settanta al di fuori del ristretto circolo degli studiosi e degli operatori istituzionali nel preparare il terreno per il tentativo revivalista di recuperare il senso ed il sapore della genuina tradizione inglese. Tentativo che suscitò polemiche a non finire, vuoi perché volutamente aggrediva in termini provocatori una mentalità da troppi anni cristallizzata, vuoi forse anche perché oggettivamente toccava interessi non proprio astratti (per dirla chiara il circuito danze monopolizzato dalla EFDSS era e rimane un bel business, indipendentemente dalle carenze manageriali che hanno portato oggi la benemerita associazione sull’orlo del tracollo).

Alcune delle critiche mosse ai cultori della country dance music in ogni caso non erano prive di fondamento. Quando Alan Ward, che allora produceva l’artigianale ma influentissima Traditional Music (rivistina d’assalto che sparendo lasciò un vuoto colmato solo di recente da Keith Summers con Musical Tradition, che ne ricalca il taglio e l’impianto grafico casalingo con in più una fresca ottica cosmopolita), criticò Hall ed i suoi epigoni nel 1976 recensendo la ristampa Topic di English Country Music, in fondo non aveva proprio tutti i torti asserendo che l’oggetto della loro passione era in qualche maniera una loro creazione intellettuale, il frutto di una mitizzazione: ad ogni buon conto l’organico ritratto nel disco era in effetti ‘artificiale’, e l’operazione frutto di un’attenta regia.

Meno sensate appaiono invece, con il senno di poi, le sue riserve a considerare degni di attenzione un repertorio e degli stili ‘certo non molto vecchi’, visti come un ricalco senza valore della musica di consumo del recente passato e di scarso interesse nell’ottica dello studio di tradizione, fermo restando il fatto che oggi, oltre dieci anni dopo l’uscita velenosetta di Ward, il materiale oggettivamente disponibile per valutare ciò che poteva essere la produzione musicale autonoma nella campagna inglese nei primi decenni del secolo è troppo scarso per tentarne una sia pur ipotetica e schematica mappatura in termini di stile o di repertorio, il problema non mi sembra fosse tanto quello di far luce su un oggetto di studio evidenziandone eventuali valori estetici, quanto piuttosto quello di indicare vie praticabili ad una futura realtà revivalistica.

Il denominatore comune tra le performances dei suonatori tradizionali inglesi del Sud è nella loro funzionalità alla danza. Elemento chiave è il ritmo; i rari abbellimenti sono generalmente introdotti non a scopo virtuosistico, ma per sottolineare gli accenti, e del tutto sconosciuti appaiono gli elaborati set di variazioni tanto cari ai musicisti scozzesi ed ai loro limitrofi colleghi a Sud del border. Materiale manoscritto di recente preso in considerazione sembra indicare tra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo una certa attenzione all’armonia nel repertorio dei loro componenti nelle funzioni religiose in veste di musicisti e coristi, con un discreto utilizzo di vere e proprie seconde parti (più una sorta di embrionale polifonia che un ricalco della linea melodica per intervalli di terza o quarta oggi consueto nel duet playing settentrionale), ma i documenti sonori disponibili non testimoniano alcuna sentita eredità armonica.

Dal punto di vista poi del repertorio dei singoli non esistono regole fisse: a melodie molto antiche, probabilmente sopravvissute grazie ad una precedente associazione con danze rituali, si affiancano brani resi celebri dai protagonisti irlandesi e scozzesi delle prime incisioni commerciali (di inglesi ve ne furono ben poche), polche e valzer del periodo vittoriano, successi del vaudeville riciclati in chiave strumentale. Il tutto evidentemente accorpatosi nel tempo per rispondere alle necessità dei frequentatori delle barn dances, che negli anni quaranta prevedevano un programma che di regola affiancava a balli che oggi noi considereremmo tradizionali qualche sopravvissuta country dance playfordiana e le danze di coppia di gran moda nelle città nei primi decenni del secolo come la quadriglia, i lancers e la polca, ed a quelle degli step dancers, ancora apprezzati nei pub dell’East Anglia non molti anni fa.

Che questa spuria sedimentazione potesse sconcertare era inevitabile, ma almeno aveva il pregio non indifferente di fungere da riferimento vivo e tangibile, e molti di coloro che aderirono alle istanze di cambiamento in quei giorni furono in grado di crearsi una certa credibilità ponendosi simbolicamente nel tradizionale processo di trasmissione orale tanto caro agli accademici grazie all’assidua frequentazione dei vecchi suonatori ancora attivi. Va detto inoltre che diffusa era l’esigenza di far si che il ritorno alle radici non rimanesse un evento fine a sé stesso e spesso esplicito il proposito di aprirsi a nuovi stimoli una volta consolidato un linguaggio musicale di partenza. Tanto che molti dei protagonisti di quegli anni, inclini allora a stigmatizzare ogni parodistico tentativo di imitare i musicisti irlandesi e scozzesi, li ritroviamo in primo piano nei fermenti rinnovatori che attualmente animano la scena inglese.

I gruppi storici
I gruppi che funsero da apristrada furono tre: la già citata Old Swan Band, i Flowers And Frolics e la New Victory Band.
La Old Swan, che come si è già detto nacque intorno a Rod e Danny Stradling, fu la prima ad incidere, la più produttiva dal punto di vista discografico, e si è rivelata alla lunga anche la più longeva. E’ infatti l’unica rimasta ufficialmente in attività, sebbene limiti alquanto le sue apparizioni. Il suo primo album, No Reels (Free Reed FRR 011; 1976), fu considerato un autentico manifesto musicale: come il titolo lascia intendere infatti è un concentrato interamente strumentale di materiale inglese a denominazione di origine controllata – polche, schottisches, gighe, marce, hornpipes, country dance tunes e persino qualche scampolo di music hall – che esclude contaminazioni scoto-irlandesi. Fu anche, ovviamente, una fonte di materiale preziosissima per molti gruppi di più tarda fondazione, che vi attinsero a man bassa.

Più varia la seconda uscita, Old Swan Band (FRR 028; 1979), che fu pubblicata con un certo ritardo sul previsto a seguito del fallimento della Free Reed, che mostrava il gruppo in una dimensione non esclusivamente danzereccia, da esibizione informale in un pub od in un club, valorizzando le doti canore di alcuni singoli e tentando un approccio al materiale strumentale in chiave di stile senza discriminarne più di tanto la provenienza. Il terzo album della Old Swan Band, Gamesters, Pickpockets And Harlots (Dingles’ DIN 322; 1981), è forse il più godibile ai nostri orecchi smaliziati, e per molti versi un punto di arrivo: sound maturo, magistrale utilizzo di un ricco arsenale strumentale, stuzzicante inserimento di un paio di monologhi dialettali. Esso è anche l’ultima ufficiale testimonianza della militanza in formazione di Rod e Danny Stradling; la loro fuoriuscita – significativa non solo dal punto di vista del contributo strettamente musicale, visto che Rod si è meritato l’appellativo di ‘guru’ per i suoi tentativi di elaborare in quegli anni una filosofia della country dance music – ha imposto una sterzata stilistica, e l’unica ulteriore produzione discografica della band, un EP per la Waterfront (WF EP 04; 1983) è contraddistinta da un sound sull’impasto di tre violini, affidati a Fi Fraser, giovanissima esordiente ai tempi di No Reels, a Paul Burgess ed a Flos Headford.

I Flowers And Frolics, nati nel 1974, residents prima al Florence e quindi all’Empress Of Russia – due clubs in quel di Islington dietro ai quali era Bob Davemport -, giunsero al vinile per la prima volta sempre grazie alla Free Reed nel 1977 con Bees On Horseback (FRR 016; 1977), un frizzante zibaldone di energici strumentali e music hall songs. Al di là di una qualche presenza nel loro repertorio di brani australiani, acquisiti grazie alla militanza nella originale line up dell’immigrato Graeme Smith, che li lasciò per tornarsene tra i canguri durante l’edizione 1975 del festival di Sidmouth, i Flowers di Been On Horseback sono già in tutto e per tutto quelli che entreranno nella leggenda, perché pur con varie permutazioni dei singoli, la loro formula musicale si è mantenuta inalterata nel corso degli anni.

Grande energia, sound compatto giocato sulle ance (organetti e concertina) in funzione melodica e sugli ottoni a sostenere la ritmica, nessuna concessione alle esigenze di eventuali ascoltatori quali arrangiamenti od altre voluttuarie sottigliezze. La loro seconda prova discografica, Sold Out (EFDSS BR6; 1984) si è fatta attendere parecchio ed ha anticipato di qualche mese il loro scioglimento ufficiale, sebbene di quando in quando siano disponibili per occasionali riunioni fuori dai patri confini (come forse avrete già rilevato dalla cronaca di una loro apparizione italiana apparsa recentemente su queste pagine). Un loro ritorno sulle scene inglesi è reso assai improbabile dal fatto che quattro dei sei membri dell’ultima line up (Trevor Bennet, Rob Gifford, Nick Havell e Dan Quinn) hanno dato vita insieme all’ex Oyster Band Chris Taylor ad una nuova dance band, i Gas MK 5, che sembra oggi essere finalmente riuscita a ritagliarsi un proprio spazio autonomo nel settore grazie a scelte musicali meno a senso unico di quelle dei vecchi Flowers.

La New Victory Band, a ricordo della quale resta un unico album, One More Dance & Then (Topic 12TS382; 1978), nacque intorno al quartetto dei Muckram Wakes – Roger ed Helen Watson e John e Suzie Adams -, e condivise con i Flowers And Frolics tanto l’utilizzo degli ottoni che l’inclinazione al vaudeville. Se fu di fatto il primo a sfaldarsi tra i gruppi storici, alcuni dei suoi componenti sono comunque rimasti attivi all’interno di altri gruppi, come ad esempio Roger Watson, che ha militato nei Penny Hop (poi semplicemente The Hop, scomparsi senza incidere) ed ora è membro dei Chequered Roots, nonché caller estremamente apprezzato, oppure John Adams, che dopo aver flirtato con la Old Swan Band post-Stradling ha di recente messo in piedi con un altro ex New Victory, Pete Coe, i Red Shift, che vengono da più parti indicati come una delle più interessanti nuove dance bands (anche se la loro prima uscita su vinile personalmente mi è parsa parecchio deludente e decisamente settentrionale nel sapore).

I nuovi protagonisti
Personaggio che non può essere in alcun modo identificato con il country music revival in senso stretto, ma che dette un contributo non indifferente alla causa e che sarebbe un’imperdonabile scortesia non nominare, è il poliedrico Ashley ‘Tiger’ Hutchings. Instancabile sostenitore di un folk elettrificato che fosse in tutto e per tutto inglese, Hutchings è noto soprattutto per aver fondato e guidato (se non altro dal punto di vista organizzativo) la Albion Band, sino a qualche anno fa laboratorio di ardite sperimentazioni musicali. Le vicende alquanto intricate del celeberrimo gruppo hanno in qualche modo messo in ombra una serie di progetti discografici altamente meritevoli di attenzione centrati prevalentemente sulla rivisitazione della tradizione strumentale, tra cui i più celebri rimangono Morris On ed il suo sequel The Son Of Morris On, dedicati alla riproposta di materiale legato alle danze rituali e di cerimonia in chiave di puro intrattenimento.

Di rado, sino a che la Hannibal non li ha recentemente ristampati compiendo un’opera più che meritoria, capitava di vedere citati due lavori che cercavano con risultati assai felici una mediazione tra il divertimento puro e semplice e l’impronta didattica come The Compleat Dancing Master (Island HELP 17; 1974), prodotto in sodalizio con John Kirkpatrick, e Rattlebone & Ploughjack (Island HELP 24; 1976). E’ soprattutto al primo, che scava nei secoli a partire dal Playford sino ai nostri giorni, alternando alla musica un florilegio di letture sul tema del ballo di autori lontani l’uno dall’altro per epoca e temperamento come Chaucer e Shakespeare, Hardy e Dickens, che Hutchings mostrò la sua sensibilità alle ragioni dei cultori della country dance music.

Utilizzò tra l’altro una versione di Off She Goes – una delle più note gighe britanniche, che di recente ha fatto da colonna sonora alla pubblicità di un noto termoconvettore – con una seconda parte anomala (c’è una mezza battuta d’avanzo!) che guarda caso era apparsa sul solito English Country Music di Reg Hall.
Altra gemma di questa sua produzione parallela, di cui personalmente aspetto con ansia una ristampa perché la mia copia è ormai consunta, fu Kickin’ Up The Sawdust (EMI SHSP 4073; 1977), session strumentale tra i vari membri esponenti del giro Albion e due musicisti tradizionali di gran calibro, il già citato Bob Cann ed il suonatore di hammer dulcimer Jimmy Cooper, nato e cresciuto in Scozia ma residente nel Dorset, che seguì il successo di The Prospect Befor Us (Emi SHSP 4059; 1976), il primo album in cui la Albion appariva ufficialmente in formula ‘dance band’.

Abbiamo citato John Kirkpatrick, ed è giusto dunque dedicare anche a lui qualche riga. In effetti il riccioluto virtuoso delle piccole fisarmoniche inglesi sarebbe alla lunga emerso per le proprie doti anche se il suo nome non fosse mai stato associato a quello di Hutchings, ma è fuor di dubbio che tanto la sua partecipazione all’avventura di Morris On (di cui fu l’autentico artefice musicale) che il riconoscimento di un ruolo paritario a quello del suo mentore The Compleat Dancing Master gli procurarono notorietà e stima. Formatosi nell’ambito della EFDSS prima dell’esplosione del country dance revival – cosa che in parte spiega la sua non comune statura tecnica -, fu pronto ad aderire alle istanze di quello, sostenendo che la semplicità della country dance music inglese era abbondantemente compensata dalla sua varietà e dalla sua energia (ricordo l’espressione ‘tons of balls’, che in certi ambienti non è considerata molto fine ma rende perfettamente l’idea).

Portò di fatto l’autentica tradizione inglese in contesti in cui difficilmente sarebbe giunta – si pensi alla sua militanza negli Steeleye Span ai tempi di Storm Force Ten e Live At Last – ed al contempo anticipò la tendenza sbocciata negli anni ottanta della riscoperta del materiale a stampa del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Nei quattro album siglati con la moglie Sue Harris, tra i quali va citato l’interamente strumentale Facing The Music (Topic 12TS408; 1980), non mancano melodie estratte dalle pagine di ‘An Extraordinary Collection Of Pleasant And Mery Humors Never Before Published, Containing Hornpipes, Jiggs, North Country Frisks, Morris’s, Bagpipe, Hornpipes And Rounds, With Several Additional Fancies Added, Fitted For All Those Who Play Public’, edito nel 1730 da Daniel Wright, o dall’oggi altrettanto celebre ‘Third Book Of The Most Celebrated Jigs, Lancashire Hornpipes, Scotch And Highland Lilts, Northern Frisks, Morris’s And Chesire Rounds, With Hornpipes The Bagpipe Manner’, dato alle stampe lo stesso anno da John Walsh.

Conseguente all’interesse di John e Sue alla country dance music fu la loro militanza negli Umps And Dumps, accanto a Tufty Swift, Derek Pearce ed Alan Harris. Pur senza sciogliersi ufficialmente la band è comunque letteralmente sparita dalla circolazione dai primi anni ottanta a seguito dei molteplici impegni dei suoi componenti, lasciando dietro di sé un album estremamente divertente, The Moon’s In A Fit (Topic 12TS416; 1980), che compie un passo oltre il music hall per ciò che riguarda il materiale cantato arrivando tranquillamente a riproporre tipiche armonie vocali stile anni quaranta.
I singoli rimangono comunque attivi, e di un certo interesse per quanto riguarda l’oggetto di questo articolo sono le ultime avventure di Tufty Swift, indefesso sostenitore del four-stop one-row melodeon (il due bassi a quattro registri con pomelloni), che già si era segnalato con il suo primo solo How To Make A Bakewell Tart (Free Reed FRR 017; 1977). Recuperato non so per quali vie il manoscritto nel quale Isiah Walton, musicista nella banda della milizia di Belper (villaggio del Derbyshire limitrofo alla sua nativa Ambergate) intorno al 1814, aveva diligentemente annotato il suo repertorio, si sta dando da fare per riportare in circolazione tale materiale, ed ha già realizzato con esso un primo stuzzicante album, You’ll Never Die For Love (Shark 04; 1985).

Avendo menzionato Kirkpatrick a partire dalla sua associazione con Ashley Hutchings, è quasi ovvio parlare anche della dance band che più ha tratto vantaggio dall’aver collaborato con lui, e grazie a quell’esperienza è emersa come gruppo di rilievo a metà degli anni ottanta. Parlo della Cock And Bull Band, che aveva esordito su vinile come Hemlock Cock And Bull Band con All Buttobed Up (Topic 12TS421; 1981), segnalandosi per l’originalità di un impasto musicale strumentale facente perno sui fiati assortiti (ed in particolare la cabrette) suonati dal polistrumentista francese Jean-Pierre Rasle. Hutchings reclutò tre quarti del gruppo nel 1983, quando l’intera formazione della Albion Band lo abbandonò per mettersi in proprio come Home Service, e sebbene l’esperienza per essi non sia durata più che tanto è stata sufficiente a smaliziarli, ed a rifinire l’altro strumentista melodico della band, Dave Whetstone, sia come arrangiatore che come compositore.

A Rasle ed a Whetstone soprattutto si deve il successo di Shuffle Off (Spindrift SPIN 103; 1983), secondo disco della Albion versione dance band, ma l’album per cui saranno in definitiva ricordati è Eyes Closed And Rocking (Topic 12TS440; 1985), seconda uscita della Cock And Bull e primo (ed a quanto mi consta unico) tentativo di realizzare un album di country dance music inglese finalizzato al puro ascolto. Tentativo pienamente coronato dal successo, anche se ovviamente frutto di una lunga permanenza in studio e di un sofisticato utilizzo di tutte le possibilità che esso offre, e dunque assai lontano dall’immagine live del gruppo, che non ha avuto un seguito forse per la decisione di Whetstone di mettersi in proprio. Rimanendo strettamente legata al proprio ruolo di dance band – il che non esclude occasionali performances canore – la Cock & Bull è stata forse la prima country dance band ad emergere negli anni ottanta come gruppo di riferimento, presto seguita da altre formazioni, per altro dotate ciascuna di una spiccata individualità.

Forse la più celebre tra esse è la Oyster Band, alla quale spetta il riconoscimento della leadership tra le formazioni elettriche odierne, nata come vacanza musicale dei membri dei Fiddler’s Dram con il nome di Oyster Ceilidh Band, con il quale siglò il suo album d’esordio Jack’s Alive (Dingle’s DIN 309; 1980). La sua conversione da dance band a concert group dovrebbe essere nota ormai sin nei dettagli ai nostri abituali lettori, e del resto il successo recentemente ottenuto dalle sue produzioni per la Cooking Vinyl (distribuita in Italia dalla Ricordi) la ha oggi proiettata ben oltre i ristretti confini del pubblico del folk. Resta comunque, monumentale testimonianza di un approccio fecondo alla dance music in generale e pietra miliare nella creazione di un nuovo ed originale country dance sound, lo smagliante 20 Golden Tie-Slackeners (Pukka YOP 06; 1984), album autoprodotto (a basso budget anche se la cosa non si nota) che ritrae fedelmente l’improvvisare libero dei singoli, consentito ai tempi della sua registrazione dall’assenza di uno strumento condizionante come la batteria.

Altra band significativa ed influente, che anticipò di un paio d’anni l’attuale apertura del pubblico e dei media folk anglosassoni per la musica estera (reazione al clima di opprimente xenofobia instauratosi prima della country dance music revival, ma da esso in qualche modo involontariamente perpetuato) e per strumenti come le cornamuse e la ghironda, i Blowzabella rappresentano oggi forse il più interessante organico di matrice acustica nato nel settore dance. Partiti un po’ alla ventura, con un organico di ottimi liutai che sopperivano alle loro carenze di interpreti con un contagioso entusiasmo, si sono fatti con gli anni le ossa, e la loro costante crescita qualitativa (aiutata da alcuni avvicendamenti nella formazione) è testimoniata da quattro album – Blowzabella (Plant Life PRL 038; 1982), In Colour (PRL 051; 1983), Bobbityshooty (PRL 064; 1984), The Blowzabella Wall Of Sound (PRL 074; 1986) – e da una interessante pubblicazione che raccoglie buona parte del loro repertorio, la Encyclopedia Blowzabellica, alla quale è abbinata una cassetta, The B To A Of Blowzabella.
Eclettici nell’assemblare un repertorio che non disdegna aperture contemporanee (i Violent Femmes ad esempio) hanno regalato ai loro conterranei scampoli di musica balcanica ed europea continentale – soprattutto francese – e calcato le orme di John Kirkpatrick nel riscoprire materiale inglese arcaico. Il loro nome, non a caso, è anche il titolo di una giga del diciottesimo secolo, che nella loro versione suona stranamente simile ad un tarantella.

Altro gruppo in voga che ha costruito le sue fortune sulla danza sono i Pyewackett, che si presentano come interpreti di ‘pop music degli ultimi cinque secoli’, riuscendo a fondere con successo spunti rinascimentali e schemi folk rock in una miscela trascinante. Per ciò che concerne le danze sono noti come specialisti del Playford, ma un Playford proprio unico, che si tinge di jazz e sconfina nel selvaggio.
Scarso a onor del vero il loro album d’esordio, Pyewackett (Dingle’s DIN 312; 1981), ma epico il loro terzo 7 To Midnight (Familiar FAM 47; 1985), che poi sarebbe il secondo a dominante strumentale della loro produzione, curato nei dettagli in maniera quasi maniacale, che concilia felicemente la danzabilità con il piacere dell’ascolto.

Nati come dance band quasi per celia (e rimasti lietamente tali) sono i Tiger Moth, nei quali ritroviamo Rod Stradling accanto all’ex bluesman Ian A. Anderson, direttore-editore dell’influente mensile Folk Roots. La loro prima uscita, un singolo anfetaminico inciso come vacanza dai membri del gruppo, allora attivi come English Country Blues Band, con l’apporto dell’ex Jumpleads Jon Moore, destò tanta sensazione che alla fine la band decise di esibirsi con regolarità sino ad incidere due album. Il primo, Tiger Moth (Rogue FMSL 2006; 1984), è singolarmente attraente per essere stato registrato tutto d’un fiato, mentre il secondo, Howling Moth, che dovrebbe essere in distribuzione mentre queste righe vengono stese, passerà probabilmente alla storia come primo disco di una dance band inglese realizzato su CD.

Altra formazione non disponibile al riciclo in concerto, e nella quale militano (non proprio dagli inizi, ma certo da quando il gruppo ha iniziato a far parlare di sé) i coniugi Stradling, sono gli Edward The Second And The Red Hot Polkas. Anche di loro abbiamo parlato spesso ultimamente: e come non riuscirci? Rod sembra aver colto l’opportunità di far nuovamente da coscienza ai circoli dei danzofili inglesi con molto tempismo, uscendosene con un provocante (notare: non ho detto provocatorio!) intervento sulle pagine di Folk Roots che stigmatizza la stagnazione di idee che nei primi anni ottanta ha contraddistinto il settore, affollato (fatto salva l’inventiva dei gruppi citati in questo articolo) di troppe bands preoccupate di non contravvenire ad una ‘nuova ortodossia’ che nessuno dei protagonisti del country dance music revival pensava sia pur lontanamente ad instaurare. E la musica degli E II, come familiarmente tutti li chiamano, è decisamente frizzante, con forti richiami ritmici afro e caraibici, ed un robusto apporto chitarristico di John Gill e Dave Greenhalg, entrambi in comproprietà con i Mekons, del summenzionato Jon Moore.

Uno sguardo al futuro
E con gli E II si conclude la carrellata sulle dance bands oggi in attività inevitabilmente viziata dalla necessità di rimanere legati in qualche modo ad una produzione discografica non sempre puntuale nel testimoniare l’attività di gruppi circondati di una grossa stima, ma che mancando della promozione del vinile non hanno avuto su scala nazionale il riscontro di altri loro colleghi. La tendenza comunque in atto, e credo sia emersa chiaramente, è verso un’allegra sperimentazione che riconosce al lavoro pioneristico di Old Swan Band, Flowers And Frolics e New Victory Band un innegabile valore in quanto creatore di un substrato comune su cui edificare una dance music ‘etnicamente’ caratterizzata, ma afferma il proprio diritto a percorrere vie nuove.

Le influenze afro e caraibiche riscontrabili nella musica degli E II più che l’eccezione sembrano essere la regola, e le rivendicano nell’ottica di una ricerca ritmica che spinge verso la musica di colore anche i già citati Gas Mark Five e Chequered Roots, tanto che all’alba degli anni novanta è probabile che in Inghilterra non si parlerà più di country dance bands, bensì di roots dance bands. Ma ciò, senza la devozione dei pugnaci sognatori determinati a fare di una musica dimenticata e fuori moda la propria bandiera che guidarono il country dance music revival inglese nel decennio scorso, non sarebbe mai e poi mai stato possibile.

A quanti fossero interessati ad affiancare alla lettura un ascolto d’assaggio senza enormi investimenti di capitale consiglierei Tap Roots (FROOT 002), seconda uscita discografica realizzata sotto l’egida del già citato mensile Folk Roots, che si ripropone di tracciare la storia delle new wave dance bands dalla metà degli anni settanta in poi. La sua uscita è talmente recente che ovviamente devo espormi sulla fiducia, ma sono certo conoscendo la serietà di chi propone che non farò figuracce. I nomi di cui si è parlato ci sono più o meno tutti, e parte del materiale è inedito: che chiedere di più dalla vita?

Gianni Cunich, fonte Hi, Folks! n. 30, 1988

Link amici

Comfort Festival 2024